il Rimino - Riministoria

Pagine «da dare alle fiamme».
Appunti di mano ignota in un testo del 1573.

Nel 1573 appare a Padova il «De arte magna». L’ autore è indicato nel filosofo Democrito di Abdera (460-370 a. C.). Si tratta d’una falsa attribuzione. Dietro il suo nome si nasconde il «padre dell’alchìmia» Bolo di Mendes (o Bolos di Mendes), città del delta del Nilo, che operò successivamente (attorno al 250 a. C.). Una copia del testo si conserva nella Biblioteca Gambalunghiana, con interessanti annotazioni in calce. Una prima edizione (Colonia, 1572), è molto rara: se ne conoscono soltanto tredici copie. (Un trattato del 1545 sull’algebra di Girolamo Cardano, 1501-1576 s’intitola anch’esso all’«Arte magna».)
Un esemplare del 1573, posseduto dalla Biblioteca dell'Accademia Nazionale dei Lincei, è stato esposto nel 2003 in una mostra su «La pratica dell'alchìmia». L’opera di Bolo fu tradotta in latino da Domenico Pizimenti, con il «placet» di fra Massimiano da Crema («non vi ho trovato, che repugni alla fede Chatolica»). Pizimenti, nella lettera latina di dedica al cardinale borgognone Antonio Perrenotto [Antonius Perenotius de Granvella, poi vescovo di Besançon, defunto nel 1586], riabilita la vecchia filosofia che considera accantonata per invidia da parte di «chimici ignoranti» e di ciarlatani che vi hanno sostituito le loro menzogne. Leggiamo la traduzione integrale del passo: «Stimai di riportare all’antica dignità questa parte della filosofia, divenuta la più bassa e la più insignificante di tutte, per colpa di chimici ignoranti; e pensai con coraggio di poter ottenere ciò soltanto per questo motivo: se gli scritti dei più celebri filosofi, finora completamente celati nel segreto dall’invidia occulta degli altri, fossero stati diffusi nel comune godimento di tutti gli studiosi con il nostro lavoro e la nostra cura, allora sarebbe stato rovesciato il sistema di pensiero nelle elucubrazioni degli eruditi, dopo aver reputate vane le menzogne dei ciarlatani, soprattutto dei più recenti».
L’«Arte magna» è l’alchìmia, cioè l’«Arte» per eccellenza, come scrisse Zosimo di Panopoli (Akhmim, Egitto) nel III secolo, il più antico degli «chimici», in un libro dedicato all’uomo divinizzato Imhòtep, architetto e medico egizio. Il titolo rimanda quindi a idee nettamente pagane, riproposte pure in testi successivi. Zosimo fu discepolo di Maria l'Ebrea, ideatrice del sistema di riscaldamento per contatto indiretto col fuoco mediante un recipiente con acqua o sabbia, che ancor oggi chiamiamo «bagnomaria».
La metallurgia alchemica presenta inizialmente ricette per la produzione dell'oro, dell'argento, di pietre preziose e di coloranti. Poi, scrive Michela Pereira, il discorso si allarga al contesto filosofico come si vede nei più antichi trattati propriamente alchemici: «Physikà kaì mystikà» («Fisica e mistica», III sec.) attribuito a Democrito, e «Operazioni manuali» di Zosimo. In questi testi si sostiene che il vero sapere, ottenuto con la rivelazione dei «segreti» della natura, è orientato ad un fine salvifico: la perfezione dei metalli si trasmette all'artefice stesso delle manipolazioni alchemiche. Allude a questi testi il traduttore dell’«Arte magna» quando parla di «chimici ignoranti» e di ciarlatani che hanno sostituito le loro menzogne all’antica verità della filosofia.
Ad apertura del breve scritto di Bolo, leggiamo: «Natura natura gaudet, et natura naturam vincit, et naturam retinet», la natura gioisce della natura, la natura vince la natura, la natura domina la natura. Questo «aforisma ermetico» enuncia la legge delle simpatie (e antipatie) universali: ogni oggetto fisico ha corrispondenze occulte con altre nature in virtù di un’attrazione reciproca tra le essenze. Anticamente i «chimici» aggiungevano al proposito: «Sia ringraziato Iddio che dalla cosa più vile del mondo permette di ottenerne una tanto preziosa», come l’oro, ha sottolineato Pedro Rojas García presentando nel 1999 un testo di Francisco De Quevedo (1580-1645), «Sueño del Infierno», satira contro l'alchìmia del 1608. De Quevedo fu in Italia nel 1611. Tornò in patria nel 1616, poi fu rimandato con incarichi politici nel nostro Paese, in Sicilia ed a Venezia. Sospettato di aver partecipato ad una (leggendaria) congiura veneziana per annetterla alla Spagna, fu mandato in esilio, cioè nei suoi possedimenti. Come sospetto autore di una satira sul re, fu condannato nel 1639.
Bolo indica il modo fare l’oro: prendere del mercurio, fissarlo con la magnesia o con lo «stibium» (stibiato) o con lo zolfo non passato sul fuoco, o con la calce viva o l’allume o l’arsenico. Gettando la polvere bianca sul rame, si sarebbe visto il rame perdere il suo colore. Infine versando della polvere rossa sopra l’argento, si sarebbe ottenuto l’oro. Bolo garantiva che ponendo la stessa polvere rossa sopra l’oro, si sarebbe prodotto il corallo d’oro o «guscio di oro». La polvere rossa era ricavata dalla sandracca (resina) o dall’arsenico o dal cinabro.
Nessuna magia, spiega Bolo, ma soltanto la natura che trionfa della natura. Chi ha la conoscenza delle sostanze, aggiungeva, le sa combinare e non fatica inutilmente: le singole «nature» s’attirano, trasformano e rigenerano fra loro. Bolo riprende il pensiero di Ostane, un mago persiano contemporaneo di Serse (V sec. a. C.), di cui era cognato.
Lo scritto di Bolo nel volume tradotto da Pizimenti, è seguìto da pagine di Sinesio, Pelagio, Stefano Alessandrino e Psello, tutti autori del ramo alchemico. Stefano, ad esempio, vissuto nel VII sec., fu filosofo ed a Costantinopoli insegnò anche geometria, astronomia e musica. Lasciò un commento su Aristotele ed un’opera di astronomia.
Ha osservato Michela Pereira che nell’opera di Bolo «si narra la scoperta dei segreti dell'alchìmia (ricette come quelle dei papiri) attraverso la discesa nei sotterranei di un tempio e il ritrovamento di scritti antichissimi che rivelano le operazioni occulte della natura». Sono temi, questi, già presenti «nella tradizione filosofica e tecnico-pratica che circolava, col nome di Ermete, a partire dal I sec. a. C.». Era «una produzione testuale in cui si riteneva fosse conservata la sapienza posseduta dai sacerdoti dell'antico Egitto, che insegnava una ‘via’ filosofica verso l'unione col principio divino». Questo è l’aspetto che Pizimenti vuole riprendere e riproporre in chiave non eretica nel mondo cristiano.
Quanto detto sinora, serve per comprendere le osservazioni lasciate nelle pagine conclusive del volumetto di Bolo da una mano ignota sull’esemplare gambalunghiano. Con una grafia minutissima, nelle quattro piccole facciate finali del volume (formato «in ottavo»), si trova un «Avertimento a chi leggerà», in parte cancellato da ampie macchie d’inchiostro nero che coprono anche sottili righe rosse, usate simbolicamente come segno di riprovazione. L’«Avertimento» inizia così: «Se io fossi padrone di questo libro, più che presto lo consegnerei alle fiamme, non perché contenghi in apperto thesi di filosofiche verità, ma un baratro oscurissimo di falsità». Più avanti la mano ignota ricorre al «theologo Dante», di cui cita due versi: «Che giova nelle fata dar di cozzo?» (Inf. IX, 97: a che serve opporsi al volere divino?), e «Non son gl’editti etterni per noi guasti» (Pg, I, 76). (Dante, seguendo le idee del suo tempo, non condanna l’alchìmia ma soltanto chi falsifica i metalli preziosi: vedi Inf. XXIX, 119.)
Poi la mano ignota scrive: «Et in fine, tanto docet Pythagoras suo silentio, quanto Philosophi Chimici scriptis suis» (il silenzio era una pratica pedagogica nella scuola pitagorica per i più giovani allievi). Nell’ultima facciata, un mano diversa contrappone il proprio giudizio alla lunga contestazione della quattro carte precedenti: «Chi ha scritto qui non ha inteso niente questo libro». (Per comprendere il senso di quest’affermazione, va ricordato che sul finire del XVIII sec. si tenta di «cristianizzare Democrito», come dimostra l’attività del bolognese mons. Antonio Felice Marsili con uno scritto apparso nelle Prose de' Signori Gelati del 1671, pp. 299-318, vedi p. 308, ed intitolato Delle sette de' filosofi e del Genio di Filosofare.)
Sulla diffusione dell’alchìmia a Rimini fra XVI e XVII sec., ricaviamo alcune notizie dalla rivista «Miscellanea francescana», V, 4, 1890, conservata presso il Fondo Piancastelli della Biblioteca Saffi di Forlì (che, per le notizie fornitemi, ringrazio nella persona della dott. Antonella Imolesi Pozzi). Scrisse P. Livario Oliger, O. F. M. che un frate osservante riminese, Pacifico Stivivi, sul finire del 1500 compose un libro dal contenuto «abbastanza bizzarro», la «Somma de 4 mondi», raccontando «le ‘Visioni’ del proprio padre defunto, o meglio le rivelazioni ad esso fatte sulla cosmogonia da un angelo che l’aveva condotto attraverso gli spazi, spiegandogli tutti i misteri della creazione del mondo». Sempre in «Miscellanea francescana» (pp. 101-102) leggiamo che Pacifico Stivivi nel 1602 si offrì al duca di Mantova «per un suo secreto d’alchìmia», materia per la quale egli subiva le persecuzioni dei confratelli. Commenta la redazione della rivista: «Saranno stati tentativi d’incerto risultato, tuttavia meritano esser studiati gli esperimenti d’alchìmia essendo stata la madre della chimica. E vediamo questo Stivivi esser in perfetta buona fede e aver meritato l’accettazione imperiale e poi quella del Duca di Mantova».
Antonella Imolesi, a proposito di Stivivi (vedi «Cultura e scienza in Romagna nel ’500», Forlì 2003, e «il Ponte» n. 41/2003 e in Riministoria) ha scritto che, pure se la Chiesa aveva condannato magia ed astrologia, «molti rappresentanti della alte gerarchie ecclesiastiche si appassionarono all'astrologia». Tra le interpretazioni cristiane del fenomeno, rientra appunto la «Somma de 4 mondi» (1581) di Pacifico Stivivi, che dedicò l'opera a Francesco de' Medici granduca di Toscana. Stivivi nel 1602 era alla corte di Praga, «luogo a cui accorrevano alchimisti da ogni parte d'Europa» per ottenere la protezione di uno specialista del settore, il medesimo imperatore Rodolfo II d'Asburgo, da cui gli giunse la ricordata «accettazione». Stivivi, conclude Antonella Imolesi, in questo trattato fa confluire «le Sacre Scritture, la cabala, l'alchìmia, la fisica aristotelica, il profetismo allora in voga». Stivivi, morto nel 1611, fu guardiano di San Bernardino, come racconta Raffaele Adimari nel suo «Sito riminese» (1616).
I temi alchemici non passarono di moda nei tempi successivi. Isaac Newton non tralasciò di studiarli per vent’anni, cercando di individuare la materia prima, «il Leone verde», detto pure la pietra filosofale, il segreto delle trasmutazioni, il «Mercurio filosofico» (azoto), capace di sanare tutte le infermità. C. G. Jung nel secolo scorso definì «il Leone verde» come immagine allusiva all’ordine universale nell’inconscio dell’alchimista.
Su Democrito, al quale fu attribuita l’«Arte magna», un autore antico, Suida (68 a. C.-2 d. C.), scrisse che egli fu detto «ridente» perché «rideva della vacuità degli uomini». Aveva insegnato: «Astieniti dalle colpe non per paura ma perché si deve. La felicità non consiste negli armenti e neppure nell'oro…». I suoi eredi cercarono la scorciatoia per produrre l’oro. Chissà le risate che il «vero» Democrito si è fatto leggendo quello che gli misero in bocca i posteri.

Antonio Montanari


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