il Rimino - Riministoria


Una volgarità intollerabile nel Cavaliere.
La verità sul confino fascista

di Ettore Masina


So bene che, secondo il Manzoni, dovrei - ormai "vegliardo" - "volgere la mente ai casti pensieri della tomba", ma a me pare che la vecchiaia mi spinga piuttosto a una dolorosa consapevolezza della pericolosità di certi fenomeni del nostro tempo e del nostro Paese. (Ho appena compiuto i 75 anni e fin da ragazzo mi sono occupato di quel che avveniva in Italia: non ricordo un governo né un parlamento in cui sedesse gente tanto volgare.)
Mi sembra di veder montare una marea di volgarità intollerabile, "da caserma", come si diceva una volta: cola a fiotti dai programmi d'intrattenimento del monopolio televisivo e dagli spot pubblicitari che li costellano, tracima da certi film che fanno la gioia dei botteghini, prepara la ferocia delle risse da stadio nelle pagine sportive di quotidiani illustri, invade talvolta le nostre case con il turpiloquio di cui sono innocenti portatori i nostri bambini.
In questo panorama, che purtroppo non è solo italiano, naviga a gonfie vele Berlusconi, quello che l'altra sera "Striscia la notizia" definiva con finezza "capocomico del Consiglio".
Le sue gaffes, involontarie o no, punteggiano ormai i nostri giorni con tale frequenza che qualcuno comincia a dire: "Basta, basta, non parliamone più, Berlusconi non può diventare un'ossessione".
Comprendo questo senso di sazietà e lo condivido. Ma anche sono convinto che non raccogliere più le parole del Cavaliere, considerandolo una macchietta o un disturbato mentale che ogni tanto sbarella, sarebbe sbagliatissimo: Berlusconi non è soltanto pericoloso per la sua politica, che ricalca ormai con ogni evidenza quella del protocollo della P2, ma anche come produttore di una cultura deteriore. In altre parole: mi sembra che ormai viviamo in un regime, se non altro culturale, e dobbiamo con pazienza e lucidità individuarne i veleni per difendercene, difenderne i nostri cari e, se ci riusciamo, qualcuno dei moltissimi distratti. Berlusconi, per la carica che riveste, per la sua continua esposizione mediatica, per il suo potere radio-giornalistico-televisivo, è il modello e l'ideologo più influente di un modo di pensare e di dire del tutto deteriore.


2
Nel corso della mia professione mi è capitato di conoscere molti selfmademen, capitani d'industria venuti su dalla gavetta, ammirevoli per capacità di fatica e per una intelligenza che non era soltanto spregiudicata astuzia. Parlo di quelli che a Milano vengono chiamati i "cummenda", cari al cinema e alle commedie d'una volta, nella rivista bravamente interpretati da Bramieri e Tino Scotti, i quali aggiungevano al personaggio un cuor d'oro nascosto sotto la rude scorza del "fasi tucc mi" (faccio tutto io). Avendo deciso che la sua vocazione era far soldi, tutto il resto, per il cummenda, ne conseguiva: o con lui (con la sua fame insaziabile) o contro di lui, in una congiura universale dalla quale egli aveva il diritto di difendersi con qualunque mezzo.
Con lui: se stesso, e forse, forse, non sempre, la famiglia. Contro di lui, tutti gli altri: lo Stato inefficiente ed esoso, il parlamento che pretendeva di fabbricare leggi, regole e controlli, la Guardia di Finanza considerata una banda di grassatori con le stellette (da corrompere), i sindacati "rompiballe" (o peggio) da contrastare e contenere; persino la moglie se chiedeva qualche attenzione (il cummenda amava dire: "Io vado in fabbrica anche il giorno di Natale"). Assoluto disprezzo per gli inferiori, sospettosa cordialità con gli eguali, la loggia massonica come stanza di compensazione.
E però, anche, in pubblico, una calorosa esibizione di buoni sentimenti: la moglie presentata come una santa, "povera donna, io non ci sono mai"; no allo Stato ma sì alla Patria, bandiera e forze dell'ordine. Mecenatismo oculato, in modo, se possibile, di guadagnare qualcosa di più della buona fama; netta preferenza per il finanziamento di squadre di calcio, di pallacanestro o di ciclismo, che gli valessero il titolo, ambitissimo, di "patron". Per non interrompere la propria concentrazione ossessiva sul lavoro, nessuna attenzione agli altri, un totale disinteresse per il bene pubblico, tutt'al più un po' di annoiata beneficenza.
Essendo lui vivo e fiorente, tutto il resto andava sdrammatizzato, perché delle due l'una: "O non ci si può far niente, e allora inutile pensarci; o ci si può fare qualcosa, allora, tò, prendi su un milione, e lasciami lavorare". Lo stesso per quanto riguardava la cultura (roba da lasciare agli avvocati e ai preti) e persino il passato: "Ma dài, ma dài, non è mica come te la raccontano, io c'ero, tutte queste brutte cose non le ho viste". Lo sapesse o no, il suo motto era quello dell'Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini: "Non rompetemi gli zebedei".
La maschera di bonomia del cummenda cadeva di fronte a chiunque si proponesse, secondo logiche che non erano soltanto marxiste, una sia pure minima redistribuzione del reddito, un po' più d'interesse dello Stato per i meno abbienti.
Allora il suo odio diventava selvaggio, disposto a tutto. Odiava in primis i comunisti, assassini tagliagole, servi di Mosca, sempre e soltanto orientati alla rapina di chi aveva fatto grande l'Italia. Odiava gli intellettuali che "passavano" alla gente domande scomode, scomode consapevolezze. Odiava i socialisti: fino a che non arrivò Craxi a mostrare che - per "ammodernare" il Paese - lo Stato, gli enti pubblici potevano chiudere molti occhi sulla violazione delle regole che da sempre il cummenda considerava soltanto un impaccio. Allora si vestì dell'abito buono dell'amico del Capo, il doppiopetto come corazza da cavaliere del Capitale.
Il cummenda aveva di sé un'infinita stima. Comunisti e sindacati a parte, era convinto che gli operai gli volessero bene, dovessero volergli bene: perché era lui che gli dava lavoro, senza di lui sarebbero stati dei morti di fame, e perché lui - come potevano non capirlo? - voleva bene a loro. Me ne rammento uno che quando tornava dalle vacanze, andava a cercare i suoi operai più vecchi per raccontargli del suo viaggio, degli alberghi favolosi in cui era stato, delle donne bellissime che aveva "adoperato". Convinto che loro ne godessero con lui.


3
Ho parlato dei cummenda usando il passato, ma alcuni di essi sono ancora vivi e vegeti. Vi ricorda qualcuno l'identikit che ho tracciato? Giuro che ho parlato di persone che ho conosciuto e di cui potrei fare i nomi.
Ma è un fatto che avere un esponente della categoria come Presidente del Consiglio a me pare pericolosissimo da tutti i punti di vista, ma soprattutto, come dicevo, dal punto di vista culturale. Una subcultura cummendatizia, con propensione all'avanspettacolo se deve conquistare le plebi o accreditarsi come simpatico amico alla corte dei potenti, è, infatti, non soltanto distruttiva della Cultura con la C maiuscola, ma contagiosa, in un degrado continuo del linguaggio politico. Uomini che parevano, almeno dal punto di vista del curriculum di studi, persone di buon livello finiscono per adottarne le parole, i gesti, il rifiuto del passato e via dicendo.
Per esempio: mentre il presidente della Repubblica va ricordando in ogni piazza d'Italia i valori della Resistenza, fondamento della nostra Costituzione, non soltanto il presidente del Consiglio non lo segue mai, neppure in occasione delle celebrazioni ufficiali, ma la seconda carica dello Stato, il presidente del Senato, Pera, provocato dal poeta Sanguineti, si rifiuta di dare un giudizio sul fascismo: lui non è uno storico, dice. Non basta: il ministro degli Interni, Pisanu, che sembrava il meglio del bigoncio governativo, ingiuria la magistratura; il guardasigilli, Castelli, non tace la sua detestazione per gli intellettuali, i portavoce del partito-azienda (l'ex comunista Bondi e il livido Schifani) negano o capovolgono, ad ogni loro apparizione televisiva, la evidente, chiarissima, provata verità; per non parlare del Tremonti ammazza-galline (e vecchietti). Il clima culturale del governo sembra appiattito sulle "esternazioni" (eruttazioni) del Senatùr, sulle ciniche freddure di Berlusconi, come quella a proposito dei malati di AIDS.


4
Essendo "nuovi", nel senso di rampanti, cummenda e cavalieri non si curano del passato e lo seppelliscono sotto i luoghi comuni dei loro predecessori che, per esempio, nel fascismo hanno visto un regime in cui, una volta date robuste sovvenzioni, potevano fare a piacer loro nelle fabbriche e negli uffici.
Ma facendo questo in dichiarazioni che i mass-media moltiplicano, devastano la cultura, soprattutto quella giovanile. I giovani hanno il diritto di conoscere le verità della storia, anche le più dolorose. Questo passato, lo vogliano o no, è sulle loro spalle. Non conoscerlo impedisce loro di vedere il futuro.
Come ha scritto qualcuno: "Se l'avvenire dell'albero e la sua crescita sono sopra la terra, le radici sono sotto di essa. Ciò significa che l'avvenire è alimentato dal passato. Guai a chi non coltiva il ricordo del passato: egli semina non sulla terra ma sul cemento".
Contrariamente a ciò che credono molti adulti, i ragazzi desiderano sapere da dove vengono, da dove vengono le loro famiglie, da dove la comunità nazionale.
Da quando ho pubblicato un romanzo su un ragazzo che si arruola nella repubblica di Salò, molte scuole lo hanno adottato ed io sono poi andato a parlarne con i ragazzi. Sono stato a Pescara, a Foligno, a Bassano del Grappa, a Montagnana, a Gardolo, a Merano, a Rimini, in una decina di scuole romane e sto per iniziare un nuovo "giro".
Qualche insegnante ha organizzato le assemblee con un po' di tremore, ma gli incontri sono sempre durati più a lungo di ogni previsione. Non penso che fosse merito mio.
Sbagliano quegli adulti che credono che la scuola deve tenersi fuori da certi argomenti. Benché si tratti di questioni che appartengono a un'epoca ormai lontana, in realtà si tratta di temi attualissmi. Le dichiarazioni di Berlusconi sulla "benignità" del regime fascista e sul comportamento, tutto sommato, benevolo di Mussolini (condanne al confino come "villeggiature", sia pure forzate e mani nette di sangue) non solo indicano la cultura del cummenda-Cavaliere, travisano la storia e sponsorizzano il ritorno trionfale di un revisionismo che sta, almeno nel Sud, intitolando strade e persino costruendo monumenti a gerarchi fascisti.


5
Se ciò è dovuto soltanto a ignoranza, allora è necessario e urgente ricordare che, sotto il fascismo, centinaia e centinaia di persone furono costrette a fuggire all'estero, affrontando spesso una durissima povertà. Migliaia furono costrette a lasciare i posti di lavoro perché si rifiutavano di iscriversi al partito e a campare di espedienti. 5 mila furono i prigionieri politici, non pochi condannati a lunghe pene detentive. 17 mila i "confinati"
I confinamenti, quei forzati esilî che potevano protrarsi per anni e anni, Berlusconi, sorridendo, li definisce "villeggiature". Erano residenze obbligate in paesi sperduti del profondo Sud o delle isole minori: luoghi, alcuni, poco più che miserabili, altri la cui la bellezza coincideva con una grande durezza di condizioni di vita. Per i piccoli e i medi borghesi il confino significava la rovina delle carriere o del lavoro professionale; per gli operai e i contadini e per le loro famiglie la miseria assoluta. I fascisti locali (e la paura) si incaricavano di far sì che i congiunti dei "confinati" e dei detenuti, vivessero in un isolamento totale...
Quanto ai morti, il fascismo stroncò con la sua violenza, squadristica o di Stato, le vite di molti, fra i quali personaggi di grande levatura: Giovanni Amendola, liberale, bastonato in due diverse aggressioni, tanto selvaggiamente da morirne poco dopo; Piero Gobetti, un ragazzo di venticinque anni, di luminosa intelligenza, editore di una rivista alla quale collaboravano molti dei nostri migliori intellettuali, assalito a colpi di manganello e deceduto in esilio, a Parigi, per i postumi delle ferite riportate; don Giovanni Minzoni, valoroso cappellano militare, la testa fracassata da due assalitori, mandante il quadrumviro Italo Balbo; i due fratelli Rosselli, di generoso coraggio e di alte capacità politiche, trucidati in Francia, a cura dei servizi segreti del regime; Antonio Gramsci, forse il più lucido pensatore del nostro Paese, un genio (per usare una parola abusata, che però, nel suo caso, appare del tutto appropriata), gravemente ammalato di tbc, deportato senza pietà da un carcere all'altro; Giacomo Matteotti, deputato socialista, difensore dei poverissimi braccianti del Polesine, rapito e trafitto da venti coltellate dopo che Mussolini aveva gridato a un gruppo di fedelissimi: "Ma non c'è nessuno capace di farlo tacere"? E l'elenco potrebbe continuare.
Del delitto Matteotti Mussolini rivendicò orgogliosamente, alla Camera, ogni responsabilità: a questo modo nacque nel sangue l'Era Fascista.
Durante il ventennio, molto altro sangue sporcò le mani del "benevolo" Mussolini. Centinaia di migliaia di giovani e di meno giovani e di mano giovani mandati a morire nelle guerre "imperiali": In Etiopia e in Spagna, in Libia, in Grecia, in Russia: uccisi non soltanto dal fuoco nemico ma anche, e più, dalla mancanza di armi e di equipaggiamento, da ordini insensati, da inettitudine dei comandanti.


5
Che le dichiarazioni di Berlusconi sul regime fascista siano state rese in un clima conviviale, da champagne, come è stato poi detto, peggiora la gravità dell'episodio. Quando uno si "rilassa", generalmente dice la verità e dunque torniamo alla pochezza delle convinzioni e nozioni del Cavaliere. Ma quando si deforma la verità e specialmente quando, come in questo caso, la si caricaturizza, si provoca spesso anche un'ondata di dolore.
Ne sono stati travolti gli ebrei italiani e B. si è degnato di chiedergli scusa: ma ne sono stati investiti anche i figli dei perseguitati dal regime fascista o i superstiti della lotta partigiana che videro tanti compagni e compagne uccisi, spesso nei modi più crudeli, o avviati ai lager di sterminio. A tutti questi nostri concittadini, il presidente del Consiglio non ha presentato scuse. Io penso che dovremmo in qualche modo mostrare la nostra solidarietà a questi anziani, cui dobbiamo riconoscenza affettuosa.


NOTIZIE. Nel mese d'agosto e nei primi giorni di settembre sono stato poco bene (il caldo!) e, come non m'era mai capitato, incapace di scrivere; a questo si è aggiunta l'impossibilità di usare il computer nei siti della nostra villeggiatura. Per questo ho una montagna di posta inevasa, LETTERA di agosto non è mai stata scritta e anche questa parte a fine mese. Adesso mi sembra di stare bene, ricomincio a girare per le scuole a parlare con i ragazzi che hanno letto il mio "Il Vincere" e mi propongo di smaltire al più presto la corrispondenza. Prego tutti di scusarmi.
Ho perso,fra l'altro, il contatto con il caso di Amina. Me ne vergogno, anche se prima della partenza avevo avuto dalle donne musulmane che seguivano il processo la richiesta di non organizzare più proteste che, questa volta, rischiavano di essere controproducenti. Sono, adesso, felice dell'assoluzione.

Avevo già scritto questa LETTERA e stavo per inviarla, quando ecco le dichiarazioni di Berlusconi a Wall Street:. "Nel 1994 (...) se un imprenditore non fosse sceso in campo, i comunisti avrebbero preso il potere (...). Oggi siamo il paese più americano di tutta l'Europa (...). Abbiamo anche delle bellissime segretarie. Provate a investire da noi perché almeno lo potrete fare in letizia (...), gli imprenditori sono sulle copertine dei giornali dove sfoggiano belle signore. Il mio governo ha abolito la tassa di successione (...). L'invito potrebbe essere: venite a morire in Italia".

Ettore Masina

All' indice de il Rimino

All'indice degli scritti di Ettore Masina

All'
indice di Riministoria


844