Riministoria 

Antonio Montanari

Tra erudizione e nuova scienza

I Lincei riminesi di Giovanni Bianchi (1745)

 

6. Le dissertazioni accademiche (II)

Dissertazione n. 25: l’11 febbraio 1752, «ultimo venerdì di carnovale», l’Accademia tiene un’adunanza straordinaria e «solenne», con musica ed esibizione della «venusta» cantante ed attrice Antonia Cavallucci in Celestini [135]: «deinde Plancus maiusculam dissertationem habuit de praestantia Artis comicae, seu comoediae» [136]. Il caso che nasce in seguito a questa radunanza di «carnovale», coinvolge in apparenza soltanto la persona di Bianchi, ma finisce per avere conseguenze pure per la sua Accademia. Esso culmina nella già ricordata condanna all’Indice, e si articola in due distinti momenti, che meritano di essere analizzati ai fini della storia dei Lincei riminesi. Inizialmente Planco viene attaccato soltanto per l’ospitalità concessa in casa propria ad una cantante che, oltretutto, si esibisce nel corso di una riunione lincea; poi egli è denunciato al Sant’Uffizio per il contenuto della sua dissertazione. I due momenti si tengono strettamente tra loro: entrambi sembrano aver origine in un atteggiamento pregiudiziale nei confronti dell’attività e dei comportamenti scientifici di Bianchi, e che mira a rendergli sempre più difficile l’attività accademica.

E’ già stato ricordato che «quell’esibizione incontrò, nel concerto di polemiche a non finire, anche la disapprovazione di accademici» [137] risentiti e scandalizzati come Lodovico Coltellini, il quale approva la diceria in sé («Lodo, e lodai la sua lezione sull’arte comica»), ma ritiene inopportuno «lodare una bagasciuola, una puttanella dichiarata, che tali sono generalmente queste contrabbandiere, che millantano il nome di virtuose» [138]. Non era soltanto Coltellini, a pensarla così a proposito delle attrici. Il celebre padre Daniele Concina, «violento e torrentizio teologo domenicano» [139], le definisce «putiduae meretriculae», leziose puttanelle, in un volume apparso nello stesso 1752, nel quale in tutta fretta, mentre già i torchi erano al lavoro, aggiunge un paragrafo dedicato proprio all’Arte comica del nostro medico, accusato di scrivere da pazzo [140]. Il teatino padre Paolo Paciaudi definisce la Cavallucci un’«infame sgualdrina» e «cortigiana svergognata», d’accordo con Giovanni Lami che la definisce semplicemente, alla francese, una «figlia di gioia» [141]. Allineati con tutti costoro dovettero essere anche gli ecclesiastici curiali cittadini, se il caso genera quelle che un corrispondente romano di Planco, Giuseppe Giovanardi Bufferli [142], chiama «illustrissime, e Reverendissime insolenze, che mal’a proposito si sono fatte al degnissimo Dottor Bianchi»: della «sua stravaganza in proposito della Signora Antonia Cavallucci si è qui parlato quanto forse non sarassi parlato in Rimino», per merito soprattutto del vescovo della città, Alessandro Guiccioli [143]. I difficili rapporti fra Bianchi e la Chiesa riminese non sono una novità: i primi contrasti risalgono addirittura al 1726, dopo che il vescovo Davìa rinuncia alla carica [144]. E di certo non migliorano quando Planco si pone in diretta concorrenza con le istituzioni culturali ecclesiastiche che, come lui stesso ricorda, entrano in crisi dopo la contemporanea partenza da Rimini di Davìa e di Leprotti [145]. Questa situazione di contrasto dovette durare a lungo, sino alla morte di Planco, se il vescovo di Rimini nel 1777, il forlivese Francesco Castellini, non voleva che fosse stampato l’elogio funebre di Bianchi, scritto da Giovanni Paolo Giovenardi [146].

Giovanardi Bufferli chiama «lodevole» il contegno assunto da Bianchi «nel rimettere a Bologna [147] con tanta sollecitudine la medesima Signora Antonia», e spiega che attende «con desiderio» la dissertazione sull’Arte comica, «tanto più che un certo Frate Scolopio [148] stamperà tra non molto certo libro, con cui intraprende tra l’altre cose a sostenere che questi Comici furono mai sempre infami». Giovanardi Bufferli aggiunge il 18 marzo:

 

[…] io sono impaziente di leggere la di lei dotta Dissertazione, al sentimento della quale sarà forse presso che uniforme quello d’un’opera, che ora stassi scrivendo da questo Padre Bianchi famoso Zoccolante Lucchese [149], ed à V. S. Ill.ma molto ben cognito in proposito dell’antico, e moderno teatro [150].

 

Appena ricevuta a Roma una copia dell’Arte comica, Giovanardi Bufferli la consegna in lettura «in autorevoli gentilissime mani», e ne chiede altri esemplari «per sodisfare all’erudita curiosità» di alcuni amici [151]. Da Bologna monsignor Giuseppe Pozzi [152] ironizza, privilegiando l’aspetto dei rapporti personali di Bianchi con la Cavallucci, rispetto a quello relativo al contenuto del saggio, che ai suoi occhi passa in secondo piano:

 

Ho letto l’orazion vostra, e ad altri Amici l’ho comunicata. Tutti concludono che facendola eravate innamorato, mà parimenti tutti conchiudono, che siete un valent’uomo, e benche l’Amore nella vostra, e nella mia età non possa far che un nido assai disaggiato, pure merita compatimento, quando ne escono pulcini sì ben covati …[153].

 

Bianchi dovette smentire la teoria dell’innamoramento [154], se Pozzi gli rispose:

 

Che voi foste innamorato, o nò della Cavallucci non avete à rendermene raggione, e qual sia stato l’impegno vostro non cerco, non intendo che vi confessiate ora de’ peccati vostri. Unicamente, io alla buona vi dico che avete gittato il tempo, e che è meglio assai né impegnarsi né per maschij né per femmine [155].

 

Anche dopo la scomparsa di Bianchi, il suo preteso innamoramento continuò a suscitare polemiche se non scandalo, come dimostra la breve biografia di Planco apparsa ne Il Giornale di Medicina [156] in cui si legge:

 

Amò stranamente per pochi mesi, mentr’era sessagenario, una Comica Romana, che avea nome Antonia Cavallucci, alla quale compose e fece stampare alcune sue Poesie. Per essa recitò e stampò il suo Discorso sull’Arte Comica, il quale ha poi meritata la indignazione della Sacra Congregazione dell’Indice.

 

La difesa che fu tentata da mano anonima, sottolineava che «l’Amore in Medicina viene considerato trà le Cagioni Procatartiche della Sanità, se moderato ed onesto» [157]. Nel caso specifico, per Bianchi, quell’avventura «anzi che avvilirgli lo spirito, contribuì a suscitargli vieppiù pellegrini soliti frutti della dotta Sua mente», cioè lo portò alla stesura dell’Arte comica.

Nella sua dissertazione, Planco s’avventura in un terreno particolarmente pericoloso. Non gli interessa infatti tracciare soltanto un profilo storico dell’arte teatrale, sottolineandone l’utilità, ma vuole con elegante sottigliezza (diremmo, più giuridica che letteraria) rimettere in discussione il trattamento riservato dalla Chiesa agli «istrioni», privati ancora allora in Francia dalle leggi canoniche «fino de’ Sagramenti, e dell’Ecclesiastica Sepoltura». Bianchi precisa che le leggi civili non si riferiscono agli attori «in genere», ma a quelli che si esibiscono in «alcuni crudeli, e osceni spettacoli, e specialmente de’ Gladiatori, e de’ Mimi, o Pantomimi» (che ricorrono ad «oscenità» nei loro «sozzi atteggiamenti»), per cui meritatamente sono puniti essi, e sono «scomunicati» quanti vanno a vederli. Tutt’altra cosa, aggiunge, sono «quegl’Istrioni, o Commedianti» i quali rappresentano «Tragedie, o Commedie oneste più atte a correggere piacevolmente il vizio, che ad eccitare spirito di crudeltà, o di libidine nelle persone». A sostegno delle proprie idee, Bianchi cita san Tommaso, il quale ritiene che «l’Officio dell’Arte degli istrioni […] è ordinato per sollevar l’animo degli uomini, e che coloro che l’esercitano dentro de’ debiti modi, non sono mai in istato alcuno di peccato; e che a loro si conviene una giusta mercede per le loro fatiche». Planco infine si chiede: se la Chiesa permette la lettura delle commedie di Plauto e Terenzio [158], allora non si dovrebbe permettere anche la loro rappresentazione? Perché debbono essere considerati «infami» quei comici che «le rappresentano venalmente», mentre «diventano onesti quei che le rappresentano gratis»?

Come risulta da questi passi, lo scandalo che avvolge la radunanza accademica «di carnovale», ha le sue radici, più che nell’esibizione della bella cantante romana, nelle ardite opinioni del Restitutore dei Lincei: con severo puntiglio padre Concina le esamina minuziosamente, e con durezza le censura nel suo De spectaculis [159]. Planco considererà padre Concina il vero ed unico responsabile della sua condanna [160]. Sostenendo retoricamente la nobiltà dell’arte comica, Bianchi finisce per proclamare in modo non troppo sottinteso il bisogno di libertà per la cultura in genere [161], e non soltanto per commedianti od attricette in particolare. A Planco non interessa proporre una riforma del teatro comico come invece, molto prima di lui, aveva fatto Muratori [162], preoccupato per ragioni di ordine morale del fatto che la scena fosse finita «in mano a gente ignorante» che poneva «tutta la sua cura in far ridere», ricorrendo ad un genere letterario consistente «non poca parte […] in atti buffoneschi e in sconci intrecci, anzi viluppi di azioni ridicole, in cui non troviamo un briciolo di quel verisimile che è tanto necessario alla favola». Bianchi rovescia l’impostazione muratoriana, di cui ignora le finalità: egli non vuole un teatro nuovo, ma semplicemente la licenza di rappresentare quello antico, del quale non mette in discussione nulla, consapevole della grandezza letteraria di quegli autori, come Plauto e Terenzio, che lui stesso, come si è visto, ricorda nel passo riportato.

I fulmini dell’Indice si abbattono sul capo di Bianchi [163], con il decreto [164] del 4 luglio 1752. Possiamo ricostruire tutti i particolari della vicenda, attraverso le lettere [165] che nel 1752 Giuseppe Garampi e Planco si scambiarono, ed altre epistole di corrispondenti romani di Bianchi [166], l’avvocato Gianfelice Garatoni, monsignor Marcantonio Laurenti e l’abate Costantino Ruggieri. L’Arte comica è stampata in marzo, ed immediatamente a Roma [167] se ne parla male. Il 26 aprile Garampi, subito dopo averla ricevuta, confida a Planco di prevedere che l’opera «potrà incontrare presso varie persone qualche eccezione». I punti controversi sono due, gli spiega il 6 maggio: «quello ch’ella dice della onoratezza dell’arte comica presso i Romani; giacché abbiamo gli antichi Giuristi, che l’annoverano fra’ le infami, e non sò se da un passo di Livio pure si raccolga lo stesso. Ma io non ho avuto il tempo di riscontrarlo». Ed «il vedere, ch’ella contrapponga all’osservanza che praticano i Francesi delle Canoniche Leggi, quanto si fà dalla Chiesa protestante d’Inghilterra». Bianchi nel Discorso [pp. 18-19] sostiene che

 

l’invitta e gloriosa Nazion Britannica non ha avuto difficoltà di fare seppellire solennemente in Londra nella cattedrale di Westimster, Chiesa, dove si coronano, e dove si sepelliscono i loro Re, la valorosa e ricchissima non men che bella loro Attrice Madamigella d’Oldfield, rendendole in morte per poco i medesimi onori, che poc’anzi renduti aveano all’immortale loro Filosofo Newton [168].

 

Il 20 maggio l’abate Ruggieri avvisa Planco:

 

mi dispiace che qui in Roma i vostri nemici ne [h]anno fatto un chiasso straordinario per quel paragone che voi fate fra il rigorismo, come voi dite, della Chiesa di Francia, colla generosità di quella d’Inghilterra nel dar sepoltura magnifica a quella loro famosa Attrice. Veramente la cosa è un poco avanzata, né dovevate voi far questo paragone fra la Chiesa Anglicana Eretica e la Gallicana Cattolica. […] Insomma [h]anno fatto un baccano grandissimo per tutta Roma in tutti i ceti e ranghi di persone; e vi è stato chi ha detto di denunciarvi al S. Uffizio. Queste cose mi sono dispiaciute in etterno, ed ho fatto, e fò quanto posso per difendervi con dire che questa [è] una cosa fatta in Carnovale, onde non merita tanta dote. Voi sapete che jo vi sono buon e leale amico, e che ho stima infinita de’ fatti vostri; e perciò mi sono indotto a scrivervi tutto questo per vostra Regola.

 

Il 3 giugno lo stesso Ruggieri suggerisce a Bianchi:

 

Quanto al vostro Discorso dell’Arte Comica, credo che farete benissimo, ristampandolo, di togliere quel paragone de’ Franzesi, e degl’Inglesi, che non fà buon suono.

 

L’8 luglio Garampi comunica:

 

Con mio sommo dispiacere seppi ieri l’altro, che nell’ultima Congregazione dell’Indice, essendo stata riferita la di lei Orazione in lode dell’arte comica, ne fosse da’ Cardinali e Consultori variamente parlato, e che finalmente s’indussero a proibirla. Questa proibizione, benché nulla offenda l’erudizione e la sostanza dell’argomento, ma piuttosto paja cagionata da una cautela di Ecclesiastica economia, nulladimeno, se ne avessi avuto qualche sentore, si poteva facilmente riparare con esibirsi di meglio dichiarare que’ sentimenti, che fossero stati censurati, ò di farne una nuova edizione più corretta. Ma la cosa è stata improvvisa, né io l’ho penetrata, se non dopo fatta già la Congregazione.

 

Bianchi risponde il 13 luglio:

 

Anch’io sentii con molto mio dispiacere nell’ordinario scorso che il Signor Abate Garatoni m’accennasse nel fine d’una sua Lettera [169] come il Signor Abate Ruggieri gli veniva allora di dire che nel giorno antecedente era stato proibito dalla S. Congregazione dell’Indice il mio Discorso in lode dell’Arte Comica, il che mi sento confirmato dalla sua gentilissima degli 8 del corrente, che ricevei ieri. Veramente ancor io sarei stato prontissimo di far una Dichiarazione, o di far una nuova Edizione dell’Operetta togliendo via que’ sentimenti, che non piacessero, e di quest’ultimo me n’ero espresso anche col signor Abate Ruggieri; ma ad un Giudizio fatto così alla sordina, cioè indicta caussa, o inaudita parte come dicono; non si può por riparo. Se Ella credesse bene mandar un Memoriale a N. S., o alla medesima S. Congregazione dell’Indice a mio nome, dicendo che io son pronto a far una Dichiarazione de’ sentimenti censurati, o di fare una nuova edizione costì corretta, per impedire che non si pubblichi ora codesto Decreto di Proibizione, o almeno che si moderi con il donec corrigatur mi farebbe un molto favore.

 

Il 15 luglio Garatoni comunica a Bianchi:

 

Il perché sia stato proibito il vostro discorso sopra l’arte comica si è fondato principalmente, per essere stato scritto in italiana favella, dicendosi che in tal guisa s’insinuano negli animi di taluni più facilmente alcune massime le quali pareano un po’ troppo avvanzate. Il Padre Abate Monsecrati Lucchese dell’Ordine de’ Scopettini, il quale non volea riferirlo, ma fù costretto a farlo [,] nella Congregazione dell’Indice trattò da Galantuomo, perché mostrò, che non meritava tanta severità, ma non giovò per il riflesso dettovi di sopra. Questo è quello, che io vi posso dire. Se desiderate maggiori notizie, forse ve le darà l’abate Ruggieri, quando lo ricerchiate [170].

 

 

Il 25 luglio Garampi precisa:

 

Il Padre Reverendissimo Richini [171], che si protesta di essere stato necessitato a fare riferire in Congregazione la di lei Orazione, per replicate istanze di Prelati e persone, che dic’Egli di distinzione, crede di non poterle suggerire nelle presenti circostanze migliore partito, che quello di scrivere una lettera di sommissione a N. S., assoggettandosi e riconoscendo la giustizia della censura, e supplicandolo a non volere almeno, che detta proibizione sia pubblicata nel Decreto, ò che non vi comparisca il di lei nome; e ciò a fine di non soggiacere a qualche impertinenza de’ suoi malevoli.

Veramente questa proibizione non dovea farsi nella passata Congregazione, e giacché per l’ordinario si fa riferire il libro censurato in due o tre Congregazioni. Ma sento, che alla relazione allora fatta insorgessero varj Cardinali, acciò il libro fosse proibito, avendone fatta gran specie quel contrapposto della Chiesa Gallicana e Inglese, e quella lunga apostrofe alla Comediante [172]. Ma de hoc satis, giacché io di una simil cosa carnevalesca, non pare che se ne dovesse fare tanto caso.

 

Il 3 agosto parte da Rimini la risposta di Bianchi, improntata a scetticismo:

 

[…] io non so, se con ciò si ottenesse niente, perché da quello che ella mi scrive vedo che ci è stato molto impegno contro del mio Discorso, pel quale senza sentir ragioni si volle ad ogni costo proscritto. Chi ha quest’impegno per sostentarlo inquieterebbe N. S. e me, onde è meglio a dargliela vinta per non dar occasione d’inquietarsi maggiormente. Se poi qualche mio malevolo scriverà una qualche impertinenza, la trascurerò, come tant’altre. Se bene che con me s’è proceduto con un sommo rigore per una cosa finalmente che è stata stampata in una Città Cattolica con tutte le Licenze de’ Superiori, e che viene generalmente lodata da tutti i Letterati, lasciandosi poi correre liberamente tante impertinenze stampate alla macchia contro di me, e il più con nomi finti, cose in realtà non sono che tanti Libelli famosi [173], come sono appunto quelle cose di quel Prete che sta a Sinigaglia, che s’intitola Omireno Bonodei, quelle di quell’altro Prete di Modena, che s’intitola Ciriaco Sincero, quelle dei quei due Preti di Siena, Valentini, e Carli, e finalmente quelle di questo, che s’intitola Gerunzio Maladucci, e d’altri. Io veramente, come scrissi al Signor Abate Ruggieri avea intenzione di far ristampare quel mio discorso togliendoli via l’esempio di quella Oldfield, e mettendoci in suo luogo quello d’Isabella Andreini detta la Comica gelosa, che fu onorata in Francia, come grande Dama, e che fu sepolta in Lione solennemente con un Epitaffio in bronzo; benché io in quel luogo non faccia alcuna comparazione tra Chiesa, e Chiesa, ma solamente tra Nazione, e Nazione, e poco dopo io soggiunga, ma la nostra Santa Chiesa Cattolica etc., con ché vengo a dire che non sono cattolici, ma eretici gl’Inglesi. Benché non tutte le cose che fanno, e che dicono gli Eretici siano Eresie, come si vede in questa cosa, dove convengono gl’Inglesi con noi, perché anche in Roma si seppelliscono in Chiesa i Comici. Così io volea tor via a quel mio Discorso quell’Apostrofe a quella Comica per miei privati riguardi, ma se io ce l’avessi lasciata non vedo, come quell’Apostrofe avesse meritata proibizione alcuna.

Ché io riconosco maggiormente lo spirito d’impegno, che costì s’ha avuto codesta proibizione, il quale spirito d’impegno peravventura sarà stato fomentato di qua da chi ora non può più per sé stesso fomentarlo, essendo passato tra i più, forse mandatoci prima del tempo da chi egli si serviva per consiglieri nelle sue ingiustizie, e violenze. Io veramente ancora dopo l’ultimo dì di Carnovale non voleva parlar più di queste cose, ma sono stato costretto a parlarne, giacché la persecuzione dura ancora, né la morte l’ha potuta far cessare.

 

Nella parte conclusiva della lettera, quando parla del proprio accusatore «passato tra i più», Bianchi sembra chiamare in causa un personaggio locale autorevole, come lo stesso vescovo di Rimini Alessandro Guiccioli, scomparso da poco, l’8 maggio di quello stesso anno [174]. D’altro canto, come si è visto, se Garampi accenna vagamente a «replicate istanze di Prelati e persone, […] di distinzione», Giovanardi Bufferli parla in modo esplicito di «illustrissime, e Reverendissime insolenze» e del ruolo avuto dal medesimo vescovo Guiccioli nel diffonderle in Roma contro Bianchi, circa la «sua stravaganza in proposito della Signora Antonia Cavallucci». Il 12 agosto c’è una puntualizzazione di Garampi, a conferma che la proibizione del libro è venuta «unicamente per certa ammirazione, che ha data alle pie orecchie, la semplice lettura di alcune poche espressioni o periodi. Almeno così mi pare di avere ricavato da varj soggetti della Congregazione». Il 17 agosto Planco spedisce a Garampi la supplica da «presentare, o far presentare» al papa «da persona a lui grata per vedere, se si può ottenere la grazia» [175], aggiungendo:

Io mi credeva veramente che ci fosse stato dell’impegno per far quella Proibizione; giacché il Signor Avvocato Garatoni m’avea scritto che benché un Padre Abate Scoppettino, cui era stato commesso d’esaminare l’Operetta ne avesse data buona Relazione, tanto l’aveano voluta proibire; così ella m’avea scritto che era stata proibita, come improvvisamente, e senza riferirla più volte, come è solito a farsi quando si tratta di fare una proibizione. Se solamente per la Lettura d’alcune poche espressioni, o periodi l’hanno proibita, se io fossi stato avvisato con un Carticino, o due che si fossero fatti si sarebbe potuto rimediare a tutto.

 

Il 31 agosto Planco, come risulta dall’elenco della sua corrispondenza [176], scrive direttamente a papa Benedetto XIV, con il quale poteva vantare un’antica amicizia [177]. Il 10 settembre Bianchi conferma a Garampi che la sua lettera è stata presentata [178] al papa «il quale mi ha fatto rispondere, che egli vedrà di fare quanto io disidero almeno per la seconda parte». Stando alla cit. lettera garampiana del 25 luglio, questa «seconda parte» dovrebbe riguardare la supplica a pubblicare la condanna senza il nome dell’autore dell’opera messa all’Indice. Il papa, aggiunge Bianchi, ha poi promesso «che con quest’altro spaccio avrà la degnazione di rispondermi». Il pontefice non scrive a Bianchi, ma gli fa avere notizie tramite monsignor Laurenti. Dalle lettere che Laurenti indirizza a Planco, possiamo ricavare altri particolari sull’intera vicenda. Il 6 settembre gli scrive:

 

La hò subito servita coll’umiliare alle mani di N. S. la lettera di V. S. Ill.ma e da lui medesimo hò avuta commissione di scriverLe, che sà essere vero il decreto già emanato dalla Congregazione dell’Indice, e però non può impedire, che la cosa, che è già di fatto, non lo sia, mà che dirà, che quando questo Decreto dovrà propallarsi, si taccia in esso il nome di lei, come autore e lo che, dice il Papa, è almeno desiderato, e chiesto da esso Lei: mi ha poi soggiunto, che giovedì prossimo parlarà col Commissario e Segretario del S. Offizio, e che indi responderà alla suddetta Sua [179]; e per me prendo la lusinga che N. S. farà il fattibile per indennizzare la di Lei estimazione, e decoro, come cordialmente Le auguro.

 

Il 16 settembre Laurenti aggiunge:

 

Circa l’[…] affare non ne hò più sentito parlare, e perché sò che il Papa quando hà detto di fare una cosa, non si scorda di farla, perciò mi lusingo, che già abbia parlato, e forse forse, che abbiale scritto in risposta alla sua da me già presentatale: ma di questi passi a me non è lecito per ora di interrogarlo se pure li hà fatti, o nò: bisogna trovare le opportunità di parlarne, le quali talvolta mi riescono facili, e pronte, e tall’altra nò. In ogni modo Le predìco che non andarà male.

 

Il 21 ottobre Laurenti spiega:

 

Questa mattina ho potuto parlare a Monsignor Guglielmi Assessore del S. Offizio; e lo ho interrogato se sà cosa divenisse nella Congregazione di certa dissertazione accademica detta e stampata dal dott. Bianchi di Forlì in lode de Comici, e Ballarini; egli subito mi ha risposto che ben si ricorda, che fu questa proscritta, e che passò al Segretario dell’Indice, il quale poi la fà stampare nel libro de libri proibiti, cioè aggiungere ai già proibiti: ma mi assicurò che tali piccole cose non si proibiscono pubblicamente e con strepito con cedole, che si attaccano per la Città, e come dicesi ad Valuas: e mi soggiunse che ne parlerebbe col Segretario dell’Indice Padre Recchini, che presentemente è fuori di Roma, accioche accennasse l’operetta, ma non l’autore: ed essendo questo Padre mio favorevole, lo pregarò similmente anch’io, subito che tornerà in Città: tutto ciò potrebbe avere già fatto il Papa medesimo e allora me ne chiarirò […].

 

Il 25 novembre Laurenti comunica l’esito della vicenda:

 

Nostro Signore memore della lettera scrittagli tempo fa da V. S. Ill.ma avant’ieri mi disse, che aveva avuta opportunità di vedere, e parlare al Padre Segretario dell’Indice, e inteso da questo che di fatto era emanato il decreto proibitivo della consaputa sua operetta, e che il già registrato non potevasi avere per non registrato, e che in seguito bisognava ò presto ò tardi stampare in un foglio, o in un libro ed allora il Papa gli ordinò che se pure era proscritta la dissertazione, non se le aggiungesse il nome dell’autore, cioè di Lei, e così certamente avverrà: e di questo, mi soggiunse il Papa, ne darete contezza al Signor Bianchi, che servirà per mia risposta alla di lui lettera con cui appunto mi pregava che almeno non fosse enunciato pubblicamente il suo nome: nell’eseguire questo sovrano comando, mi dò l’onore di riverirla […].

 

Il 29 novembre Garampi conferma che il papa ha concesso a Bianchi di «tacere» il di lui «nome nella pubblicazione, che si farà in breve del consaputo decreto della Congregazione dell’Indice». Infatti, tale decreto ed il successivo Index recano soltanto il titolo dello scritto planchiano, Discorso (in lode dell’Arte Comica), e non le generalità dell’autore. Ma Bianchi, come lui stesso spiega a Garampi il 3 dicembre, vorrebbe che la sua «Operetta» non «fosse esposta in quegl’Indici, che s’affiggono». Garampi il 16 dicembre [180] gli risponde:

 

Il Padre Secretario dell’Indice […] mi dice di non aver arbitrio alcuno per poterla servire in quello ch’Ella gli richiede, senza un nuovo beneplacito del Papa. Non sarebbe male ch’Ella scrivesse a N. S. una lettera di ringraziamento per l’ordine già dato, affinché si taccia il di lei nome, e quando ella pensasse di chiedergli nello stesso tempo questa nuova grazia, ella faccia quel che stimerà più opportuno.

 

Il 21 dicembre Bianchi confida a Garampi che non gli «dispiace il pensiero» di scrivere «a dirittura» al papa «ringraziandolo, e pregandolo dell’altro favore», ma di non avere, quel giorno, tempo di comporre la lettera. Di questa lettera non si parla più nel loro carteggio: è facile immaginare che Planco non l’abbia mai voluta scrivere. Forse per superbia ed arroganza, secondo l’immagine convenzionale che di lui viene accreditata. Ma probabilmente per non subire nuove umiliazioni da un ambiente che gli si era rivelato ostile aldilà di ogni limite ragionevole, e nel quale aveva potuto sperimentare gli effetti concreti delle invidie altrui e delle censure verso le proprie idee.

Tra le carte planchiane [181] abbiamo rinvenuto un sonetto contro papa Benedetto XIV. Non sappiamo nulla sul suo autore, né se esso abbia relazione con la condanna subita, ma soltanto che la grafia è sicuramente di Bianchi:

 

Ma cazzo! Santo Padre ogni ordinario

ci vengono nuovi guai, nuovi pericoli,

e voi posate quieto il tafanario

grattandovi i santissimi testicoli.

 

Ci vuol altro che aggiungere al Bollario

Chiose, Brevi, Paragrafi ed Articoli

e studiar la riforma del Breviario

per fare i Santi Grandi uguali a Piccoli.

 

Tutto ciò Padre mio non vale un pavolo

e forse voi le chiamereste Buggere

in altri tempi, e vi dareste al Diavolo.

 

Or mentre ce ne andiamo in precipizio

Voi coglionando ci lasciate struggere

per Dio, che ci venite in quel servizio.

 

Quanto si è finora esposto, dovrebbe bastare per porre in un ambito più dignitoso culturalmente, e storicamente importante, l’elegante saggio planchiano rispetto all’attenzione, tra divertita e scandalizzata, che esso ha quasi sempre ricevuto. Il saggio ha limiti evidenti, determinabili in quella struttura che ne costituisce però nel contempo la cornice di originalità: Bianchi parte infatti da un’esposizione, convenzionale ed erudita, per approdare ad un risultato del tutto inatteso rispetto alle premesse. In questa conclusione c’è una forza innovativa in cui possiamo forse rintracciare echi delle esperienze giovanili compiute nella Bologna dove, a partire dal 1718, aveva operato Pier Jacopo Martello, che lo stesso Bianchi ricorda tra i suoi amici [182].

La dissertazione procura a Bianchi un messaggio ben più significativo della stessa condanna, recante la firma di Voltaire [183]: «Vous avez prononcé, Monsieur, l’eloge de l’art dramatique, et je suis tenté de prononcer le votre». Comincia così la lunga lettera di Voltaire, che contiene una difesa del teatro e della sua funzione [184]. Come essa conferma, il tema del teatro era allora al centro di un’altra disputa, condotta dai Giansenisti contro la pedagogia dei Gesuiti, i quali usavano nei loro collegi anche il palcoscenico per educare gli allievi [185].

La condanna non ha conseguenze [186] nella successiva carriera pubblica di Bianchi, se nel 1755 egli è nominato Consultore dell’Inquisizione e Medico del Sant’Uffizio [187], prima di diventare nel 1769 «Archiatro Segreto Onorario», per volere di papa Ganganelli, Clemente XIV, che era stato suo allievo [188].

Per completare la documentazione relativa all’Arte comica ed alla Cavallucci, riproduciamo l’Ode anacreontica composta in suo onore dallo stesso Planco [189]:

 

Ode anacreontica

in lode della Signora Antonia Cavallucci,

detta Celestini, Romana,

Attrice, e virtuosa di Musica,

in occasione, ch’Ella canta graziosissime Ariette nel Pubblico Teatro, e per varie Accademie della Città di Rimino,

offerta al merito singolare dal Nobile Sig. Dottore Giovanni Bianchi Medico Primario della medesima città.

Pesaro MDCCLII nella Stamperia Gavelliana

 

 

Fiamme dell’anime,

Gentil Donzella,

Piucché altra amabile,

Se non più bella,

Per poco ascoltami,

Che in dolci modi

Vuo dir tue lodi.

 

Ascolta un fervido

Inno d’onore

Figlio di candido

Sincero core,

Che non sa fingere,

Che si vergogna

Di vil menzogna.

 

Di tue bellissime

Nere pupille

Ond’escon fervide

Chiare faville,

O quanto il tremulo

Lume vivace

M’alletta e piace.

 

Armata Pallade,

E tu, che sei

Piacer degli uomini,

E degli Dei,

Ridente Venere,

Aveste mai

Sì vaghi rai?

 

Del volto i morbidi

Tersi candori,

Che vezzi spirano,

Spirano amori,

O quanto, amabile

Donzella, ammiro

Qualor ti miro.

 

Ma gli occhi, il tremulo

Lume vivace,

Che tanto allettami,

Che tanto piace,

Il volto morbido

Non m’incatena,

Non mi dà pena.

 

Fiamma dell’anime,

Gentile Donzella,

Più raro amabile,

Pregio, che bella

Più ch’altra renditi,

Sol m’incatena,

Sol mi dà pena.

 

Tua voce armonica,

Ch’or dolce, ora grave,

Ma sempre tenera,

Sempre soave

Dai labbri scioglesi,

E in bei concenti

Tempra gli accenti;

 

Qualor tra lucide

Notturne scene

L’orecchio docile

A ferir viene,

Con dolce, incognita

Forza d’amore

Mi lega il core.

 

Qual nuovo insolito,

Stupor, se Orfeo

Al suon di concava

Lira poteo

Trar seco attonite

Le selve, e i pronti

Seguaci monti?

 

Se là fin d’Erebo

Le disperate

Inesorabili

Furie agitate

L’ascoltan placide,

Se ubbidiente

Cerbero il sente?

 

Ahi vate misero!

Che valse poi

Aver fin d’Erebo

Co’ modi tuoi

Placate e domite

Le disperate

Furie agitate;

 

Se al fin, egregio,

Divin Cantore,

Insaziabile

Cieco livore

Lasciar doveati

Di crudo scempio

Funesto esempio!

 

Ma tu, dell’anime

Fiamme, e desio,

Sorte sì barbara,

Destin sì rio,

S’altrui d’invidia

Oggetto sei,

Temer non dei.

 

D’un mar che mormora,

Che irato freme,

Che in vasti innalzasi

Flutti, non teme

Nocchier, che a placido

Sicuro porto

Mirasi scorto.

 

Virtute è il placido

Porto beato,

Che all’onde involati

D’avvero Fato;

L’amico Genio,

Che ti difende,

Per man ti prende.

 

Seco le torbide

Procelle insorte,

Che in van minacciano

Perigli e morte

Seco que’ tumidi

Rei flutti infidi

Sogguardi, e ridi.

 

Dissertazione n. 26, del 18 febbraio 1752, di Nicola Paci, nobile, De praestantia musicae [190].

Dissertazione n. 27, del 4 marzo 1752, di Francesco Fabbri, De praestantia Academiae nostrae. Essa contiene, come apprendiamo dal Codex [c. 19v], molte lodi di Bianchi quale restitutore dei Lincei e per la sua attività gratuita di pubblico insegnante di varie Scienze [191].

Dissertazioni n. 28 e n. 29, entrambe del 17 marzo 1752: si tratta della lettura di lettere del governo di Firenze inviate ai Malatesti di Rimini (1378-1400), e ricopiate da Lodovico Coltellini da un codice ms. di Coluccio Salutati, esistente presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze; e della trattazione di Bianchi De rebus antiquis [192].

Dissertazioni n. 30 e n. 31: il 18 aprile 1755, Planco presenta due sue epistole mediche, la prima sull’«urina con sedimento ceruleo» [193], e la seconda sulle polemiche relative al caso Pilastri, già trattato il 28 maggio 1751. Alle due epistole, Bianchi premette una prefazione in italiano in cui spiega che le adunanze dei Lincei non sono frequenti perché molti accademici abitano fuori Rimini, dove esistono poi varie scuole, al posto di quella unica di Planco, che forniva ai Lincei medesimi parecchi relatori [194]. Qui finiscono le notizie del Codex.

Tra le carte planchiane conservate in Gambalunghiana [FGMB], ci sono tre fascicoli che rimandano a probabili dissertazioni accademiche. Nel n. 61 si ripropone un testo di carattere religioso già letto in pubblico ben ventidue anni prima, con una premessa di Bianchi sui pregi della vecchiaia e della «cattiva memoria» che reca «grandissimi vantaggi», come il gustare la riproposta di cose antiche che non si ricordano più. Nel n. 65, c’è il Discorso sopra il problema dell’Accademia, che abbiamo già mentovato. Del n. 75, intitolato Congressi letterari della nostra Accademia (1761), diremo invece più avanti.

 

[135] Masetti Zannini (in Canto profano e musica sacra femminile del Settecento romano, «Strenna dei Romanisti 1991», pp. 349-358), parla di un «innamoramento» del maturo filosofo riminese per la giovane cantante romana. La Cavallucci forse conosce Bianchi prima del 1751, anno a cui appartiene la prima delle sue lettere inedite al nostro medico (FGLB, ad vocem), del 25 marzo, in cui si legge che quella è la terza missiva spedita a Planco. L’immagine complessiva che ne emerge, è quella di una donna in miseria, sempre alla ricerca di aiuti e di protezione. Lei considera Planco un «caro papà» a cui chiede «una difesa sopra il fatto del mio matrimonio, che lei credo, che di già sappia come fù perché ce l’ho raccontato più volte»; difesa da «imparare a memoria», a quanto pare, per ripeterla davanti a qualche pubblica autorità (25 marzo 1751). L’anno successivo c’è un nuovo soggiorno della Cavallucci a Rimini, da cui è costretta ad andarsene: «Solo mi rincresce d’esser partita di Rimino per voi» (24 febbraio 1752, v. infra). Nell’Arte comica (p. 24), Planco sostiene che Rimini doveva avere «molto obbligo» verso di lei, perché con la sua «gentilezza, e grazia» aveva «quasi per un mezz’anno sulle Scene rallegrati onestamente gli animi de’ nostri Concittadini». I rapporti tra Bianchi e la cantante conoscono momenti burrascosi, almeno dal punto di vista epistolare; lei infatti gli scrive: «se le vostre finezze le vendete a prezzo di rimproveri e lagrime, vi dico che potete fare a meno di favorirmele: io per mé non sò aprire la vostra intenzione e il vostro umore [...]; ma io so li spasemi, e rancori, che provoca solo nel vedervi: perdonate: io questo non voleva scriverlo, ma così mi mortificate senza motivo [...] tanto più che voi potete essere <…> nonno» (4 marzo 1752). Il 18 marzo lei chiede perdono a Bianchi («caro quanto padre», è l’intestazione della lettera), delle proprie «sciocchezze e malagrazie». Il 22 marzo lo prega «a mitigare queste sue mortificazioni le quali [...] mi passano l’anima», e di soccorrerla: «non fate che mi riduca a mangiar di nuovo le mosche». Il 12 aprile gli narra di una burrascosa vicenda sentimentale a Bologna («lui mi scrive [...] che andassi dallo stesso già che lui non vuol venire dà mé mà io li rispondo, che lui [h]a una sua donna in casa per la qual cosa io non mi attento d’andarci tanto più che questo signore vi lasciò detto, che io volevo far l’amore con lui sé pure questo sia vero»). Nel contempo lei bussa a quattrini presso Bianchi («e pure mi prometeste in Rimino, che qualche volta mi avereste soccorso di qualche carità, e questo lo potreste ora ancor fare [...] in virtù della mia fedeltà, e dell’amore che mi avete portato [...] fate conto di dar tante messe alle anime del purgatorio, ed io pregharò Idio per la di lei salute»). Il 12 maggio ribadisce: «mi avete fatto più di padre», e lo invita a «ripigliare di nuovo il bel titolo di figlia, che tale io fui, e là sono, e là sarò finche vivarò. Per pieta caro Papà fate, che io sia tale, e che in congientura possa far vedere queste nostre lettere per far conoscere a tal uni quello, che sinestramente credono». Secondo la Cavallucci, Planco insinua qualcosa «circa delli giovanotti, che venivano in casa» sua: lei giura la propria innocenza, terminando la lettera con un insolito tono confidenziale: «Caro Bianchi perdonami, e credimi sempre quella, che fui sono e sarò fino alla morte» (24 maggio 1752). Le insinuazioni di Bianchi nascono dalle notizie bolognesi ricevute da monsignor Giuseppe Pozzi il quale, il 4 maggio 1752 (FGLB, ad vocem) gli aveva infatti scritto che la donna «avea sempre la casa piena di gente di poco credito, e s’era scelta per protettore» un conte «di pochi denari, e atto più a far l’amore che a proteggere». Una settimana dopo, il 31 maggio, la Cavallucci cambia registro: «io poi non pretendo che lei proseguisca altro impegno per me, e sappiate che di già lò capito dà un pezzo, che lei [h]a finito questo suo caritatevole impegno né più lo voglio né lo pretenderò già mai in vita mia, ma li fo sapere, che questo suo impegno di già tutti lo sanno, e sanno come lo sò ancor io che ora è finito [...] e non mi mortifichi più con questi abatini e zerbinotti», tutte storie inventate da un suo «contrario» che lei ben conosce. Se qualche lettera è stata lunga, si giustifica la giovane, era in risposta «approporzione de’ suoi capitoli». L’ultimo documento importante, per la nostra breve ricostruzione, è la lettera della Cavallucci del 7 giugno 1752: «io poi vi domando scusa se mai vi scrissi in maniera che li avessi potuto dare un minimo dispiacere».

[136] Cfr. nel Codex, cit., c. 19v. Il testo della dissertazione è pubblicato a Venezia (immediatamente, come vedremo) con questo titolo: In lode dell’arte comica. Discorso del signor dottor Giovanni Bianchi Nobile e Medico primario della Città di Rimino, pronunziato da lui l’ultimo venerdì di carnovale dell’anno 1752 in sua casa in una accademia solenne de’ Lincei. L’originale ms. è nel fasc. 201, FGMB. Dell’edizione a stampa parlano anche gli Atti di Lipsia del 1753, p. 184, come leggiamo nel Catalogo delle opere stampate dal Sig. Dottor Giovanni Bianchi Medico primario di Rimino, p. VI, s. d., ma 1757: cfr. le citt. Nov., XIX, 30, 28 luglio 1758, col. 480; qui troviamo stampato che il Catalogo era del 1747, ma nell’esemplare gambalunghiano delle Nov. [7.H.II.27], proveniente dalla biblioteca personale di Bianchi, incontriamo la correzione autografa planchiana in «1757». In copertina, questo esemplare reca il testo autografo: «Dove comincia la ristampa del Catalogo...». Il Catalogo è ripreso ed ampliato nei cinque articoli apparsi sulle Nov., XIX, nn. 22, 23, 24, 30 e 36 del 2, 9 e 16 giugno, 28 luglio e 8 settembre 1758 coll. 344-347, 366-368, 379-383, 477-480, 569-570: nel n. 30 sono elencate opere «credute comunemente» di Bianchi, uscite con pseudonimo e sine nomine, nel n. 36, è presentata un’«Aggiunta» finale che riguarda uno scritto medico, firmato Pietro Ghigi, del 1731. A G. B. Morgagni, Bianchi scrive di aver composto l’Arte comica «per divertimento», in sole «due mattinate» (SC-MS. 966, Minute di lettere, 1731-1760, BGR, 24 aprile 1752).

[137] Cfr. Masetti Zannini, Vicende accademi­che, cit., p. 61.

[138] Cfr. lettera del 29 maggio 1758, FGLB. Di «questa razza di Donne», suggeriva Coltellini nella stessa epistola, Planco dovrebbe «dir male» nelle composizioni, «e dir loro molto bene in Camera». In precedenza (3 maggio 1758, FGLB, ad vocem), Coltellini aveva accusato il Restitutore linceo di aver profanato l’«illustre Accademia» riminese «con quella sua Druda Cantatrice, a cui poteva contentarsi di fare soltanto da Maestro di Cappella»; e di essersi fatto «coglionare addirittura» per una donna che meritava soltanto d’«essere mandata a far dei Bambini». Prosegue il testo: «Testimon ne sia la Cavalluccia / che fece il Dottor Bianchi andare a gruccia». Coltellini aveva giustificato la sua sentenza scrivendo: «le Donne ancor io le conosco abbastanza, e mi picco nell’istesso tempo aver avuto la fortuna, che niuna di esse Donne sia giunta a conoscer me».

[139] Cfr. Venturi, Settecento Riformatore. I., cit., p. 133. Sul ruolo del «focoso Daniele Concina», cfr. pure P. Berselli Ambri, L’opera di Montesquieu nel Settecento italiano, Firenze 1960, passim.

[140] Cfr. D. Concina, De spectaculis theatralibus, Roma 1752, pp. 207-211. Egli tace il nome dell’autore dell’Arte comica, opera stesa «eleganti stylo italico», in segno di rispetto per la sua perizia nell’arte medica: «ceterasque dotes, quibus claret, colo, et suspicio. Sermonis dumtaxat errores Christianae professioni perniciosissimos refellendos suspicio [...]», cfr. p. 207. Padre Concina se la prendeva con attrici, cantanti e saltatrici perché, a suo dire, rovinavano le famiglie nobili, irretendo i loro giovani rampolli, i quali sperperavano per tali donnacce, oltre al patrimonio, anche la salute del corpo e dell’anima (p. 210).

[141] Cfr. nella cit. Spetiaria del Sole, p. 18. Le parole di padre Paciaudi, sono tolte da Collina, op. cit., p. 20: «Ma era desiderabile, che a un tale ottimo libro avesse data occasione tutt’altro che quella infame sgualdrina, il cui nome non ista bene col vostro. Voi la chiamate valorosa fanciulla: fanciulla non è una cortigiana svergognata; la dite valorosa: brutto valore è il suo». Le espressioni di Lami sono riprese da una lettera del 29 gennaio 1752, FGLB, ad vocem. Lami nelle sue missive si rallegra delle «galanti occupazioni» di Planco (15 gennaio 1752), e parla dell’avventura con l’«amabile Cavalluccia, con cui Ella in questo carnevale ha vettureggiato pel reame d’Amore», sino a deridere il medico riminese (che reagisce male) per quei reumatismi dei quali soffriva e che, secondo Lami, gli erano stati «attaccati dalla Cavalluccia» (4 e 18 marzo 1758). Le lettere di Lami del 1752 sono anche in Collina, op. cit., p. 19-20.

[142] Cfr. lettera del primo marzo 1752, FGLB, ad vocem. A Roma, Giuseppe Giovanardi Bufferli svolge talora anche la funzione di procuratore della città di Rimini, per affari da gestire nelle magistrature pontificie.

[143] «Se il Vescovo di Rimino non si fosse mai fatto ridere appresso dai Romani, ed avesse ad ogni modo desiderato di farlo, ora non potrà lagnarsi, che ciò non siagli riuscito». L’atteggiamento del vescovo Guiccioli può essere collegato a questo passo della stessa Cavallucci nella missiva diretta a Bianchi del 24 febbraio 1752: «Potrò ben dire di aver incontrato in questa Città di Rimino poca buona sorte, dove avendomi affaticata per acquistarmi qualche poco di benevolenza e gratitudine. In premio delle mie fatiche mi sono acquistata de’ malevoli, e delle perseguzioni, e trà li Amici che mostravano esser nostri sviscerati ed a mé favorevoli, non posso dire d’aver ricevuta nessuna cosa. Come volessi dire una cena o un pranzo. Ben, sia mercé la vostra bontà e carità non avea bisogno de’ loro pranzi. Solo mi rincresce d’esser partita di Rimino per voi».

[144] A proposito di questi rapporti tra Bianchi e la Chiesa cittadina, è stato osservato che la rinuncia del Davìa alla carica di vescovo nel 1726 e la partenza del Legato Cornelio Bentivoglio nel 1727, lo avevano privato di «due potenti Mecenati»: cfr. C. Tonini, La coltura letteraria e scientifica, cit., II, p. 239 (qui si riporta erroneamente la data del 1746 anziché 1726, per la rinuncia del Davìa). Bianchi, prosegue Tonini, dovette «sostenere durissima lotta da quei fieri nemici d’ogni buon progresso che sono il pregiudizio e l’invidia»; dapprima furono lanciate «accuse acerbissime contro di esso quasi di violata religione nella sezione dei cadaveri», poi venne la censura del vicario vescovile il quale «accolse l’accusa, ne ammonì severamente il Bianchi, e gli ingiunse di chiedere licenza alla Curia Romana per l’esercizio di quelle sue dissezioni». Tonini riassume il racconto dell’autobiografia latina di Bianchi (p. 369), dove questi poi rammenta di esser stato allora sostenuto ed aiutato da Laura Bentivoglio Davìa, «nobilissima, sapientissimaque femina» (p. 370). Il «permesso per anatomie» chiesto da Bianchi con «Istanza autografa a Benedetto XIV per ottenere di fare le sezioni di cadaveri», è registrato nelle SG, ad vocem Bianchi, G., n. 18, con l’annotazione: «Fu segnata la grazia con rescritto dei 18 aprile 1745». A proposito di concorrenza tra i Lincei planchiani e le strutture ecclesiastiche, abbiamo già visto che nel 1761 G. P. Giovenardi recita nell’«Academia» vescovile una sua dissertazione sull’«utilità della scienza medica a Parochi spezialmente di campagna». Contemporaneamente alla partenza del cardinal Davìa da Rimini, nel 1726 va registrato l’arrivo al Seminario del teatino padre Anton Francesco Vezzosi che insegna sino al 1738 (sono sue parole) «quella Filosofia che appoggiata all’arte di pensare la più vera, fiancheggiata dall’esperienza, fa uso ancora delle matematiche, quello che dicono moderno»: cfr. G. L. MASETTI ZANNINI, I Teatini e la Nuova Scienza in Italia, estratto da «Regnum Dei», 1967, pp. 62-63. Dello stesso autore, cfr. I Teatini in Rimini, estratto da «Regnum Dei», 1965, passim.

[145] Cfr. l’autobiografia latina, pp. 370-371: «quum [...] Philosophia propterea, et reliquae bonae artes Arimini pene iacerent, Plancus Philosophiam docere coepit privatim [...]».

[146] Si tratta della cit. Orazion funerale in lode di Monsig. Giovanni Bianchi. Delle difficoltà incontrate per la sua pubblicazione, parla lo stesso G. P. Giovenardi in due lettere al nipote di Planco, il già ricordato medico Girolamo Bianchi. Nella missiva del 7 gennaio 1777 leggiamo che, in caso di edizione di quel testo, era minacciata allo stesso Girolamo Bianchi «la privazione dell’Ospitale dal vescovo», come si vociferava autorevolmente in città. Il 5 aprile 1777 Giovenardi suggeriva a Girolamo Bianchi di restare estraneo alla distribuzione di quell’opuscolo «per isfuggire qualunque odiosa taccia di parzialità, e mettersi al coperto da qualunque vendetta trasversale, alla quale potesse pensare il vescovo contro di lei». (Tali lettere sono nella cit. cartella Giovenardi, don G., FGMMR.) Notizie sulle attività culturali dei Religiosi a Rimini, si trovano nelle Nov. a partire dal 1761, quando è vescovo il cardinal Lodovico Valenti, inviate probabilmente da Epifanio Brunelli (al quale Lami indirizza una lettera stampata in Nov., XXII, 31, 31 luglio 1761, coll. 492-494). Epifanio Brunelli era figlio del Bibliotecario Gambalunghiano Bernardino (in carica dal 1748 al 1767), al quale subentrerà dal 1767 al 1796. Nelle Nov., XIV, 43, 26 ottobre 1753, coll. 677-679, a proposito di una pubblica «Conclusione di cose di Fisica», si lodano le qualità del Dottor Bianchi «uomo dottissimo».

[147] Su questo aspetto, cfr. la lettera di Laura Bentivoglio Davìa da Bologna del 26 febbraio 1752 (FGLB, ad vocem): «Da tutt’altri, che da un Grande Filosofo, qual è il Sig. Bianchi mi sarei aspettata una Raccomandazione per una Comica, o sia Cantatrice, quale per due volte si portò da me domenica prossima passata senza trovarmi»; «Io poi che sono alienissima dei Teatri, e che questi sono per me Provincie incognite [...] l’ò raccomandata al Generale Davia mio cognato [...]». Della visita della Cavallucci a Laura Bentivoglio, poi avvenuta dopo i due infruttuosi tentativi, cfr. la lettera della stessa Cavallucci a Bianchi del 10 maggio 1752. In una lettera del 7 marzo 1752, senza destinatario (SC-MS. 966, cit., cc.445v/446r), Bianchi spiega di essersi impegnato «non volgarmente» da protettore con la Cavallucci «per un affronto fattomi da chi non dee mai far affronti». Planco appare più preoccupato di difendere se stesso che la ragazza, come risulta pure dalla bozza di un’«Informazione del Governatore al Legato» (cardinal Bolognetti) del 28 gennaio 1752, quindi anteriore all’esibizione ai Lincei della Cavallucci; qui si dichiara che la giovane fu protetta da Bianchi «in una maniera civile, e propria» (cfr. SC-MS. 970, Minute di lettere 1741-1761, BGR, c. 217v). Due lettere di raccomandazione scritte da Bianchi per la Cavallucci, sono nel cit. SC-MS. 965: entrambe sono mutile, senza destinatari e senza data (ma dello stesso febbraio 1752, ovviamente). La prima (c. 101) è diretta ad un nobile, che altro non può essere se non bolognese; la seconda (c. 102), a persona dichiarata di Bologna, città dove Antonia si rifugia. Nella prima leggiamo: «Eccellenza. La Renditrice della presente è la Signora Antonia Cavallucci valorosa comica non meno che graziosa cantatrice, la quale quasi per mezz’anno sul Pubblico Teatro di questa Città ha mostrato il valor suo in queste Professioni, il che ha dimostrato col Canto eziandio per varie accademie di Musica, che si sono tenute in varie case di Cittadini, e di Cavalieri di questa Città a riguardo suo. Esse venne quà raccomandata dal sig. Marchese Gio. Battista figliuolo di f. m. figliuolo di V. Ecc.za ad un cavaliere di questa Città, il quale a dir vero non si prese alcun pensiero di questa Giovane, io verso la metà del tempo che essa era quì avendo in una Accademia fatta conoscenza di lei, ed avendo sentito che avea gradito la Protezione del fu Sig. Marchese Giambattista, che ella per gratitudine pianse amaramente quando udì da me la sua morte, presi a farle qualche assistenza, per la quale molto è stata onorata dai principali Signori di questa Città, non senza però una molta invidia de’ malevoli». Al teatro di Rimini, gli spettacoli di Antonia Cavallucci nella stagione invernale 1751-52 (commedie in cui recita prevalentemente la parte della Serva), creano disordini ai quali si cerca di porre riparo con un bando del 25 gennaio 1752 che fa divieto al pubblico di salire sul palcoscenico per festeggiare l’attrice (cfr. Archivio Teatro 1735-1838, busta n. 1, ad vocem «Teatro», ASRi). Dell’esistenza di questo documento inedito, c’informa la stessa artista con un generico accenno in una lettera a Bianchi del 24 febbraio 1752. Ovviamente, nel bando è taciuto ogni riferimento ad Antonia Cavallucci, e si parla soltanto dello «sconcerto, che derivar suole dal trasferirsi le Persone in tempo delle Recite delle Comedie [...] sul palco». In una minuta planchiana s. d. (SC-MS. 966, cit., c. 444r), si attribuisce la responsabilità dei disordini a «Giovani Nobili», amplificati da chi aveva interesse a che il Pubblico teatro fosse chiuso, dopo che era stata bloccata la propria attività d’impresario in un teatro privato.

[148] Qui si parla di «certo Frate Scolopio»; successivamente, di un «famoso Zoccolante Lucchese», per il quale rimando alla nota seguente.

[149] Il 3 ottobre 1753 G. Garampi scrive a Planco: «Abbiamo un nuovo libro del P. Bianchi sopra i vizj e difetti del Teatro». Padre Giovanni Antonio Bianchi, frate minore e teologo, nonché docente di Filosofia, nato a Lucca nel 1686 e morto a Roma nel 1768, pubblica a Roma appunto nel 1753 l’opera intitolata Sui vizi e sui difetti del moderno teatro e sul modo di correggerli ed emendarli, come risposta al testo del ricordato padre Concina dell’anno precedente, il De spectaculis theatralibus. Sempre nel 1753, appare l’opera De’ teatri antichi e moderni di S. Maffei, «in difesa della moralità dello spettacolo [...] e pubblicata con l’approvazione di Benedetto XIV» (cfr. M. Allegri, Venezia e il Veneto dopo Lepanto, in Letteratura italiana, Storia e geografia, II/2, L’età moderna, Torino, 1988, p. 980). A sua volta, Concina controbatte nel 1755 con il De’ Teatri moderni contrarj alla professione Cristiana. Benedetto XIV, come ripete in entrambe le sue opere Concina, aveva nel 1748 concesso «di mala voglia, e per isfugire mali maggiori», di tollerare «il divertimento Carnovalesco». Per Concina le donne cristiane che calcavano le scene peccavano mortalmente (cap. X, De spectaculis), al pari delle persone importanti e degli ecclesiastici che presenziano i loro spettacoli (cap. XXV, ibid.). Nel De’ Teatri (p. IV), Concina ricorda che Benedetto XIV aveva nel De Synodo «con invincibili argomenti confutato l’abuso de’ pubblici venali Teatri, qual tristo avanzo di Paganesimo»; precisa (cap. IV) che «sono da Dio proibiti i Teatri, perché vi recitano donne, e castrati vestiti da donne», le quali donne da buone cristiane hanno un solo capitale da conservare, «la verecondia, il pudore, la modestia, il silenzio», per cui «le fanciulle, e femmine cristiane, che l’arte professano di istrionesse, calpestato il pudore, la verecondia, la modestia, il silenzio, spiegano in trionfale comparsa il lusso, il fasto, la vanità, e le pompe mondane rinunziate nel battesimo», facendosi strumenti diabolici «per una spietata crudelissima carneficina dell’anime redente» (pp. 37-38). Su Giovanni Antonio Bianchi, cfr. G. Mazzucchelli, Scrittori d’Italia, vol. III/2, Brescia 1760: a p. 1150 si legge che «contro i sentimenti del P. Bianchi in proposito de’ Teatri si è pur dichiarato apertamente l’Autore delle Novelle Letterarie di Firenze»; a p. 1145 è invece ricordato il planchiano Discorso in lode dell’Arte Comica, con referenze bibliografiche. Di tale dissertazione, le Nov., XIII, 18, 5 maggio 1752, coll. 279-284, pubblicano un ampio resoconto, probabilmente di mano dello stesso medico riminese, il quale è definito «soggetto molto noto per la sua varia dottrina ed erudizione». Alla fine l’articolo ricorda, della Cavallucci, «la sua gentilezza e grazia, colla quale onestamente avea rallegrati gl’animi de’ Riminesi quasi per un mezz’anno». (L’articolo riprende un passo nell’Arte comica di p. 24, già cit. nella nota 135, dove Planco sostiene che Rimini doveva avere «molto obbligo» verso la Cavallucci, perché aveva «quasi per un mezz’anno sulle Scene rallegrati onestamente gli animi de’ nostri Concittadini».) In quell’«onestamente» si avverte come una risposta alle polemiche velenose che avvolsero l’esibizione della «valorosa Attrice».

[150] A questo tema è dedicata tutta la lunga epistola di Giovanardi Bufferli a Planco, datata 15 aprile 1752. Essa contiene una difesa delle idee di Bianchi, portando vari argomenti al proposito, sia sul mondo antico sia sulla situazione della Chiesa francese.

[151] Ibid.

[152] Cfr. la lettera del 27 aprile 1752, FGLB, ad vocem.

[153] Pozzi augura a Bianchi d’innamorarsi «ora d’una Cantante, ora d’una Ballerina, ora di una Tragica acciò ogni otto giorni s’abbiano a vedere vostre orazioni in lode o della Musica, o del Ballo o della Tragedia; basta non v’innamoriate di Maschio perché vi pregherei allora à non stampar loda alcuna».

[154] Il 4 maggio 1752, Pozzi scrive a Bianchi: «vi consiglio per ben vostro, quallora il vogliate, à innamorarvi un po’ meglio». Sul tema cfr. la lettera di Amaduzzi a Bertòla del 3 gennaio 1776, contenente un elogio inedito in memoria di Planco (copia autografa, FGMMR, Amaduzzi G. C.): «La sua severità filosofica patì un’interstizio di sei mesi, quanti egli ne dedicò alla corte, che fece, ad una eccellente, e spiritosa Comica Romana, nominata Antonia Cavallucci, la quale seppe eccitarlo a far stampare in sua lode alcune poesie, ed a comporre, e pubblicare nell’anno 1752. l’indicato Discorso, il quale per un’eccezione di poco rilievo andò ad impinguare l’Indice de Libri proibiti. La singolarità, e la brevità del suo impegno fa vedere, che sì fatto mestiere non è per i letterati bisognosi di quiete, e di tempo per le loro applicazioni». Amaduzzi sembra un figlio geloso per una galante avventura paterna. Nelle sue parole, pecca però ingenerosamente d’esagerazione. Qui Amaduzzi osserva pure del maestro: «Il raziocinio non fu in lui sempre il più retto, giacché sovente egli era inconseguente co’ suoi principi, e la prevenzione qualche volta prevaleva in lui alla ragione». Cfr. il cit. Montanari, Amaduzzi e la scuola di Iano Planco.

[155] Cfr. l’epistola del 10 maggio 1752, FGLB.

[156] Cfr. l’estratto in BGR, segn. 19.MISC.RIM.CLXXIV,33. Il testo è senza indicazioni, che si ricavano però dalla replica anonima intitolata Note critiche: dovrebbe trattarsi di un unico fascicolo appositamente montato con l’estratto (pp. 5-7) e la replica (pp. 9-18), mancante però di copertina, dato che la prima pagina reca il n. 3. Alle pp. 3-4 c’è un’introduzione in cui si dichiara che l’autore della biografia planchiana «si prende, a parlar chiaro, un po’ troppo giuoco» di monsignor Bianchi. Il titolo completo della replica è Note critiche alla novità inserita nella continuazione al Giornale di Medicina XVI. Marzo MDCCLXXVI.

[157] Cfr. ibid., p. 16: qui si sostiene che le poesie delle quali parla Il Giornale di Medicina, erano in realtà «d’un valente Poeta imolese».

[158] L. Cenni scrive a Bianchi il 26 aprile 1752 (FGLB, ad vocem), su questo discorso accademico: «con sodo stile, e ragioni encomia l’Arte Comica, confirmando in esso il rubamento di Plauto, e di Terenzio da Menandro cosa, che i più savi l’accordano, ed alcuni pochi sciochi la contrariano. Il dramma, che ella chiama una depravazione della commedia, e della tragedia dispiacerà forse ad alcuni drammatisti, o fautori di esso, che pretendono come componimento eroico, in se perfetto, non inventato che da’ moderni».

[159] «Quot verba, tot deliria, totque blasphemiae, et temeritatis iudicia. Quis unquam in animum sibi induxerit, ut crederet, Italum, et Catholicum hominem non omnino insanum, potuisse talia scribillare, nisi eadem publicis typis consignata legeret?» (p. 208). Questo commento è a proposito delle affermazioni sulla Chiesa francese.

[160] Cfr. la lettera (inedita, a quanto pare, e trascritta in Urbani, Raccolta…, cit., p. 151), del 10 aprile 1762, diretta a Pietro Godenti, a Ginevra: «Il mio Discorso dell’Arte comica fu proibito, seppure è tale, per gli schiamazzi de Giansenisti d’Italia, giacche l’Esaminatore fece alla Congregazione dell’Indice una relazione favorevole di detto Discorso, ma Concina stampò contro d’esso Discorso». Come risulta dai documenti che pubblichiamo infra, le cose non andarono come le riassume Bianchi a distanza di dieci anni. Planco considera padre Concina un Giansenista, secondo un’opinione diffusa. Circa i Giansenisti, si veda il seguito della lettera a Godenti, a nota 184. Sul clima culturale del 1700 e le censure ecclesiastiche, cfr. il cit. Infelise, I libri proibiti, passim.

[161] E’ quella stessa libertà che faceva paura a padre Concina, il quale immaginava che il discorso planchiano potesse essere golosamente divorato da giovanetti e damigelle così portati sulla strada della perdizione: «Anceps paululum haesi, praeterire ne, an refutare libellum hunc deberem: sed haesitationem deposui continuo, ac cogitare coepi, praefatum sermonem scitulorum, et muliercularum atque matronularum manibus teri, aptumque esse ad imperitorum animos fascinandos, et ad universam Italiam infamandam, si, nemine reclamante, immunis a censura excurreret» (pp. 207-208).

[162] Muratori aveva parlato dell’arte comica, nel Della necessità di riformare la poesia teatrale, come s’intitola un capitolo della Perfetta poesia italiana (1706) in cui sviluppa «esigenze che da lontano paiono anticipare istanze della stessa ‘riforma’ goldoniana»: cfr. W. Binni, Il Settecento letterario, in Storia della Letteratura Italiana, VI. Il Settecento, Milano 1968, p. 427. Verso la metà del Settecento, il dibattito sulla riforma teatrale è molto vivace, e ruota attorno all’esempio di Carlo Goldoni (che a Rimini era figura ben nota: cfr. Carlo Goldoni, «galanteria senza scandalo», nel cit. Lumi di Romagna, pp. 71-83). Del 1750 è la sua commedia Il Teatro comico, nella cui scena prima dell’atto secondo, per rivendicare l’«onore» e la dignità dei comici, egli fa dire ad un personaggio (Anselmo interpretato da Brighella): «La commedia l’è stada inventada per corregger i vizi e metter in ridicolo i cattivi costumi, e quando le commedie dei antighi se faceva così, tuto el popolo decideva, perché vedendo la copia d’un carattere in scena, ognun trovava, o in se stesso, in qualchedun’altro l’original». E più avanti, al capocomico Orazio (che impersona Ottavio): «I cattivi caratteri si mettono in iscena, ma non i caratteri scandolosi». Questa finalità pedagogica è sottolineata anche nella prefazione goldoniana «alla prima raccolta delle Commedie» (sempre del 1750), in cui si denunciano le colpe del «cattivo teatro»: «per la qual cosa Tertulliano a’ teatri sì fatti dà nome di sacrari di Venere, e il Grisostomo dice, che nelle città furono edificati dal diavolo, e che da essi diffondesi per ogni luogo la peste del mal costume; quindi a ragione i sacri oratori fulminavano da’ pulpiti così corrotte commedie, ch’erano in fatti oggetto ben giusto dell’abominazione de’ saggi». (Cfr. C. Goldoni, Opere, a cura di F. Zampieri, Milano-Napoli 1952, passim). Sul Teatro comico ed in genere sull’opera goldoniana, cfr. M. Baratto, La letteratura teatrale del Settecento in Italia (Studi e letture su C. G.), Vicenza 1985.

[163] Cfr. Collina, op. cit., p. 22: «La Congregazione dell’Indice non tardava molto a proibire l’operetta del Bianchi»; e Fabi, DBI, cit. p. 110: «l’operetta incontrò le critiche di molti e le censure della congregazione dell’Indice». Circa i sospetti ed i dissensi «della società letteraria e culturale» sull’arte comica nel XVIII sec., si veda ad esempio la vicenda di Gerolamo Gigli in W. Binni, op. cit., pp. 439-446.

[164] Cfr. Index Librorum Prohibitorum, Benedicti XIV P.O.M jussu editus, per i tipi della Reverenda Camera Apostolica, Roma 1758, p. 80. Il relativo decreto del pontefice, premesso all’Index, reca la data del 23 dicembre 1757.

[165] Quelle di Garampi a Bianchi sono in FGLB, ad vocem. Quelle di Bianchi a Garampi si trovano in Archivio Segreto Vaticano (ASV), Fondo Garampi, vol. 275: una trascrizione (inedita) è stata curata dallo storico dottor Enzo Pruccoli che me ne ha gentilmente fornito copia, con revisione di alcuni passi cortesemente fatta in loco dal prof. G. L. Masetti Zannini.

[166] Anche tali epistole si trovano nel cit. FGLB, ad voces.

[167] Sulla diffusione a Roma del testo planchiano, senza accennare però alle polemiche derivate da esso, parla a Bianchi il padre servita Luigi Baroni il 27 maggio 1752 (FGLB, ad vocem), nel ringraziarlo per avergli inviato la «dotta Dissertazione, o Discorso come lo voglio chiamare, il quale non solo è piaciuto a me infinitamente, ma ancora a varj altri miei Amici eruditi a cui l’ho fatto vedere e fra questi parecchi Arcadi di Roma a quali è piaciuto assaissimo sì per la dottrina, ed erudizione, come per la dicitura, e lo stile acconcio al soggetto». Cfr. pure la lettera da Roma del 29 aprile 1752 di monsignor Marco Antonio Laurenti (FGLB, ad vocem): «Quando da mons. Maggi mi saranno dati gl’altri da esso lei accennatimi esemplari dal medesimo ne farò la distribuzione come V. S. Ill.ma mi ordina». Attorno all’iter della pubblicazione dell’Arte comica, cfr. le lettere inviata a Bianchi dal tipografo Giovanni Battista Pasquali (FGLB, ad vocem) nel marzo 1752: il 9 racconta di aver «dato a licenziare» il discorso; il 18, che esso «è licenziato dalli Revisori, ed ora è in mano al Segretario»; il 24: «La fede del Segretario ne l’hò potuta avere se non da Giornali, onde non ci fu maniera di poter terminare il suo discorso, conviene che aspetti sino a sabbato, che se allora vi sarà incontro di Barche gli spedirò tutte le copie, se non, dieci glie ne manderò per la Posta». Infine il 2 aprile precisa: «Delli suoi libri, ne ho trattenuti quattordici», ed il 15 aprile: «Eccole il restante della sua Operetta». (Circa la prassi seguìta per ottenere le autorizzazioni, cfr. Infelise, L’editoria veneziana nel ’700, Milano 1991, pp. 62-63.)

[168] Padre Concina scrive nel De spectaculis: «Vilissima mulierum Oldfield strenuam, ditissimam, aeque ac venustam, principemque feminam vocitat, Regioque sepulcro donatam repraesentat vir Christianus? Honore huic meretriculae narrat quoque Voltaire epis. 23» (p. 208). Nelle lettera cit. a Pietro Godenti, Bianchi sottolinea che a padre Concina «dispiacque che io avessi lodati gl’Inghilesi che onorarono l’Oldfield contro quello che fanno i Franceschi che non vogliono ora seppellire in chiesa i comici». Il 26 febbraio 1752 Pasquali (FGLB, ad vocem) aveva scritto a Planco: «E’ verissimo, che la Signora Oldfield, comica, fu sepolta a Westimster, dove sepellirono Newton, e dove sepelliscono i loro Ré, così mi disse il Sig. Smith». Su Giuseppe Smith, conosciuto personalmente da Bianchi a Venezia nel 1740, cfr. i ricordati Viaggi, SC-MS. 973 («23 luglio 1740: incontro con il Sig. Giuseppe Smith ricchissimo Mercatante Inghilese che ha una raccolta grandissima di libri rari»), e in Minutario, MS-SC. 969, cit., c. 141, la lettera di ringraziamento di Planco allo stesso Smith del 5 settembre 1740 per le «cortesie» ricevute in Venezia. Sulla biblioteca di Smith, cfr. pure la lettera di Bianchi a Leprotti del 30 luglio 1740 in Lettere, SC-MS 963, cit.; ed il ricordo contenuto nella cit. autobiografia latina («instructissimam rariorum librorum possidet Bibliothecam», p. 386). Nella missiva a Smith del 5 settembre 1740, Bianchi parla anche dell’elezione del «novello nostro sovrano», papa Benedetto XIV: «come uomo d’età, e di mente robusta fa sperare un buon regimento anche in pro’ delle lettere e de’ letterati ristabilito però che sia alquanto l’erario, reso esausto dalle fabbriche, e dall’altre spese antecedenti».

[169] La lettera di Garatoni a Bianchi del 5 luglio 1752 reca: «Nell’atto, che stò per chiudere questa mia mi avvisa l’Abate Ruggieri, che ieri mattina dalla Congregazione dell’Indice fu proibito il vostro discorso sopra l’arte comica. Sentiremo in appresso il perché».

[170] Dopo la cit. epistola del 3 giugno, in FGLB non ce ne sono altre.

[171] Recte, Ricchini, Tommaso Agostino.

[172] Sulla condizione sociale delle «comedianti» nel XVIII sec., cfr. A. Montanari, Per soldi, non per passione. «Matrimonj disuguali» a Rimini (1763-92): tra egemonia nobiliare ed ascesa borghese, «Romagna, arte e storia», n. 52/1998, pp. 45-60.

[173] Sull’argomento, cfr. nella biografia di Fabi in DBI, cit., passim.

[174] Cfr. L. Nardi, Cronotassi, p. 313, ed. anast. a cura di G. L. Masetti Zannini, Rimini 1995. Bianchi nella lettera del 13 luglio a Garampi aveva scritto: «Sento, come così sia giunto il nuovo nostro Vescovo, e coll’altro spaccio qui s’intese che s’era provveduto d’un Vicario che è un uomo vecchio, e forestiero. Parrebbe che fosse meglio che i Superiori fossero Paesani, e che conoscessero da sé le Persone non avendo di bisogno di conoscerle per mezzo d’altri, i quali non sono sempre i migliori». Il nuovo vescovo di Rimini è un nobile concittadino, Marcantonio Zollio.

[175] Questa missiva dev’essere giunta in ritardo a Garampi, se questi il 6 settembre nuovamente suggerisce a Planco l’invio di una lettera al papa: «Riguardo alla supplica per N. S., io invero non ho veduto da qualche tempo in qua Monsignor Laurenti; ma anch’egli fin da principio conveniva, che il miglior partito era di scrivere una lettera a dirittura al medesimo N. S., che più difficilmente avrebbe data una ripulsa in iscritto, di quello che egli faccia sovente con tutta franchezza in voce.»

[176] Cfr. Commercium epistolicum 1745-1775, SC-MS. 974, BGR, ad diem. Un’antica consuetudine di rapporti di Bianchi con questo pontefice, è documentata dalle lettere che l’allora cardinal Lambertini gli inviò tra 1733 e 1739, FGLB, ad vocem. Un’epistola di Benedetto XIV sull’inoculazione del vaiolo, è ricordata nel cit. Venturi, Settecento Riformatore. I., cit., p. 110, nota 1: essa è ripresa dal volume del cardinal Gian Costanzo Caraccioli, Vita del Papa Benedetto XIV Prospero Lambertini, Venezia 1783, p. 110. (L’autore è indicato da Venturi come Luigi Antonio Caraccioli, il quale scrisse invece una biografia di Clemente XIV.) Nella Biblioteca Amaduzziana, presso l’Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone (BFS), è conservata l’ed. originale uscita a Parigi in francese (di cui quella veneziana è la traduzione) nello stesso 1783: in essa, la lettera di Benedetto XIV, è alle pp. 150-151. Caraccioli (p. 4) ricorda la figura di Davìa, «si renommé pour sa science et pour sa vertu». Davìa doveva essere il successore di Benedetto XIII, nel conclave del 1730, ma non fu eletto per un solo voto, quello del cardinal de Biffy (p. 14).

[177] Cfr. l’autobiografia latina, p. 375. Tra le altre cose, Bianchi qui ricorda la concessione del papa «ut libros quoscumque vetitos, vetandosque legere, et retinere posset»; e che «de Planco persaepe clementer amiceque loquitur».

[178] A presentarla fu il cit. monsignor Laurenti.

[179] Il pontefice non risponderà mai personalmente a Bianchi: si veda una successiva lettera dello stesso Laurenti, datata 25 novembre, che sarà cit. infra nel testo: «e di questo, mi soggiunse il Papa, ne darete contezza al Signor Bianchi, che servirà per mia risposta alla di lui lettera con cui appunto mi pregava che almeno non fosse enunciato pubblicamente il suo nome».

[180] In quest’epistola leggiamo: «Si è veduto un manifesto, e credo anche i primi due tomi di una nuova Enciclopedia, lavorata da vari grand’Uomini di Francia, e si suppone non solo la migliore di questa classe di libri zibaldonarj, ma un capo d’opera relativamente a ogni scienza e arte». Siamo ancora lontani dalla condanna di quest’opera da parte di Clemente XIII (3 settembre 1759). Non è questa la prima notizia che giunge a Bianchi della «nuova Enciclopedia». Infatti egli risponde a Garampi: «Quella tale Enciclopedia, della quale mi parla sono de’ mesi, e forse più d’un anno, che in Francia, cioè in Parigi, cominciò ad uscire, ma incontrò degli intoppi, onde furono soppressi, o almeno sospesi i due primi Tomi, giacché v’erano molte Proposizioni ardite. Adesso forse l’avranno corretta con metterci de’ Carticini, o con mutarci i fogli, dove sono quelle Proposizioni ardite, e facendo che i Tomi, che sono per uscire, escano tutti gastigati, e corretti» (21 dicembre 1752, ASV).

[181] Cfr. il fasc. 310, FGMB.

[182] «Usus quoque est familiarissime Ghedino, Martello, et Comitibus fratribus [...]», autobiografia latina, p. 357. Si veda anche nella planchiana Epistola Apologetica, Rimini 1745, p. XX. A Martello si deve la proposta di «una forma di commedia per letterati [...] fondata chiaramente su temi letterari anche se indirettamente facendovi rifluire elementi di vita e costume del tempo»: cfr. Binni, op. cit. , p. 428.

[183] L’epistola, del 15 novembre (?) 1761, è in FGLB, ad vocem. Essa è riprodotta in immagine in P. Delbianco, Il fondo Gambetti, «La Biblioteca Civica Gambalunga», cit., p. 54.

[184] Riproduciamo alcuni passi della lettera: «Je regardai cet art dés mon enfance comme la premier de tous ceux à qui ce mot de beau est attaché. [...] Je voi avec plaisir que dans l’Italie cette mére de tous les beaux arts, plusieurs personne de la premiére consideration, non seulement font de Tragédies et del Comédie, mais les representent. [...] Y a t’il une meilleur éducation que de faire jouer Auguste à un jeune prince, et Emilie à une jeune princesse? On apprend en même temps à bien prononcer sa langue, et à la bien parler. L’esprit acquiert des lumiéres et de goût; le corps acquiert des graces; on a du plaisir, et on en donne trés honnétement. [...] Ce qul’il y avait de mieux au collége de jesuites de Paris où j’ai été élevé, c’était l’usage de faire representer des piéces par le pensionaires, en présence de leur parents». Dopo aver ricordato l’opposizione contro i Gesuiti da parte dei Giansenisti, Voltaire scrive: «On dit quel’ils fermeront bientot leurs ecoles; ce n’est pas mon avis. Je crois quel’il faut les soutenir et le contenir; leur faire païer leurs dettes quand ils sont banquerottiers; lese pendre même, quand’ils enseignent le parricide [...]. Mais je ne crois pas qu’il faille liver nôtre jeunesse aux jansénistes, attendu que cette secte n’aime que le traitté de la grace de St. Prosper, et se soucie de Sophocle, d’Euripide, de Terence» anche se quest’ultimo autore è stato tradotto dai Portorealisti. Prosegue il testo: «Faites aimer l’art de ces grand hommes (je ne parle pas des jansénistes), je parle des Sophocles. Vous serez secondé en deça des Alpes. Malheur aux barbares jaloux, à qui Dieu a refusé un coeur et des oreilles. Malheur aux autres barbares qui disent, on ne doit enseigner la vertu qu’en monologue, le dialogue est pernicieux. Eh! mes amis, si l’on peut parler de morale tout seul, pourquoi pas deux, et trois». Soltanto la chiusa con il saluto e con la firma, è autografa: «J’ai l’honneur d’etre, monsieur, avec une estime infinie votre tres humble e tres observent Voltaire gentilhome de la chambre du roy». A questa lettera del 1761 si riallaccia Bianchi scrivendo nella già cit. epistola a Pietro Godenti del 1762: «Io sono del sentimento del Signore di Voltaire che i persecutori de Gesuiti in Francia, che sono quei chiamati Giansenisti che sieno fanatici, e credo che sia meglio ad aver che fare coi Gesuiti, che coi Giansenisti». Planco si spinge a proporre l’abolizione di tutti gli Ordini religiosi: «basterebbe che ci fossero solamente i Preti, e questi anche non in tanta copia, come era nella primitiva Chiesa».

[185] Questo aspetto è considerato fondamentale dalla Collina (op. cit., p. 18), la quale scrive che l’occasione per comporre l’Arte comica fu data a Bianchi dall’«infatuazione dell’autore per una certa signora Cavallucci» (p. 19). Alla Collina spetta il merito di aver, per prima, reso note alcune lettere di Garampi a Bianchi sulle critiche romane alla dissertazione, e sulla condanna della Congregazione dell’Indice (pp. 21-23). Circa il problema del Giansenismo, se nell’Arte comica si schiera dalla parte dei Gesuiti, Bianchi nella sua scuola privata fu avverso a questi ultimi, dichiarandosi «nimico sempre del Probabilismo» (Giovenardi, op. cit., p. XLVI), anche se non approfondisce mai il tema della nuova corrente teologica, tranne che nella cit. epistola a Pietro Godenti contro padre Concina.

[186] Cfr. Masetti Zannini, Canto profano, cit., p. 352: «la condanna all’Indice in cui era incorso per certe sue tesi, restava in vigore senza altre conseguenze, giacché prima Clemente XIV poi Pio VI lo nomineranno loro Archiatro onorario». Ad attirare l’attenzione, in senso negativo, su Bianchi, era stato forse anche un suo scritto minore apparso nel 1744, la Breve storia della vita di Catterina Vizzani Romana che per ott’anni vestì abito da uomo in qualità di Servidore la quale dopo varj casi essendo in fine stata uccisa fu trovata Pulcella nella sezzione del suo cadavero. Gli appetiti d’Amore, osserva qui Bianchi, spesso sono «strani veramente e incredibili oltremodo», al punto che non conoscono ostacoli o condizionamenti pur di «giugnere in fine al possedimento della disiata cosa». Commentando che ciò non deve destar meraviglia, Bianchi dimostra di considerare lecito ogni comportamento erotico, compreso quello della giovane romana, seguace di Saffo e delle altre «Donzelle di Lesbo», in contrasto con i dettami della Religione. In De Carolis, La produzione pubblicistica su questioni mediche, in Giovanni Bianchi, Medico Primario…, cit., pp. 54-55, sono documentate le difficoltà incontrate da Planco per la pubblicazione del testo. Di Catterina Vizzani mi occupo nella comunicazione al Convegno degli «Studi Romagnoli» del 2001, di prossima pubblicazione, intitolata «Contro il volere del padre». Diamante Garampi, il suo matrimonio, ed altre vicende riguardanti la condizione femminile nel secolo XVIII.

[187] Cfr. SG, ad vocem.

[188] Nella nuova serie delle Nov., che inizia, sempre a Firenze, nel 1770 dopo la morte di Giovanni Lami, Bianchi pubblica una lettera (cfr. I, 30, 27 luglio 1770, coll. 471-474), in cui ricorda la benevolenza usata dal papa nei suoi confronti: «Nostro Signore oltre ad avermi dichiarato suo Archiatro Segreto Onorario, mi ha fatto duplicare lo stipendio, che mi dava la mia Patria, acciocché possa tirare avanti i miei studi, e le mie stampe, raccomandandomi nelle sue lettere, che io seguiti a promuovere nella gioventù i buoni studi della filosofia tutta, e della lingua Greca spezialmente». (Nella cit. lettera di Amaduzzi a Bertòla del 3 gennaio 1776, leggiamo: «Perfine furono coronati gli ultimi anni della sua gloriosa vita dalla bella considerazione, che a mia petizione a lui del tutto incognita, si compiacque a fare della sua virtù, e della sua celebrità l’immortale Clemente XIV, la di cui memoria desterà sempre nel mio cuore la più tenera sensibilità, e la più alta ammirazione nella mente. Egli il dichiarò uno de’ custodi della sua salute, onde per Archiatro segreto onorario Pontificio fu indi riconosciuto, ed in tale occasione interpose pure quel gran Pontefice l’autorevole, e generosa sua mediazione perché la Patria il consueto onorario gli perpetuasse, ed insieme glielo duplicasse, come infatti seguì».) Nei citt. Viaggi 1740-1774, SC-MS. 973, c. 569v, 25 settembre 1769, Planco rammenta che Clemente XIV rispose alle sue felicitazioni per l’elezione, con una lettera «dove mi stimola a seguitare a promuovere li buoni studi di Filosofia, e di Lingua Greca nella Gioventù». Nel cit. Tonini, La coltura letteraria, II, p. 219, si legge che Ganganelli, nato nel 1705, si trattenne a Rimini «secondo alcuni» sino al diciottesimo anno, cioè sino al 1723 circa: la scuola di Bianchi, come s’è detto, inizia nel 1720. Tonini riporta (pp. 220-221) una missiva inviata a Bianchi da Ganganelli il 30 settembre 1759 (dopo la sua nomina a Cardinale), che citiamo però dall’ed. veneziana del tipografo Garbo (Lettere interessanti, 1778, pp. 115-116): «Ora conosco, che voi avevate ragione a sgridarmi, quando io non voleva studiare; adesso vi ringrazierei di quanto allora faceste per me [...]». Il 7 giugno 1758 (ibid., p. 112) a Planco, Ganganelli aveva ricordato con «affetto» la città di Rimini («sono uno de’ suoi abitanti»), mentre il 15 settembre 1763 gli scrive: «non passa forestiere a Rimini, che non chiegga di vedere il Dottor Bianchi, e che non abbia il vostro nome registrato nel suo taccuino» (ibid., p. 119). In altre edd. delle Lettere interessanti, al posto della parola «taccuino», leggiamo: «con delle carte» (Losanna 1777, III tomo, p. 125), oppure «tra i suoi ricordi» (Firenze 1829, II tomo, p. 146).

[189] In BGR (segn. 11.MISC.RIM.CXIII,2) è conservata anche una Canzonetta in lode di Bella Cantatrice, appunto Antonia Cavallucci, «che mirabilmente canta nel Pubblico Teatro di Rimino», dell’avvocato riminese Giovambattista Zappi. Si tratta di un estratto a stampa del testo apparso «nel tomo X delle Rime degli Arcadi alla p. 368». Ne riferiscono le Nov., XIII, 5, 4 febbraio 1752, coll. 74-75, ove si scrive che la Cavallucci si stava esibendo a Rimini, col favore «delle Dame, e de’ Cavalieri, non meno che de’ Letterati di quella illustre Città». Dell’Ode planchiana che riproduciamo, le stesse Nov. citano soltanto il titolo, senza alcun commento, in XIII, 10, 10 marzo 1752, coll. 146-147. Il motivo della breve notizia è spiegato da Lami a Bianchi con un disguido tipografico: Lami non ritenne opportuno ritornare sull’argomento con un articolo inviatogli successivamente da Planco (cfr. Collina, op. cit., pp. 19-20). La Collina scrive pure che Bianchi aveva composto per la Cavallucci «alcune canzonette» (p. 19), ricavando la notizia da una lettera del ravennate Gioseffantonio Pinzi che parla di «belle poetiche composizioni in lode della Signora Cavallucci» (ibid., pp. 20-21). L’Ode planchiana che pubblichiamo venne considerata dal cit. Mazzucchelli (p. 1139, nota 9) non composta da Bianchi ma a lui «indirizzata». Questa notizia erronea fu poi ripresa da Giovenardi nella cit. Orazion funerale…, p. XLVI.

[190] La dissertazione è preannunciata da Bianchi nel suo testo In lode dell’arte comica, cit., pp. 4-5.

[191] Masetti Zannini, in Vicende accademiche, p. 62, considera il discorso di Fabbri come «una difesa» dell’iniziativa planchiana «tanto discussa, e ridicolizzante, da far pensare che il successivo silenzio dell’Accademia fosse da ciò, più dalle cause indicate dal Bianchi, motivato».

[192] Per entrambi gli argomenti, cfr. il fasc. 222, FGMB. Nelle Nov., di vari anni, si trovano numerosi interventi di Bianchi su argomenti antiquari ed iscrizioni antiche.

[193] Dell’argomento si è occupato il medico e storico della medicina dottor Stefano De Carolis (in precedenza cit. per il volume Giovanni Bianchi, Medico Primario di Rimini ed archiatra pontificio): cfr. Un pittore seicentesco ed una Beata medievale: Angelo Sarzetti (1656-1700 c.) ed il "corpo" della Beata Chiara da Rimini, «Atti della XXXV Tornata dello Studio Firmano per la Storia dell'Arte Medica e della Scienza», a cura di A. Serrani, Fermo 2002, pp. 69-75. «Nel 1756», mi ha cortesemente spiegato lo stesso dottor De Carolis, «Giovanni Bianchi pubblicò nella Nuova raccolta d’opuscoli scientifici e filologici la lettera latina De urina cum sedimento caeruleo. In essa descrive il caso d’un uomo di sessant’anni, morto dopo avere espulso per una decina di giorni un’urina caratterizzata da “un sedimento d’un bel colore azzurro”. Questo fatto singolare è stato sempre interpretato come un caso d’indicanuria: in realtà un’attenta rilettura dell’epistola in questione ed il ritrovamento, fra le carte manoscritte del Bianchi, dei campioni di sedimento urinario da lui stesso raccolti e conservati, permette di formulare su quest’inusuale reperto patologico ipotesi del tutto nuove».

[194] Ovviamente, il testo italiano è tradotto in latino nel Codex, c. 20v. Questo testo latino si legge anche nelle citt. Vicende accademiche, pp. 109-110.

 

 

 

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