Accademia dei Lincei riminesi

4. Al caffè di Santarcangelo.
La Scienza medica dei Lincei va tra la gente

L'Accademia dei Lincei riminesi, inaugurata il 19 novembre 1745, funziona più o meno regolarmente per dieci anni. Non esiste un elenco completo ed ufficiale delle dissertazioni tenutevi. Le notizie che ho raccolte, derivano da carte gambalunghiane lasciateci dal suo fondatore, Iano Planco.
La prima dissertazione, «sopra l'utilità della lingua greca», è svolta dall'abate Stefano Galli il 3 dicembre 1745. Come scrive Giuseppe Garampi a Bianchi (19 dicembre 1750), la lingua greca è considerata «necessaria specialmente» agli ecclesiastici che debbono studiare, e vogliono farlo «fondatamente», le Sacre Scritture, le Opere dei Padri e la Storia ecclesiastica, che sono alla base «della buona teologia». Il 27 maggio 1746 lo stesso Garampi tratta ai Lincei «Delle Armi gentilizie delle famiglie».
Nel giugno successivo Planco parla contro l'abuso dei vescicanti che (scrive lo storico della Medicina dottor Stefano De Carolis), sono «preparazioni farmaceutiche ad uso topico dotate di un'intensa azione irritante, il cui principio attivo veniva estratto da un particolare genere d'insetti coleotteri, le cantaridi». Essi venivano utilizzati «per le forme patologiche più disparate», anche se inizialmente erano stati applicati per la sola peste bubbonica.
Giovanni Paolo Giovenardi, appena un riassunto di questa dissertazione appare sulle «Novelle letterarie», legge l'articolo del giornale fiorentino a Santarcangelo, nella propria scuola di Filosofia e nel caffè «dove concorre ogni sorte di Persone». Giovenardi vuole «diffondere que' Lumi» che vi sono contenuti, «a comune vantaggio di tutta la Società» contro lo «strano, e crudele rimedio de' Vescicatorj» del quale fanno abuso «certi Medici, o siano Fanfaroni» marchigiani, e per convincere «i Malati o gli Assistenti a rifiutarli».
Pure Bianchi criticherà i medici marchigiani, accusandoli di agire in base a «ciancie» e «fanfaluche», e di usare unicamente «purganti eccedenti» e «vescicatorj», «per li quali, si può dire, che essi piuttosto scortichino, che medichino i loro clienti». Ma le cose non dovevano andare diversamente anche altrove, se Amaduzzi nel 1777 da Roma osserva con una sua corrispondente: «I Medici e i Chirurgi hanno sin ad ora storpiato ed ucciso il genere umano impunemente».
La dissertazione «De' Vescicatori» esce a stampa a Venezia nello stesso '46.
Il ravennate Giuseppe Zinanni, autore di un volume intitolato «Delle uova e dei nidi degli uccelli» (1737), fra il '46 (quando è ammesso tra gli accademici) ed il '47 invia a Bianchi due dissertazioni: ce n'è rimasta soltanto una, la «diligente osservazione sopra le uova, e sopra la generazione delle Lumache terrestri, ed altre chiocciole fluviali, o d'acqua dolce». Questo lavoro, letto da Planco ai Lincei, non è mai stato ricordato, così come il nome di Giuseppe Zinanni (o Ginanni, 1692-1753) non è mai apparso tra gli accademici riminesi aggiuntisi ai dieci originari.
Ricordiamo questi altri nuovi accademici. Nel 1750 sono ammessi: Lucantonio Cenni (ex alunno di Bianchi, «maestro di rettorica nel seminario di Bertinoro»; e nel '64 fondatore a San Marino, dove faceva il maestro di scuola, dell'Accademia dei Titani, il cui motto fu «Decus et Libertas»); Lodovico Coltellini (medico cortonese); Giovanni Lami (bibliotecario, teologo e professore di Storia ecclesiastica oltre che fondatore e direttore dal 1740 sino alla morte, avvenuta nel 1770, delle «Novelle» fiorentine); e Daniele Colonna (ex alunno, medico friulano).
L'anno successivo, Giacomo Fornari (ex alunno, sacerdote); Giuliano Genghini (ex alunno, giurista, e poeta dal «carattere faceto e irriverente», come lo ha definito Enzo Pruccoli); Francesco Fabbri (ex alunno, sacerdote); e Gaspare Deodato Zamponi (medico marchigiano). Nel 1765, Luigi Masi (medico, studioso di Anatomia, esercitò a Roncofreddo e Longiano). Non conosciamo la data d'ingresso ai Lincei del conte Francesco Roncalli Parolino, noto per la sua posizione contraria all'innesto del vaiolo. Complessivamente, gli accademici che ho censiti sono così ventuno.
Dopo il '46-47, nelle cronache sui Lincei c'è un vuoto che arriva al 28 febbraio 1749, quando Bianchi recita l'epistola «De monstris», poi pubblicata nello stesso anno a Venezia in due edizioni. La seconda edizione, come leggiamo nelle «Novelle» fiorentine, contiene due «Appendici». Nella prima, si «descrive un uovo coll'immagine del Sole impressa nel ventre di esso, il qual uovo nacque in Rimini». La seconda riguarda invece un tema anatomico, ripreso due anni dopo da Bianchi in altra seduta accademica: una lesione del cervelletto provoca la paralisi nel corpo dalla stessa parte del lobo offeso, non in quella opposta come avviene per il cervello. Morgagni fu l'unico ad accogliere bene la teoria di Bianchi, subito pubblicata in un periodico veneziano, aggiungendo però: il riminese aveva riosservato «attentamente ciò che tanti altri Notomisti osservando, non avevano con pari esattezza descritto».
Gli argomenti delle due «Appendici» sembrano oggi totalmente contrastanti: per Bianchi invece affrontano fenomeni naturali equivalenti, da indagare con pari attenzione scientifica. Taluni casi di «mostri» da lui studiati, appartengono alle deformità, anticamente considerate manifestazioni di prodigio (il «monstrum» dei latini).
Giambattista Della Porta (1535-1615) ne aveva riferito in un ampio trattato sulla «Magia naturale» (distinta da quella «diabolica»), capace di aiutare il compimento dei fenomeni fisici, partendo dal principio che conoscerli significa dominarli. Sospettato d'eresia, Della Porta abiurò senza fatica.
Planco è influenzato dallo spirito classificatorio di Ulisse Aldrovandi (1522-1605) e Fortunio Liceti (1577-1657), entrambi filosofi, medici e docenti rispettivamente negli Studi di Bologna e Padova. Essi elencano tre possibili cause per i mostri: una soprannaturale; una dovuta all'intervento di un dèmone (o d'un maleficio); l'ultima riconducibile a fatti fisici.
La «Monstrorum historia» di Aldrovandi è pubblicata postuma nel 1642 dal suo concittadino Bartolomeo Ambrosini (1588-1657, medico, naturalista e prefetto dell'Orto botanico universitario felsineo). Il trattato di Liceti, «De monstrorum natura caussis», è anteriore (1616). Bianchi, che aveva a disposizione in Gambalunghiana entrambi i testi (oltre a quello di Della Porta), sostiene che i mostri si possono dividere in tre specie. Ci sono quelli che diventano tali nella gestazione. Altri (quelli che hanno un dito, un braccio, un piede o qualche altro membro o viscere in eccesso), derivano dalla conformazione naturale, da una qualche forza «plastica» o da «natura ipsa ludente»: alcuni, come riassumono le «Novelle» fiorentine, sono «prodotti nell'uovo 'ab initio' da Domineddio». Infine ci sono quelli che nascono «ex morbo».
Planco rifiuta l'ipotesi del dèmone e del maleficio, presente in Liceti ed Aldrovandi. Quando presuppone che alcuni di quei casi siano provocati da «natura ipsa ludente», richiama concezioni che appartengono alla cultura del suo tempo. La teoria medievale degli «scherzi di natura», è presente pure in molti studi naturalistici del primo Settecento sull'origine dei fossili. Planco ritiene che la perfezione dell'ordine naturale, sia smentita dai fenomeni mostruosi. Alla regola si accompagna sempre l'eccezione. Questo scritto fa convogliare sul medico riminese le prime avversioni romane.
La storiografia medica più recente, spiega De Carolis, ritiene «degni di nota», tra tutte le opere d'argomento medico pubblicate da Bianchi, «solo i suoi studi teratologici» (inerenti cioè alle malformazioni corporee), tra i quali «l'opera più importante» è appunto il «De monstris». Essa è indirizzata a monsignor Giuseppe Pozzi, di Bologna, archiatro pontificio straordinario e presidente dell'Accademia dell'Istituto delle Scienze di quella città. Pozzi, classe 1697, era più giovane di due anni rispetto a Bianchi. Egli aveva diritto al titolo di monsignore (come capiterà pure a Planco), per la carica di archiatro che non obbligava al celibato: di lui, si ricordano due matrimoni.
Invece Bianchi non si sposò mai. Conosciamo una sua vicenda che sembra sentimentale, e che finì tragicamente. Nella propria autobiografia latina del 1742, egli racconta del viaggio compiuto due anni prima a Venezia, progettato da tempo e ripetutamente rinviato per la malattia di un'amica che definisce donna superiore per bellezza, ingegno e costumi. A causa della sua scomparsa, scrive, provò così grande tristezza che da quel momento gli amici e la città presero ad essergli insopportabili. Si trasferì dunque a Venezia, spiega, non tanto per divertirsi, come aveva deciso prima, quanto per liberarsi dal dolore che lo aveva colpito. Sembra, fatte ovviamente le debite proporzioni, di riascoltare il lamento di Francesco Petrarca che fugge «ogni segnato calle» per far acquetare «l'alma sbigottita» (Canzoniere, CXXIX, Di pensier in pensier, di monte in monte).
Antonio Montanari


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