Riministoria 

Antonio Montanari

Tra erudizione e nuova scienza

I Lincei riminesi di Giovanni Bianchi (1745)

 

6. Le dissertazioni accademiche (I)

 

Non esiste un elenco completo ed ufficiale delle dissertazioni tenute nei Lincei riminesi. Le notizie che seguono hanno origine da diverse fonti che indicheremo di volta in volta [102]. Le adunanze lincee si tenevano di venerdì. L’inaugurazione dell’Accademia avviene il 19 novembre 1745 [Codex, c. 2r].

Dissertazione n. 1, del 3 dicembre 1745, dell’abate Stefano Galli, «sopra l’utilità della lingua greca» [103].

Dissertazione n. 2, del 27 maggio 1746, dell’abate Giuseppe Garampi, Delle Armi gentilizie delle famiglie [104].

Dissertazione n. 3, del giugno 1746, di Planco, De Vescicatorj [105]. Il tema trattato esce dall’Accademia e gira fra la gente, per merito del suo allievo Giovanni Paolo Giovenardi [106], appena ne esce un estratto sulle Novelle fiorentine [107]. Così Giovenardi scrive a Bianchi da Santarcangelo, dove (come si è visto) insegna Filosofia:

 

Io non ò mancato di leggere nella Scuola, et anche in questo nostro Caffè tutto quello che intorno a ciò nella suddetta novella si riferisce, e di sostenere alla meglio che ò potuto, quel tanto, che in quella sta scritto intorno a Vescicatori. L’ò letta ancora nel caffè, dove concorre ogni sorte di Persone. Giacché ogni sorta di persone è soggetta a poter essere martoriata da certi Medici, o siano Fanfaroni della Marca collo strano, e crudele rimedio de’ Vescicatorj, e perciò quivi ancora ò stimato bene di diffondere que’ Lumi, che in quella sono sparsi a comune vantaggio di tutta la Società, acciocche se per avventura non si volessero astenere i Fanfaroni dal farne uso, imparino almeno i Malati o gli Assistenti a rifiutarli.

 

Dopo questa dissertazione, il matematico modenese Domenico Vandelli scrive a Bianchi definendolo autore di «imposture e maldicenze» e di «moltissime infedeltà», per cui lo considera «nel numero de’ letterati superficiali, e fra Montambanchi di mala natura, che mordono ad ogni capo» [108].

Dissertazione n. 4. dell’anno 1746 o 1747, di Giuseppe Zinanni. L’argomento è una «diligente osservazione sopra le uova, e sopra la generazione delle Lumache terrestri, ed altre chiocciole fluviali, o d’acqua dolce» [109].

Segue una pausa nell’attività accademica che riprende soltanto nel 1749: da questo momento sino al 1755, essa viene registrata da Bianchi nel Codex, dove troviamo elencate ventisette dissertazioni [110]. Le indichiamo nella loro successione cronologica.

Dissertazione n. 5, del 28 febbraio 1749, di Planco: epistola De monstris ac monstrosis quibusdam, poi pubblicata a Venezia in due edizioni, nello stesso anno [111]. Essa è indirizzata a monsignor Giuseppe Pozzi, di Bologna, archiatro pontificio straordinario e presidente dell’Accademia dell’Istituto delle Scienze di quella città [112]. Questo studio, al di là degli aspetti più o meno teoricamente validi ancor oggi sotto il profilo scientifico [113], merita considerazione per una questione che sta alla base della problematica trattata da Bianchi, cioè il concetto di Natura così come emerge attraverso il sistema della classificazione scientifica da lui usato. Planco osserva che i mostri si possono dividere in tre specie: quelli che «in Utero Animantium oriuntur ictu vel casu quodam alio»; quelli che derivano «ex conformatione naturali, sive ex plastica quadam vi naturae, sive a natura ipsa ludente» [114]; infine quelli che nascono «ex morbo in Animantibus». Bianchi dà per scontato che la perfezione naturale, presupposta dai filosofi scolastici, sia smentita da questi fenomeni.

L’Encyclopédie, alla voce «monstre (zool.)», spiega che trattasi di «animal qui naît avec une conformation contraire à l’ordre de la nature». In questo «ordre de la nature» è fatto coincidere dalla vecchia Filosofia il presupposto metafisico-teologico capace di spiegare tutta la realtà. Nello stesso «ordre de la nature», il nuovo pensiero scientifico identifica invece le regole generali, ammettendo però che da esse si differenzino le eccezioni dimostrate mediante l’osservazione dei fenomeni. Eccezioni e fenomeni sono tanto evidenti, da non poter essere negati, come spiega questo scritto planchiano, il quale documenta quella che abbiamo definito la scelta eretica di Bianchi a favore della fisica di Gassendi. Forse proprio per questo motivo, tale scritto fa convogliare sul medico riminese le prime avversioni romane, alle quali non dovettero essere estranei gli ambienti ecclesiastici riminesi che, date le concezioni scientifiche di Bianchi appena considerate, non potevano gradire troppo il suo modus operandi come gestore dei Lincei. La fretta con cui si giungerà, tre anni dopo, nel 1752, alla sentenza dell’Indice per l’Arte comica, non può spiegarsi soltanto in relazione al tema controverso in essa trattato, un tema allora importante, tanto da essere al centro di durissime polemiche [115], quindi di stretta attualità, però in definitiva marginale rispetto alle più fondamentali questioni di Filosofia e di interpretazioni teologiche e metafisiche della Natura. Un tema, soprattutto, non sviluppato così duramente da Bianchi sotto il profilo dottrinario, come avrebbe invece dovuto richiedere, quale giustificazione, la stessa condanna romana, per apparire plausibile.

Dissertazione n. 6, del 7 marzo 1749, di Giuseppe Antonio Battarra, De Lithophytorum, ac praesertim de corallorum generatione.

Dissertazione n. 7, del 21 marzo 1749, di Planco, sopra i rimedi per le coliche nefritiche [116].

Dissertazioni n. 8 e n. 9, rispettivamente dell’11 e del 25 aprile 1749, sopra la Beata Chiara da Rimini, entrambe inviate da Giuseppe Garampi dimorante dalla fine del 1746 a Roma [117]. La prima dissertazione tratta della Comunione sotto le due specie, ricevuta dalla Beata Chiara l’11 aprile 1749. La seconda parla dei suoi digiuni, toccando un tema che divideva l’ambito ecclesiastico, circa il rigorismo con cui si doveva o meno affrontare la quaresima [118]. E che non risultò gradito all’uditorio «propter materiae, et stili ariditatem», al punto che Bianchi concluse la radunanza leggendo versi di un «festivus» autore napoletano, come troviamo scritto nel Codex [c. 12r].

Dissertazione n. 10, del 15 marzo 1750, di Giovanni Paolo Giovenardi [119], De Rubicone, a proposito della «iscrizione da lui fatta per un cippo sulle sponde del fiume Uso, preteso Rubicone degli antichi e dalla quale prese le mosse una celebre controversia in cui il Bianchi ebbe parte preponderante» [120], come dimostra la dissertazione seguente.

Dissertazione n. 11, del 21 marzo 1750, di Planco, lettera ad un amico fiorentino, De Rubicone [121].

Dissertazione n. 12, del 15 luglio 1750, di Daniele Colonna, De Hydrope Ascite.

Dissertazione n. 13, del 12 marzo 1751, di Giacomo Fornari, An Philosophia et reliquae scientiae et artes versibus pertractari possint, sintque veri poetas qui hasce scientias versibus pertractant an puri versificatores.

Dissertazione n. 14 del 27 marzo 1751, di Giuliano Genghini, De Apollo Pythio.

Dissertazione n. 15 del 2 aprile 1751, di Planco, lettera «circa varias Inscriptiones antiquas Arimini» [122].

Dissertazione n. 16, del 30 aprile 1751, lettura dell’epistola inviata da Lodovico Coltellini sul Dittico queriniano, e di sette lettere di Roberto Malatesti (1479).

Dissertazione n. 17, del 30 aprile 1751, di Gaspare Adeodato Zamponi, De Lumbricis Corporis Humani [123], in cui si sostiene, erroneamente, che i vermi del corpo umano si riproducono per parto e non con uova [124]. Monsignor Giuseppe Pozzi in una lettera a Bianchi definisce «ciance» le affermazioni di Zamponi [125]. Riserve metodologiche sono avanzate da Giuseppe Zinanni: l’osservazione di Zamponi è stata fatta soltanto una volta, «quando per stabilire un’osservazione vi si richiede di verificarla più decine di volte», per cui augura all’autore della dissertazione «che s’incontri in altri vermi che stiano per partorire» (24 giugno 1752, FGLB, ad vocem).

Nel prologo alla dissertazione di Zamponi e nel relativo verbale del Codex, Bianchi denuncia la negligenza degli Accademici i quali intervengono raramente alle radunanze. Nel prologo i toni sono molto forti: gli Accademici, sostiene, s’affaticano «solamente per qualche poco per un picciolo guadagno, o per rendersi abili a gli amoretti di qualche femminuccia» [126].

Dissertazione n. 18: il 7 maggio 1751, il «tiro» Giovanni Battista Brunelli parla brillantemente di un argomento di ostetricia, relativo ai parti difficili [127].

Dissertazione n. 19. Senza data [128], è la lettura di un’epistola di Leonida Malatesti del 1546.

Dissertazione n. 20, del 14 maggio 1751, di Giovanni Antonio Battarra, De origine fontium. «In fine lepide dixit se hanc Dissertationem recitasse, ne videretur negligentiae notatus a Planco, ut suboscure notati sunt alii Academici Ariminenses, qui modo muti facti videntur», commenta Bianchi nel Codex [c. 17r].

Dissertazione n. 21, del 28 maggio 1751: Planco dà lettura dell’esame anatomico riguardante un bambino di nove anni, il contino Giambattista Pilastri di Cesena, morto «ex Apostemate in lobo destro Cerebelli» [129]. Quell’esame è pubblicato nello stesso anno nella Raccolta d’opuscoli del camaldolese padre Angelo Calogerà, a Venezia [pp. 169-200], con il titolo Storia medica d’una postema nel loro destro del cerebello, aprendo lunghe e «feroci polemiche» [130]. Un’anticipazione di questa dissertazione , è fornita da Bianchi, pochi mesi prima, in appendice alla seconda edizione del De Monstris [131].

Dissertazione n. 22, del 11 giugno 1751: Pasquale Amati «Causidicus seu Leguleius» tiene una dissertazione «de origine Litterarum», la quale «approbata non fuit a Planco restitutore, et ab omni dotto, qui huic sessione interfuit» [132]. Nella successiva riunione [18 giugno 1751], Bianchi «aliquid dixit circa deliramenta Amati in praeterita sessione» [133]. Quest’annotazione, nella sua brevità, sottintende parecchie cose sull’atteggiamento di Planco come reggitore dei Lincei e come «uomo dotto».

Dissertazioni n. 23 e n. 24: il 18 giugno 1751, Bianchi tratta di un altro esame anatomico, De structura uteri in gravidis, e legge una lettera di Lodovico Coltellini sulla lingua etrusca, a cui premette una prefazione [134] «de incertitudine studiorum Linguae Etruscae», come leggiamo nel Codex [c. 18v.].

 

[102] Ai Lincei planchiani furono forse tenute anche altre dissertazioni oltre a quelle che abbiamo inserito nell’elenco (v. il già cit. caso di Mattia Giovenardi). Questa nostra ipotesi è confortata pure da uno scritto di Bianchi del 1761, di cui diremo infra, significativamente intitolato Congressi letterari della nostra Accademia [fasc. 75, FGMB].

[103] La notizia, scoperta da Turchini, G. Bianchi, l’ambiente antiquario, cit., p. 415, è nei citt. Viaggi 1740-1774, SC-MS. 973, c. 312v (che più opportunamente si dovrebbero definire Diari, perché presentano pure notizie riminesi, come questa). Circa «l’utilità della lingua greca», è interessante ricordare una lettera di Garampi a Bianchi del 19 dicembre 1750 (FGLB, ad vocem), dove leggiamo: tale lingua è «necessaria specialmente» agli ecclesiastici che debbono studiare, e vogliono farlo «fondatamente», le Sacre Scritture, le Opere dei Padri e la Storia ecclesiastica, «che sono i fondamenti della buona teologia».

[104] Cfr. sempre nei citt. Tur­chini, G. Bianchi, l’ambiente antiquario, p. 416, e Bianchi, Viaggi 1740-1774, SC-MS. 973, c. 318v, 27 maggio 1746: qui leggiamo che, nella «solita Accademia de Lincei» radunatasi in casa di Bianchi, Garampi «parlò molto eruditamente», alla presenza di «varj, e tra gli altri un Padre dell’Ordine de’ Minimi Viniziano d’origine Greco, che tornava dall’aver predicato a Roma nella sua Chiesa di S. Andrea delle Fratte», il Padre Lettor Condopulo. Nello stesso ms. 973, Viaggi, c. 474r, 15 Agosto 1763, Bianchi ricorda di aver scritto un memoriale al cardinal Legato «acciocché provveda per un affronto fattomi dal Conte Sartoni nella nostra Accademia Letteraria Santiniana», cioè tenuta da Lorenzo Antonio Santini, non però presso i Lincei planchiani (come invece scrive M. Sassi, Tre viaggi di Iano Planco a Ravenna, «Ravenna Studi e Ricerche», VI/I, Ravenna 1999, p. 48), dato che nello stesso passo si legge più avanti: «io non sono mai più andato a quella Accademia, né mai più sono capitato in casa Rigazzi, dove capitò il Conte Sartoni». (Il conte Giovanni Antonio Rigazzi, nel ms. 973, è già cit. in precedenza.) Su questa «Accademia Letteraria Santiniana», possiamo ricavare qualche vaga notizia da una lettera di Francesco Legni a Bianchi, 3 giugno 1752 (FGLB, ad vocem): «Mi spiace molto la perdita del Sig. Dottore Santini, e parmi poter credere, che siasi da lui eretta una Accademia con un titolo così vile, e che sia morto per l’esaggerazione della nobiltà dell’Asino, quando non avesse voluto alludere in tal foggia a suoi seguaci, ed incomiare così transversalmente li medesimi, instillando loro di più maggior fervore di premere le vestigia d’un così nobile soggetto».

[105] Manca il giorno. La notizia si ricava dalla prima edizione a stampa uscita presso Pasquali a Venezia, 1746; ad essa seguì la pubblicazione nella calogeriana Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, XXXVII, Venezia 1747, pp. 361-408. Planco critica l’abuso dei vescicanti, «preparazioni farmaceutiche ad uso topico dotate di un’intensa azione irritante, il cui principio attivo veniva estratto da un particolare genere d’insetti coleotteri, le cantaridi (che Planco chiama “cantarelle”)»; essi venivano utilizzati «per le forme patologiche più disparate», anche se inizialmente erano stati applicati per la sola peste bubbonica: cfr. De Carolis, La produzione pubblicistica…, cit., p. 42. Sul testo della lettura accademica, cfr. i fascc. 194, 195, 196, FGMB. Il mentovato Vandelli, nel proseguire la sua personale campagna contro Bianchi, lo attacca anche per questo scritto: nelle Risposte (1747) che tengon dietro alle Considerazioni già ricordate, lo rimprovera per aver egli preteso «di proscrivere un rimedio trovato dalla venerabile Antichità, e praticato da i più sperimentati Professori». L’edizione veneziana è recensita dalle Nov., VIII, 2, 13 gennaio 1747, coll. 24-27: «Noi vediamo in questa Dissertazione [...] il primo frutto prodotto alla pubblica luce dell’Accademia de’ Lincei».

[106] Cfr. la lettera del 27 gennaio 1747 (FGLB, ad vocem).

[107] Cfr. n. VIII, 13 gennaio 1747, coll. 24-27. Successivamente (VIII, 25, 23 giugno 1747, coll. 392-394), le Nov. riferiscono l’uscita della dissertazione nel tomo XXXVII «del Calogerà»: così annota lo stesso Bianchi in fondo al volume della rivista fiorentina. Tutta la raccolta delle Nov. esaminata è quella esistente in BGR, e proviene dalla biblioteca personale di Giovanni Bianchi, come attestano le scritte di sua mano in fine dei singoli tomi, con annotazioni di articoli propri e citazioni che lo riguardano, oppure relative a cose riminesi.

[108] Cfr. la lettera del 20 maggio 1747, FGLB, ad vocem. Si tratta dell’unica epistola di Vandelli conservataci nei carteggi planchiani. In essa si sottolinea pure il «ridicolissimo titolo di Patricio Riminese».

[109] Cfr. il fasc. 221, FGMB. Qui manca la data in cui fu inviata la dissertazione. E’ possibile ipotizzarla esaminando l’epistolario di Zinanni diretto a Bianchi (FGLB, ad vocem). In base a tale epistolario, si può avanzare l’ipotesi che Zinanni abbia inviato a Planco due dissertazioni differenti fra loro; però abbiamo il testo soltanto di una: cfr. A. Montanari, «Giuseppe di Prospero Zinanni», accademico dei Lincei planchiani, «Ravenna studi e ricerche, Società di Studi ravennati», VIII/1-2, 2001, pp. 109-128. Il 22 marzo 1746, Zinanni scrive: «Ho provato piacere in sentire dalla sua ultima scrittami che abbia rinnovato in di lei casa l’Accademia de’ Lincei, e da ciò fà vedere il desiderio che ha, di accrescere i Letterati, e la gloria della di lei patria. Li sono altresì tenuto dell’esibito mi fa di aggregare a così universo Congresso e per prima occasione le trasmeterò una mia dissertazione, la quale se conoscerà meriti di esser letta, la farà legere, e quando no la rimanderà». Il successivo 12 aprile Zinanni invia a Bianchi, tramite un padre francescano che da Ravenna scende a Pesaro, la «promessa dissertazione. Questa forse non avrà la fortuna d’incontrare l’agradimento degl’Academici come bramerei, e ciò per eser parto di uno che non ha l’abilità che si richiede. S’ella la stima cosa, che non meriti d’esser letta, la tratenghi dando a lei tutta la libertà fuorche di essere stampata». Il problema della datazione nasce dalla lettera del 25 marzo 1747, dove Zinanni scrive: «Subito che avrò comodo non mancherò di trasmettervi qualche cosa del mio (benché di debolezza) per la loro Accademia». Ed il 7 maggio: «Benché tardi le trasmetto la promessali Disertazione; ciò non è pervenuto da difetto di volontà, ma bensì per esser stato molto tempo poco bene, e poi dopo occupato in varie cose per mons. de Reomur. Ciò che debbo pregarla si è che prima di far leggere in Accademia la disertazione le dia un’occhiata, e se le riesce non meritevole di legersi in un congresso così virtuoso, a darla alle fiamme, che ne sarò contentissimo». (Il «Reomur» di cui parla, è il naturalista René-Antoine Ferchault de Réaumur, con cui fu in corrispondenza.) Zinanni (1692-1753), dopo essersi dedicato agli studi di Meccanica, si rivolse a quelli di Botanica prima e a quelli delle Scienze naturali poi, concentrandosi in particolare sulle uova degli uccelli, come dimostra il già cit. titolo del suo libro del 1737, e come si ricava anche dalle lettere inviate a Bianchi. Postume sono altre opere, pubblicate a Venezia, con studi sulle piante dell’Adriatico (1755) e sui testacei paludosi e terrestri dell’Adriatico e del territorio di Ravenna. Il suo ricco museo, allestito nel suo palazzo in Ravenna, andò disperso dopo la sua scomparsa, avvenuta il 23 ottobre 1753. (Notizie ricavate dal sito Internet: <http://www.racine.ra.it/ginanni/storia1.htm>.) Giuseppe Zinanni è cit. quattro volte da Bianchi del De Conchis: alla p. 22 (dove è detto «vir Nobilissimus, ac de Historia Naturali optime meritus»); a p. 39 (per materiale inviato da lui a Planco «liberaliter»), a p. 40 (per lo stesso motivo) ed a p. 44 (per un’osservazione scientifica fatta da Zinanni e comunicata a Bianchi). Il 6 febbraio 1754 Stefano Galli scrive da Roma a Bianchi: «m’è sommamente dispiaciuto di sentire, che sia mancato il Signor Conte Francesco Ginanni uomo tanto benemerito della Storia naturale» (FGLB, ad vocem). Sulla sua figura, cfr. F. Baldassini, Intorno all’opera del conte Giuseppe Zinanni di Ravenna sulle uova e nidi degli uccelli e intorno la sua anteriorità a M. Gay nell’antivederne l’importanza, Bologna 1854. Nel 1754, nella Societas Litteraria Ravennatensis, a Zinanni subentra lo stesso Planco: cfr. le citt. Vicende accademiche, p. 74 e pp. 107-108. Nelle Nov., XV, 6, 8 febbraio 1754, coll. 91-94, parlando dell’elezione di Bianchi al posto di «Ginanni» nella «Società letteraria» ravennate, si scrive che l’Accademia ravennate «a pieni voti» ha chiamato Bianchi a prendere il posto di Giuseppe Zinanni, «Cavaliere nobilissimo», che aveva dimostrato «perizia grande» sulle cose naturali, delle quali ha lasciato «un copioso Museo» in uso a due suoi nipoti, vincolandone «la proprietà dopo la loro morte a’ Padri gesuiti di questa Città, acciocché si conservi per sempre». L’Accademia ravennate ha eletto Planco «lusingandosi che egli potrà soddisfare pienamente a tutte le intenzioni della Società, per esser egli, come a tutto il Mondo è noto, molto versato negli studi, che erano i prediletti del defunto Cavaliere». La scelta di Planco, conclude l’articolo, «consola non poco» la Società Letteraria, «e le fa per certo modo esser meno sensibile la perdita del defunto erudito Cavaliere, e tanto benemerito degli Studi della Naturale Istoria, considerando che questi appo di essa torneranno a vivere nella persona del dotto Soggetto al defunto surrugato». Le Nov., XV, 8, 22 febbraio 1754, coll. 123-126, pubblicano un’epistola scritta da Francesco Maria Ginanni al padre Lettore don Pierluigi Galletti, Bibliotecario ed Archivista della Badia Fiorentina, in cui si dice che il segretario della Società Letteraria, abate Luigi Amadesi «propose parecchi soggetti, acciocché uno eleggere se ne dovesse per la Classe di Filosofia in luogo del defunto Conte Giuseppe Ginanni, noto alla Repubblica delle Lettere per le singolari scoperte da lui fatte nella Storia Naturale: e fu di concorde sentimento prescelto il celebre Signor Dottore Giovanni Bianchi di Rimino, il quale degnamente riempirà quel posto». La lettera dà poi informazioni sul regolamento della Società Letteraria Ravennate, eretta nel 1752: le dissertazioni di un socio, prima della pubblicazione dovevano essere proposte all’esame degli altri tre della sezione di appartenenza (Storia Ecclesiastica, Storia Civile e Filosofia), per riceverne un giudizio del quale tener conto.

[110] Si vedano le cc. 10-21r nel cit. ms. 1183, BGR.

[111] Come osserva De Carolis, Il medico al lavoro, in Giovanni Bianchi, Medico Primario…, cit., p. 58, «la storiografia medica più recente è concorde nel ritenere degni di nota», tra tutte le opere d’argomento medico pubblicate da Bianchi, «solo i suoi studi teratologici», tra i quali «l’opera più importante» è appunto il De monstris. Il testo ms. è in fasc. 185, FGMB. L’opera, come si è detto, nel 1749 esce in due edizioni. La prima reca nel testo la data del 30 aprile 1748. La seconda contiene due Appendici, datate al primo dicembre 1748, di cui dà conto Lami nelle Nov., XI, 12, 20 marzo 1750, coll. 179-183. Nella prima Appendice si «descrive un uovo coll’immagine del Sole impressa nel ventre di esso, il qual uovo nacque in Rimini». La seconda Appendice riguarda invece «la sezione del capo d’un Cavalierino di Cesena di nove in dieci anni, il quale era figliuolo unico del Sig. Conte Alessandro Pilastri»: questo è l’argomento di cui Bianchi tratta con la dissertazione n. 21, del 28 maggio 1751. L’anticipazione dell’uscita del De monstris è data dalle Nov., IX, 42, 18 ottobre 1748, col. 667, all’interno della lettera del dottor Giovanni Calvi da Cremona, dove Bianchi è detto «uomo di celebre dottrina» che aveva scoperto un vitello bicipite con un corpo solo, ed un gatto bicorporeo ed una testa: «Può essere, che questo grand’Uomo faccia stampare una sua lettera che ha intitolato De Monstris, ac de Monstruosis quibusdam, la quale non può essere se non molto buona». Una recensione dell’opera è nelle Nov., X, 1749, nn. 30, 31, 33, coll. 477-480, 489-492, 518-521.

[112] Nelle Nov., XIV, 23, 8 giugno 1753, coll. 353-362 è commemorato monsignor Giuseppe Pozzi (scomparso l’anno precedente): in una nota datata Bologna, si cita una lettera di Pozzi a Bianchi del 1726 sui «canali cistepatici», alla quale Bianchi rispose con altro testo. Lettera e risposta sono stampate a Bologna nel 1726 ed in Olanda due anni dopo, in appendice ad un’opera di G. B. Morgagni, Epistulae anatomicae duae. Nello stesso articolo, leggiamo, col. 355: «Bianchi avea parlato in quella Accademia [di Bologna, n.d.r.]nel mese di Febbraio di quell’anno per l’occasione della sezione del cadavere di una donna morta d’idropisia di petto, avendo egli fatta una Dissertazione sopra di quel male». Le Nov. ricordano poi che Bianchi aveva dedicato a monsignor Pozzi il De Monstris, ma dimenticano quanto avevano scritto in XI, 12, 20 marzo 1750, coll. 179-183, cioè che esistevano due diverse edizioni dello scritto planchiano. Nel 1753 le Nov. infatti riferiscono: «Questa Pistola [il De Monstris, n.d.r.], benché sia stata stampata in Venezia l’anno 1749 con tutto ciò essa è in data dell’ultimo dì d’Aprile dell’anno 1748 alla quale, perché la stampa indugiava a farsi, il Signor Bianchi aggiunse una poscritta in data del primo dì di Dicembre del medesimo anno 1748». Come si è già visto le due Appendici, datate al primo dicembre 1748 sono presenti soltanto nella seconda edizione. (Giuseppe Pozzi, essendo nato nel 1697, era di poco più giovane di Bianchi. Aveva diritto al titolo di monsignore, come capiterà anche a Planco, per la carica di archiatro che non obbligava al celibato: anzi, le biografie di Pozzi ricordano due suoi matrimoni.)

[113] Su questi aspetti si sono soffermati vari studiosi: cfr. De Carolis, Il medico al lavoro, cit., p. 58.

[114] Ecco quanto spiegano le Nov., X, 30, 25 luglio 1749, col. 477-480, di questa seconda specie: sono mostri «prodotti nell’uovo ab initio da Domineddio secondo la sentenza degli sviluppi; oppure che una qualche virtù plastica abbia prodotte, e vada producendo queste parti di più, che si trovano ne’ Mostri» che hanno un dito, un braccio, un piede o qualche altro membro o viscere in più. (La recensione delle Nov. prosegue nei nn. 31 e 33, 1 e 15 agosto 1749, coll. 489-492 e 518-521.) L’espressione «virtù plastica» richiama «le tendenze legate alla tradizione del platonismo»: cfr. P. Rossi, La scoperta del tempo, «Storia della scienza moderna e contemporanea», cit., p. 559. Sull’origine dei fenomeni mostruosi, Bianchi formula ipotesi che oscillano tra il discorso rigorosamente scientifico ed affermazioni che, in apparenza, ai nostri occhi, sembrano negarlo, quando presuppone che alcuni di quei casi siano provocati «a natura ipsa ludente». Ma sono immagini che appartengono alla cultura del suo tempo. Quello che ancor oggi noi chiamiamo «lo scherzo di natura», per indicare qualcosa fuori dell’ordinario, ci rimanda etimologicamente al «ludus» quale gioco o scommessa, cioè ad esempio alle possibilità combinatorie dei dadi, per dimostrare appunto che la realtà, tra le sue varianti, ha oltre la perfezione anche l’errore, il mostro o la mostruosità. (Infine può esistere un altro significato: «ludere» come ingannare, quasi a sostenere che la natura voglia prendersi beffa degli uomini, violando le regole che essa stessa ha imposto.) Rossi, in altro lavoro, ci ricorda che la teoria medievale degli «scherzi di natura» è presente in studi naturalistici del primo Settecento, a proposito dei fossili: «Alla tesi dei lusus naturae, degli scherzi o giochi della natura avevano aderito studiosi innumerevoli», egli scrive ne I crostacei, i vulcani, l’ordine del mondo, «Anton Lazzaro Moro (1687-1987), Atti del Convegno di Studi», Pordenone 1988, p. 14. Circa il complesso discorso sulle cause dei mostri, Bianchi nella sua catalogazione sembra riecheggiare la sintetica classificazione già prospettata da F. Liceti, De monstrorum natura caussis, Padova 1634, II, p. 51; e ripresa da U. Aldrovandi, Monstrorum historia, Bologna 1642, p. 380. Il testo di Fortunio Liceti (1577-1657) ebbe una prima ed. nel 1616; cito da quella del 1634 che Bianchi aveva a disposizione in BGR, dove esiste pure il volume cit. di Aldrovandi (1522-1605, medico, naturalista e lettore presso lo Studio di Bologna), che uscì postumo a cura di Bartolomeo Ambrosini (1588-1657, medico e naturalista, fondatore e prefetto dell’Orto botanico dell’Università di Bologna). In generale, sostengono sia Liceti sia Aldrovandi, si può parlare di tre cause per i mostri: una soprannaturale; una dovuta all’intervento di un dèmone (o per un maleficio); ed una riconducibile a fatti naturali o fisici. Planco rifiuta l’ipotesi del dèmone e del maleficio. In BGR, Bianchi aveva anche a disposizione (ed. Antverpiae 1562) i Magiae naturalis libri IIII, pubblicati da G. B. Della Porta (1535-1615) a ventitré anni (1558, Napoli). In essi, alla curiosità per il meraviglioso ed il miracoloso di derivazione rinascimentale, s’accompagna il tentativo di distinguere una magia diabolica, da una appunto «naturale» che può definirsi (cito da una traduzione del 1560, De i miracoli et maravigliosi effetti dalla natura prodotti, libri IIII, Venezia, volume esistente un tempo presso la «Libreria di San Bernardino di Rimini», ora in BGR), come «una consumata cognitione delle cose naturali, et una perfetta Filosofia», il cui scopo è quello di contemplare le «cose recondite». Nell’edizione in venti libri (Napoli 1589) del Magiae naturalis (BGR, Francoforte 1607), «Prodigiosi, et monstruosi partus» s’intitola il cap. XVII, Liber II, p. 83: qui s’ipotizza che si causino mostri, oltre che per cause fisiologiche, anche per «inordinatos coitus, ut dilabatur semen in non debita loca» (p. 85).

[115] Per i termini cronologici ed i riferimenti bibliografici su tali polemiche, cfr. infra.

[116] Circa l’origine di questa dissertazione, cfr. le citt. Vicende accademiche, nota 50, p. 79.

[117] Il 3 dicembre 1749 (FGLB, ad vocem), Garampi scrive a Bianchi: «Ella averà già da altri saputo la benignità che Nostra Santità hà avuta per la mia persona, cosicché in breve anderò ad abitare nel Palazzo Vaticano, ove avrò il comodo eziandio della Biblioteca. Onde io sono contentissimo non solo per la speranza del lucro venturo, quanto e per l’onorificenza presente, e per la grande comodità che avrò in un Archivio e in una Biblioteca che non hanno forse pari nel mondo. Ora viene il tempo in cui potrò fare ricerche e acquisti per la storia della nostra Città, che non perdo di mira». Nella stessa missiva si accenna ad un progetto editoriale di Planco, relativo ad una storia naturale «del nostro Agro». In un documento del fasc. 310, FGMB, Bianchi nel descrivere le biblioteche riminesi (scrive che non ne esistono altre pubbliche oltre alla «Gambalunga»), tratta della propria «copiosa Libreria Privata, che ha raccolto a sue spese», e che «si distingue» per libri filosofici e matematici moderni, per volumi botanici ed anatomici «antichi e moderni», e per testi di autori greci e latini. Una «competente buona libreria privata», aggiunge, è quella dei Teatini.

[118] Cfr. sull’argomento il fasc. 173, FGMB. Queste due dissertazioni sono ricordate in J. Dalarun, Santa e ribelle. Vita di Chiara da Rimini, Bari 2000, dove si parla anche di Bianchi (cfr. alle pp. 4-5) con alcune gravi inesattezze: gli si attribuisce un’anteriore Accademia degli Eutrapeli, si dice che era «soprannominato Iano Planco in dialetto romagnolo», e che «aveva anche contribuito a istituire una Accademia dei Lincei di Rimini». Delle due dissertazioni di Garampi, troviamo scritto che Garampi stesso le «legge davanti ai dotti riuniti in assemblea». Invece, come si è visto, Garampi le inviò da Roma, ed era assente da Rimini in entrambi i casi.

[119] Bianchi nella Lettera prima sul Rubicone, del 6 marzo 1750, parla di «tre dissertazioni» da Giovenardi «recitate nella nostra Accademia dei Lincei» per dimostrare essere il fiume Uso (o Luso come si diceva allora) «il vero Rubicone degli Antichi». Questa Lettera prima esce a stampa con la Seconda, su cui v. infra.

[120] Cfr. le citt. Vicende accademiche, p. 60. In FGLB, nel fasc. Garatoni, Gianfelice, allegata alla lettera di questi a Bianchi del 17 marzo 1753, c’è una missiva dell’abate Giulio Cesare Serpieri (agente della città di Rimini a Roma), diretta allo stesso G. P. Giovenardi, in cui si parla della «risata, non solo del Giudice, ma ancora di tutti quelli che si ritrovarono presenti» alla discussione della causa intentata dai cesenati alla Comunità di Santarcangelo ed a G. P. Giovenardi: la lite, secondo lo stesso Giudice, «verteva sopra una minchioneria». Per quella lite, Serpieri agì come Procuratore di Santarcangelo. Rimini volle tenersene fuori, però avvertì l’obbligo morale di sostenere G. P. Giovenardi che aveva posto «una memoria così gloriosa per la nostra città»: cfr. AP 479, Copialettere 1749-1751, ASRi. In Urbani, Raccolta…, cit., p. 765, leggiamo al proposito, su G. P. Giovenardi: «Eresse da fondamenti la nuova Chiesa parrocchiale della sua pieve, situata sulla sponda del Fiume Uso, e volendo farsi far pompa di sua erudizione, sulle sponde medesime piantò un marmoreo cippo» con la scritta «Heic Italiae Finis Quondam Rubicon».

[121] Il testo della dissertazione del 21 marzo 1750 è lo stesso della Lettera seconda ad un Amico di Firenze intorno del Rubicone, datata 20 marzo 1750 (fasc. 210, FGMB), e pubblicata prima nello stesso 1750 dalle Nov. (XI, 37, 39, 41, 43, coll. 583-590, 610-618, 641-651, 678-684), e poi, assieme alla Lettera prima, nel 1756 dagli Opuscoli Calogeriani di Venezia, tomoII, pp. 321-378. (Di questa stampa uscita negli Opuscoli, esiste un estratto con aggiunta, alle pp. 379-383, la sentenza sulla causa rubiconiana, emessa a Roma il 4 maggio 1756, che dà torto ai Cesenati e li condanna al pagamento delle spese: cfr. la Raccolta di opuscoli sul Rubicone, collettanea curata da Z. Gambetti, SC-MS. 897-899, BGR, con materiale edito ed inedito appartenuto a Bianchi: qui è conservata, in ms. incompleto, la Lettera prima.) Nella Lettera prima del 6 marzo 1750 (cfr. Nov., XI, 1750, nn. 20, 21, 22, coll. 311-320, 323-330, 344-349), Bianchi sostiene che la questione del Rubicone era relativa ad «un punto erudito di geografia antica», da lasciare non alle dispute legali (come avvenne) ma «piuttosto ai dotti, e alle Accademie degli eruditi». La Lettera prima tratta della falsa iscrizione cesenate sulla riva del Pisciatello. A riassumere la questione rubiconiana, valga quest’affermazione di Antonio Bianchi: «è stato scritto da molti, ma sempre in contraddizione, per motivo di certe male intese glorie municipali, e per quel genio di dispute cavillatorie che regnava ne’ due scorsi secoli». (Cfr. A. Bianchi, Storia di Rimino dalle origini al 1832, manoscritti inediti a cura di A. Montanari, Rimini 1997, p. 43: nella nota bibliografica finale di tale volume, sono elencati i testi degli autori intervenuti nella disputa, e citt. da A. Bianchi.) Cfr. pure G. L. Masetti Zannini, Il mito del Rubicone. Contributo alla «fortuna» di Roma nel Settecento romagnolo, «Bollettino del Museo del Risorgimento», Bologna 1969-1971, pp. 1-51. Osserva Pruccoli, nel cit. L’Alberoni e San Marino, p. 286: «la così detta causa rubiconiana, ai nostro occhi futilissima» era per Bianchi «essenzialmente rivendicazione di antiche giurisdizioni usurpate, di prestigio civico e di tutela delle ragioni storiche di una città che l’ignavia dei suoi nobili e il dinamismo di altre comunità (nella fattispecie Cesena, da Planco cordialmente odiata) relegavano ormai quasi al livello di borgo remoto della provincia legatizia di Ravenna». Sull’intera vicenda rubiconiana, cfr. pure la cit. comunicazione Lettori di provincia, contenente documenti inediti della Municipalità di Rimini; ed A. Montanari, Un fiume di erudizione. Iano Planco ed il «Rubicone degli Antichi», in Riministoria, <http://digilander.libero.it/monari>, gennaio 2001, <http://digilander.libero.it/monari/spec/rubicone.586.html>. Qui ricordiamo soltanto, che dopo la sentenza del 1756, il cesenate Padre Gianangelo Serra rilancia la questione a livello europeo, con un Avviso avanzato alli Signori Accademici delle Reali Accademie di Parigi, di Londra, di Lipsia, e di Berlino (1757), redatto in italiano e latino.

[122] La lettera è stata pubblicata dalle Nov. nello stesso anno (1751, XII, nn. 31, 32, 33, 34, 35, 36, coll. 484-489, 503-507, 514-517, 537-541, 551-554, 567-570). Questo testo è comunemente conosciuto come «Panteo Sagro» (in quanto tratta di «un Tempio dedicato a tutte le Divinità de’ Gentili, o almeno a buona parte di esse»). Esso è anche pubblicato nel tomo X della Nuova raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, Venezia 1763, pp. 365-456 (con Appendice, ibid., tomo XII, pp. 157-200).

[123] La dissertazione è pubblicata nel vol. XVLII della cit. Raccolta calogeriana, Venezia 1752, pp. 83-116. Di essa scrive da Roma a Bianchi monsignor Marco Antonio Laurenti (v. infra) il 13 maggio 1752: «in verità a me è moltissimo piaciuta sì per la novità, come insieme per essere chiaramente e di buon gusto scritta: goderei egualmente, se non anche più, di apprendere poscia, come parmi che prometta, il come medicare i mali, che a vermi sono riferiti, e da essi cagionati, massime a seconda delle osservazioni dello stesso sig. Zamponi».

[124] Zamponi parte da un’osservazione sull’«ordine meraviglioso prescritto dalla natura al nascimento de’ vermi», e premette al suo discorso una parte storico-filosofica sulla generazione degli stessi vermi nel corpo umano. Generazione che (come scrivono le Nov., XIII, 26, 30 giugno 1752, coll. 411-414, nel loro resoconto, opera certamente di Planco), «è stata sempre uno scoglio della Filosofia, il quale con questa osservazione non si scansa, anzi si fa più forte», perché non si sa come i vermi entrino nell’intestino. Sia l’impostazione data da Zamponi al suo intervento, indipendentemente dai risultati sbagliati a cui perviene, sia il commento delle Nov., testimoniano le cautele quasi pregiudiziali usate allora nella ricerca scientifica che, pur ricorrendo alla via sperimentale, non dimentica il principio evocato nelle leggi dei Lincei riminesi, secondo cui, prima di esporre i risultati empirici, occorreva riferire i pareri dei dottissimi filo­sofi e degli uomini eruditissimi.

[125] Cfr. lettera del 24 maggio 1752 (FGLB, ad vocem).

[126] «Giacché buona parte de’ nostri Academici di Rimino sono diventati non so come Pittagorici fuori di tempo essendosi fatti mutoli la maggior parte, io v’anderò da qui innanzi graziosi uditori recitando o cose mie, o cose mandatemi di fuori d altri nostri Academici forestieri, o da altri, i quali per rendersi benemeriti della nostra Academia meritano d’essere aggregati, e riposti nel luogo di que’ nostri, che si sono fatti mutoli, e massimamente nel luogo di quelli, che non vogliono ne meno più onorare colla loro presenza le nostre sessioni forse avendole a vile, o forse, com’è più verisimile amando meglio di marcire nell’ozio, o d’affaticarsi solamente per qualche poco per un picciolo guadagno, o per rendersi abili a gli amoretti di qualche femminuccia»: cfr. il cit. fasc. 219, FGMB. Nel Codex, cit., c. 16v, è sottolineata la «negligentia» degli Accademici, troppo occupati e poco presenti. C’è da chiedersi, alla luce degli sviluppi successivi delle vicende accademiche planchiane (legate alla condanna all’Indice dell’Arte comica), se questo isolamento che Bianchi denuncia, più che da negligenza e da futili motivi dei soci, non sia stato provocato invece dalla loro paura di esporsi in un ambiente diventato pericoloso nei confronti del potere ecclesiastico e di quello politico (che erano alla fine tutt’uno).

[127] «In dissertatione praeclare se gessit adolescens»: cfr. Codex, cit., c. 16v. Questa notizia del 7 maggio è inserita nel Codex dopo quella di Coltellini del 30 aprile e prima di quella di Zamponi che è sempre del 30 aprile.

[128] Forse dello stesso 7 maggio 1751. L’incertezza della datazione deriva dal sistema usato da Planco, del quale s’è detto nella nota precedente.

[129] Cfr. i fascc. 203, 204, 206, FGMB. Sul significato di questa dissertazione, diremo infra.

[130] Cfr. De Carolis, Il medico al lavoro, cit., pp. 67-71. Di queste polemiche, si parla in Nov., XVI, 25, 20 giugno 1755, coll. 390-395 e n. 37, 12 settembre 1755, coll. 580-581.

[131] Cfr. supra la nota in cui si riporta la citazione dalle Nov., XI, 12, 20 marzo 1750, coll. 179-183.

[132] Cfr. nel Codex, cit., c. 18r.

[133] Ibid., c. 18v.

[134] Cfr. il fasc. 216, FGMB.

 

 

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