Riministoria 

Antonio Montanari

Tra erudizione e nuova scienza

I Lincei riminesi di Giovanni Bianchi (1745)

 

 

2. Il progetto culturale di Bianchi

 

La rifondazione dell’Accademia di Cesi, dai documenti esistenti nella Biblioteca Civica Gambalunghiana di Rimini [18], risulta come momento iniziale di un progetto di più ampio respiro che avrebbe dovuto articolarsi anche nell’impianto di una stamperia con iniziative editoriali sotto l’insegna della Lince [19]. Alla base di questo progetto «geniale, quanto poi sfortunato», probabilmente non c’è soltanto la necessità di avere a disposizione strumenti mancanti in una città di provincia come Rimini, sprovvista ad esempio di «librai che rileghino, o che acconcino libri» [20], ma anche il desiderio di imitare, se non superare, i risultati di altre imprese culturali, quali le fiorentine Novelle letterarie [21] di Giovanni Lami [22], l’editore della sua autobiografia latina. Pure il concittadino Giuseppe Malatesta Garuffi poteva rappresentare per Bianchi un modello da emulare [23]. Garuffi fu sacerdote e direttore della Biblioteca Gamba­lunghiana dal 1678 al 1694; tra l’altro, compilò una storia delle accademie italiane, L’Italia Accademica (il cui primo ed unico volume a stampa [24], non piacque a Ludovico Antonio Muratori), ed a Forlì nel 1705 animò il Genio de’ letterati [25]. Garuffi aveva avviato un ampio programma [26], sotto il titolo di Bibbioteca Manuale degli Eruditi [27], con Accademia e stamperia, a cui sembra rimandare quello analogo di Bianchi. Di Garuffi, Planco avrebbe voluto scrivere una biografia per i Memorabilia di Lami [28].

Bianchi, per il fallimento del suo tentativo avrebbe potuto accusare, come già aveva fatto nel 1735 a proposito della gestione della Civica Biblioteca di Rimini, l’insensibilità dei pubblici amministratori che «non curano libri e librerie perché sono tutti ignoranti e vigliacchi» [29]. Ma la Municipalità allora era troppo occupata a gestire una complessa situazione economica, causata da continue emergenze militari, carestie e necessità collettive [30], per poter pensare al finanziamento di iniziative editoriali private, per quanto importanti esse fossero.

Accanto al quadro locale, va considerato altresì quello generale dello Stato della Chiesa che, ovviamente, si ripercuote in ambito cittadino e sulla vicenda personale di Planco, come dimostra la rapida ed «improvvisa» (così la chiama Garampi), condanna all’Indice emessa il 4 luglio 1752 contro la sua dissertazione accademica sull’Arte comica. Anzitutto dobbiamo ricordare che, nei confronti dello stesso nome dei Lincei, c’è una posizione pregiudiziale di ostilità, storicamente radicata e motivata, da parte della Chiesa, come emerge dalla parole di Maylender:

 

La Congregazione dell’Indice era stata anche troppo indulgente verso la scientifica assemblea. Il Duca d’Acquasparta, nipote del Cardinale Bartolomeo Cesi, aveva intime relazioni ed amicizie cogli uomini i più influenti della Corte pontificia. Certi riguardi bisognava perciò usare di fronte a sì illustre e considerato personaggio. Ma alla sua morte [di Federico Cesi, 2 agosto 1630, n.d.r.] il Sant’Uffizio si sarà probabilmente adoperato affine l’Accademia non si risvegliasse [31].

 

Per risultare gradita ‘alli superiori’, inoltre, l’iniziativa di Bianchi aveva caratteri troppo avanzati, sotto molti profili, rispetto a quelli della cultura ufficiale romana, che era in prevalenza improntata all’«erudizione storica ed antiquaria» [32], ed era condizionata da un ferreo rispetto dell’ortodossia, e quindi si dimostrava del tutto diffidente verso i nuovi orientamenti scientifici (dei quali Planco è un sostenitore) e, soprattutto, verso la nuova Filosofia. Locke, ad esempio, è messo all’Indice il 19 giugno 1734. Già nel 1722 a Rimini il vescovo Davìa nella propria diocesi aveva avversato la diffusione del pensiero di Locke. In tempi successivi egli avrebbe presieduto la Congregazione dell’Indice [33] svolgendo un ruolo fondamentale nella condanna del 1734 di quest’autore che dodici anni prima aveva considerato «cento volte più pericoloso del Machiavelli» [34]. Ciononostante Planco riconosce al vescovo Davìa di aver di aver introdotto da noi «puriorem philosophiam», cioè quell’«ottima filo­sofia» che Davìa aveva studiato a Bologna, e che egli fece insegnare a Rimini. Per questo fatto Bianchi attribuisce a Davìa il merito di aver tolto Rimini «dalla barbarie, nella quale ci avevano tenuto quei che prima della sua venuta qui d’amaestrare la gioventù professarono» [35]. Secondo Planco, Davìa è uno spirito innovatore per aver chiamato ad insegnare nel Seminario riminese alcuni «valenti Professori» [36], tra i quali ricorda due medici, Felice Palese («morto Primario Professore del Collegio Borbonico di Palermo» nel 1740) e mons. Antonio Leprotti [37], divenuto in seguito archiatro pontifico. Leprotti aveva convinto il giovane Bianchi ad intraprendere il corso studi nel quale si laureò [38]. L’attenzione dimostrata dal vescovo Davìa verso la Medicina, è un fatto significativo nel contesto ecclesiastico del tempo, rispetto al divieto di esercitarla, imposto dal Diritto canonico a tutte «le Persone consagrate all’amministrazione de’ Sagri Misteri» [39] e rispetto alla opinione che stava alla base dello stesso divieto, e che è bene illustrata da un anonimo scritto riminese [40] in cui, della professione sanitaria, si dà un’immagine degradata al punto da chiamarla «arte di toccagione della persona», la quale oltretutto obbliga a visitare il cesso degli infermi «per riconoscere gli escrementi», ed a fare «crestieri a uomini, donne e fanciulle», per cui non poteva essere svolta dal clero senza profanare «la santità del ministero» e prostituire «il regal Sacerdozio».

L’ostilità della gerarchia ecclesiastica verso il nuovo pensiero è ricordata da Planco nell’autobiografia latina [pp. 354-355], quando scrive che ad un padre dei Minimi riminesi, Giovanni Bernardo Calabro, fu imposto dal suo Generale di rientrare «nell’accampamento dei Peripatetici». Le «ciarlatanerie dei Peripatetici», scrive Aurelio De’ Giorgi Bertòla nell’Elogio di Don Giacinto Martinelli [1781], «non avevano migliore asilo (la verità è dura, ma pur troppo incontrastabile) che la più parte delle case religiose d’Italia» [p. 7]. E padre Martinelli, «appena andava egli penetrando nei profondi ripostigli della buona Filosofia» [p. 9], fu «indietro richiamato»: siamo attorno al 1740, cioè vicinissimi al tempo in cui prende forma il progetto planchiano dei Lincei riminesi.

Davanti allo scontro tra l’aristotelismo interpretato in una chiave esclusivamente dogmatica, e la ventata rivoluzionaria portata dalla rilettura di Epicuro attraverso Gassendi, Planco sposa la causa delle innovazioni introdotte dalla fisica di quest’ultimo [41], assumendo una posizione eretica, della quale non dovettero successivamente dimenticarsi i suoi avversari in campo ecclesiastico. Ma l’opposizione tra la cultura peripatetica e la Nuova Scienza torna pure, in maniera diretta ed in forma non risolta, anzi con tutto il senso di un’insanabile contraddizione, proprio nelle leggi lincee elaborate da Bianchi e contenute nel Codex accademico [42], laddove si sostiene che «niente è migliore e più utile che diligentemente indagare su qu­anto, per un dato argo­mento, hanno espresso i dottissimi filo­sofi e gli uomini eruditissimi: tuttavia, ai loro pareri, e l’investigazione della stessa na­tura, e le proprie osservazioni, e il confronto su tutte le cose, e l’uso di discutere singolarmente su quella parte che sia più vera, aggiungano anche il [nostro] giudi­zio». Dun­que: prima vengono i pareri dei «dottissimi filosofi», poi «l’investigazione della stessa natura». Si accantona così, nella maniera più semplice ed evidente, il me­todo della «sensata esperienza», originando un’altra divergenza totale, tra la pratica scientifica ed un modus operandi intellettuale il quale nega i presupposti della stessa pratica scientifica. Il sapere di cui si parla nelle leggi accademiche è più tolemaico che copernicano; più incatenato all’ipse dixit del moderno aristotelismo, che aperto ai temi pre-illuministici.

Per Planco ciò significa conflitto tra la sua funzione di scienziato (che, in quanto tale, deve attribuire all’osservazione diretta un primato assoluto), e quella di reggitore di un’Accademia la quale, come detta la sua prima legge, dev’essere «aristocratica» [43]. Dietro questa enunciazione c’è un particolare modo di intendere la cultura come riservato dominio dell’uomo dotto, il quale gode del privilegio di sentenziare soltanto grazie al suo ruolo di maestro, ed indipendentemente dalla validità scientifica dei risultati a cui perviene, intesa quest’ultima secondo i canoni galileiani [44]. A tali canoni si richiamò Aurelio De’ Giorgi Bertòla quando, scrivendo un polemico necrologio per Planco [45], sottolineò che questi era stato «osservatore giudizioso della Natura, ma poco amico di quella massima legge: Niun esperimento dee farsi una sol volta». Bertòla, accusato [46] di essere caduto, scrivendo quelle parole, in una «contraddizione chiara, e madornale ma compatibile in un Giovane Scrittore» ed in «un Poeta pasciuto di notturni sogni» [47], fu difeso da chi [48] rincarò la dose contro lo scienziato riminese:

 

In fatti Giano fu Filosofo, ed osservò con giudizio la Natura, ma poi all’incontro, non poté mai soggettare il suo fervido ingegno a ripetere più, e più volte gli esperimenti, poiché egli amava per carattere la varietà, quindi ne nacque, che quelle cose, che potevano osservarsi con sollecitudine erano dal Signor Bianchi esattamente vedute, ma dove poi face d’uopo per rintracciare la verità una lunga serie d’esperienze, non era questo lavoro per lui, e ne abbandonava l’impresa, o se pure voleva seguirla il facea con lentezza, ed il più delle volte con infelice successo.

 

Bertòla non era stato educato alla scuola di Planco, ma da un allievo del medico riminese, quel Francesco Maria Pasini che nel 1745 è accademico dei rinnovati Lincei e poi vescovo di Todi [49].

Nella carriera del medico Bianchi c’è un episodio che rivela una contaminazione con la sua condotta da rifondatore dei Lincei, e che vede la sua attività scientifica soggiacere all’atteggiamento culturale del «dotto». L’episodio riguarda la polemica sull’innesto del vaiolo, in cui Planco interviene nel 1759 con parere negativo, a fianco di un altro medico, il conte Francesco Roncalli Parolino [50], il quale fu accademico dei Lincei riminesi. Al proposito, sul Caffè Pietro Verri ebbe ad osservare che «al fondamento delle opposizioni del signor dottor Bianchi è questo ch’ei chiama effatum philosophicum, cioè che quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur» [51]. L’«enunciato filosofico» di cui parla Planco, trasferisce nel campo medico una concezione già di per sé opinabile in quello gnoseologico; e rimanda a teorie messe in ombra dalle nuove idee del sensismo alla Condillac, con le quali si rovescia l’impostazione presente in Planco, sostenendo che «l’uomo è soltanto ciò che ha acquisito», e non che le cose sono ciò che l’uomo conosce di esse [52].

Per un fenomeno riguardante la Medicina, Bianchi usa un tipo d’indagine che su di essa non può operare perché non ricorre alla metodologia idonea alla materia sulla quale interviene. Questo errore epistemologico ci è confermato da una sua lettera indirizzata a Giovanni Lami [53], dove egli inserisce «la quistione dell’innoculazione» tra le «cose letterarie» da discutere, magari nel «miglior latino», con il quale mandare «al diavolo tutti i pretesi calcoli […] e tutte le altre ragioni sofistiche de’ fautori dell’innoculazione, giacché tutti costoro non sono filosofi e meno medici, ma sono sfaccendati […]». Planco tuttavia, e lo apprendiamo dal suo grande allievo Giovanni Cristofano Amaduzzi, cede «in appresso all’evidenza del buon esito» dell’innesto del vaiolo, «con quel candore, e coraggio, che suole ispirare l’amore della verità nei cuori degli uomini grandi» [54]. L’errore epistemologico di Bianchi, d’altro canto, rispecchia l’esperienza culturale del primo Settecento quando, ad esempio, nella studiatissima fisica cartesiana, il ragionamento matematico ha «una funzione prevalentemente retorica» [55]; e quando si considera tutta l’esperienza scientifica soltanto sub specie philosophiae, andando alla ricerca di un principio unificante dell’attività conoscitiva [56], senza distinguere tra i singoli territori (e strumenti) di Scienza e Filosofia, come invece faranno gli Enciclopedisti, rivolti a sistemare [57] le conoscenze differenziandole tra loro, pur conservando un presupposto d’identità di «Filosofia o Scienza», ma con la volontà di sostituire il secondo termine al primo, per cui essi parlano di Scienza di Dio, dell’uomo e della natura, a sua volta distinta, quest’ultima, in Fisica e Matematica. Dalla tripartizione dipendono a grappolo tutte le altre materie. Così, ad esempio, nel «sistema figurato delle conoscenze umane», dalla Fisica particolare deriva la Zoologia dalla quale ‘scendono’ poi l’Anatomia e la Medicina [58].

E’ grazie a Locke che l’«Europa éclairée» conosce quella che Sergio Moravia chiama la «liberalizzazione epistemologica», la quale approda a molteplici opzioni metodologiche grazie alla lezione dell’empirismo, che sostituisce «tutta una serie di categorie o di strumenti di indagine con altri strumenti e categorie» [59].

[18] Cfr. Masetti Zannini, Carta e stampa, cit., passim.

[19] In una lettera al libraio e stampatore veneziano Giovanni Battista Pasquali, a cui Bianchi chiese un piano di organizzazione della stamperia (Masetti Zannini, Carta e stampa, cit., p. 121), Planco scrive: «Bisognerebbe nel tempo che si fa il torchio, e gettare i caratteri, far fare un’insegna di legno da mettere nel frontespizio, ed io penso di metterci una Lince, o sia un Lupo Cerviero con attorno le lettere che dicano Lynceis Restitutis. [...] Io le mando la figura della Lince, che posi nel Fitobasano, perché serva di norma come ha da essere l’animale nel legno, che bisogna vedere che abbia gli occhi vivaci, e che sia fiero, e che non paia un Gatto» (ibid.., p. 134). Sulla stamperia di Lami e sulle difficoltà dallo stesso incontrate in Firenze, cfr. M. A. Morelli Timpanaro, Autori, stampatori, librai per una storia dell’editoria in Firenze nel secolo XVIII, Firenze 1999, passim.

[20] Cfr. Masetti Zannini, Carta e stampa, cit., p. 120, nota 13. La lettera è del 1736.

[21] Planco collaborò assiduamente alle Nov.: cfr. la mia comunicazione tenuta al LI Convegno di Studi Romagnoli (San Marino 2000), ed intitolata Lettori di provincia nel Settecento romagnolo. Giovanni Bianchi (Iano Planco) e la diffusione delle Novelle letterarie fiorentine. Documenti inediti, di prossima pubblicazione.

[22] Cfr. Masetti Zannini, Carta e stampa, cit., p. 125 (dove si ricorda dell’orgoglio di Bianchi «di emulare il Lami»), e p. 127 («Non mi è stato possibile sapere se il Bianchi avesse avuto in animo di stampare un giornale letterario-scientifico, sull’esempio, tanto per citarne uno già ricordato, di Lami, ma, nel caso, ci sarebbe da chiedersi se sarebbe stato in grado, considerazioni finanziarie a parte, di sostenerlo, dato il suo carattere esclusivista e litigioso pur a fronte di tanti meriti, e la tendenza, del resto già evidente nella scelta dei “suoi” Lincei e nelle vicende del sodalizio, a contenere nella sua cerchia illustre, ma assai ristretta, quella collaborazione»). Sul ruolo svolto da Lami con le Nov., cfr. il cit. Venturi, Settecento Riformatore. I., p. 334 («All’interno della cittadella della cultura egli contribuì non poco a stabilire una nuova scala di valori, che conduceva ad una vita più attiva e impegnata, meno teologica e più logica, meglio indirizzata ad una puntuale conoscenza dei fatti e delle cose, più cosciente dei propri limiti e delle proprie reali possibilità. Dopo l’appassionata difesa da lui compiuta della necessità e superiorità d’una vigile critica in ogni campo, religioso, storico, filosofico, non fu più possibile tornare indietro ad una pura e semplice compiacenza erudita, ad un accademico e letterario accumularsi di bei concetti, di belle parole e di belle notizie»).

[23] Secondo Pasquale Amati, l’Accademia planchiana faceva rivivere quella trecentesca eretta a Rimini da Jacopo Allegretti, la quale fu la prima a sorgere in Italia ed in Europa: cfr. in Bibliografia generale corrente d’Europa, vol. I, Cesena 1775, p. 5.

[24] Il volume apparve nel 1688. Il resto dell’opera «è conservato manoscritto» in BGR: cfr. P. Delbianco, La Biblioteca Gambalun­ghiana, in Storia illustrata di Rimini, a cura di P. Meldini e A. Turchini, IV, Milano 1991, p. 1126.

[25] Su caratteri e limiti culturali dell’impresa, e circa i rapporti fra Garuffi e Muratori, cfr. A. Tur­chini, Giovanni Bianchi (Iano Planco), l’ambiente antiquario riminese e le prime esperienze del card. Garampi (1740-49), pp. 390-391, in L. A. Muratori storiografo, Atti del Convegno Internazionale di Studi Muratoriani, Modena 1972, Firenze 1975.

[26] Nel Genio de’ letterati, si veda il piano editoriale illustrato a p. 119 del II tomo.

[27] Questo titolo viene quasi sempre riprodotto come Biblioteca, ma sia nell’unico volume a stampa così chiamato, sia nei rimandi che troviamo all’interno del Genio de’ letterati, alle pp. 9 e 119, la dicitura corretta è quella che abbiamo riportato. La Bibbioteca è divisa in 130 titoli, «i quali contengono moltissime Erudizioni, Istoriche, Poetiche, Morali, varie, e di sagra Scrittura» (pp. 4-5). Secondo quanto Garuffi scrive nel Genio de’ letterati, la Bibbioteca costituisce l’opera iniziale di un ambizioso piano editoriale, i cui titoli pubblicati egli elenca nel suo articolo a p. 119.

[28] Cfr. il cit. Modelli letterari, p. 294. Della figura e del ruolo di Garuffi a Rimini, ci siamo occupati nel cit. G. B. studente di Medicina, pp. 385-386.

[29] Cfr. Masetti Zannini, Carta e stampa, cit., p. 121, nota 16. Sulla situazione della Civica Biblioteca riminese, cfr. A. Montanari, Il contino Garampi ed il chierico Galli alla «Libreria Gambalunga». Documenti inediti, «Romagna arte e storia», n. 49/1997, pp. 57-74. (Francesco Garampi, fratello di dieci anni maggiore del cit. Giuseppe essendo nato nel 1715, il 9 maggio 1733, FGLB, ad vocem, scrive a Bianchi: «Vi è poi in Venezia, come forse le sarà noto, una scelta Libreria di opere le più rare, e moderna, e che senza riguardo a spesa si va aumentando da tutte le parti, aperta al pubblico con assiduo Bibliotecario». La frase nasconde un polemico riferimento alla «Libreria Gambalunga», mancante dei libri usciti negli ultimi cinquant’anni, e trasformatasi in un «ridotto da ciarle».)

[30] Sul tema, cfr. A. Montanari, Per soldi, non per passione. «Matrimonj disuguali» a Rimini (1763-92): tra egemonia nobiliare ed ascesa borghese, «Romagna, arte e storia», n. 52/1998, pp. 45-60; Id., Il pane del povero. L’Annona frumentaria riminese nel sec. XVIII, «Romagna, arte e storia», n. 56/1999, pp. 5-26.

[31] Cfr. Maylender, op. cit., p. 473.

[32] Cfr. R. Merolla, Lo Stato della Chiesa, in Letteratura italiana, Storia e Geografia, II, ii, L’età mo­derna, To­rino 1988, p. 1071.

[33] Cfr. la Relazione delle solenni esequie… al cardinale Da Via, s.l. (ma Venezia) 1740, p. IV («L’anno 1726 rinunziò liberamente il Vescovado [...], e portossi ad abitare in Roma», dove fu «impiegato in moltissime di quelle Congregazioni, spezialmente del S. Officio, e dell’Indice, della quale ultima divenne anche prefetto»). Il testo apparve anonimo: se­condo le Nov. (XIX, 30, 28 luglio 1758, coll. 477-478), lo scritto, apparso a Venezia, è opera di Bianchi (parte III del Catalogo dei suoi scritti, su cui cfr. ritorno infra). Questa Relazione fu recensita dalle stesse Nov., I, 22, 27 maggio 1740, coll. 349-351. Nello stesso anno della morte di Davìa, 1740, un sacerdote riminese, don Matteo Ugolini, pubblica in suo ricordo un’altra Orazion funerale (stampata ad Urbino presso Girolamo Mainardi). In G. Fantuzzi, Notizie degli Scrittori Bolognesi, tomo III, Bologna 1783, p. 252, si parla soprattutto della madre del cardinal Davìa (Vittoria Montecuccoli), e se ne ignora persino la data della morte.

[34] Cfr. A. Rotondò, La censura ecclesiastica e la cultura, «Storia d’Italia», V/II, Torino 1973, pp. 1487-1488. Qui si legge una lettera di Davìa ad Eustachio Manfredi (del 12 dicembre 1722) da cui abbiamo ripreso il giudizio riportato, e su cui ritorniamo infra, in altra nota. Per collocare storicamente il giudizio di Davìa, si consideri che, nei Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia di L. A. Muratori (1703), «l’esortazione conclusiva ai filosofi con­temporanei aveva già un’implicazione di razionalismo sperimentale, che rivelava l’influenza di Locke e preannun­ziava il nuovo corso il­luminista»: cfr. F. Diaz, Politici ed ideologi, cit., p. 108. Si ricordi pure che, nelle muratoriane Rifles­sioni sopra il buon gu­sto (1708), il cap. XV ha come titolo: «Filosofia universale necessaria a tutte le Scienze ed Arti. [...] Sempre filoso­fare». Su questi temi ed i loro riflessi a Bologna ed a Rimini, cfr. il cit. G. B. studente di Medicina, p. 388.

[35] Cfr. la cit. Relazione delle solenni esequie…, p. VI. Bianchi ricorda pure che «questo valoroso e magnanimo Cardinale [...] studiossi di rendere ornati gli animi de’ Cittadini d’Arimino suoi Sudditi, e degli altri con ottime Discipline» (p. V).

[36] Così Bianchi scrive in una breve autobiografia contenuta nel cit. fasc. 310, FGMB, risalente al 1734, e non al 1740, come troviamo in A. Turchini, Scienziato, maestro e uomo di cultura, in «Giovanni Bianchi, Medico Primario di Rimini ed archiatra pontificio», a cura dello stesso Turchini e di S. De Carolis, Verucchio, 1999, p. 17, ove inoltre si fa partire la scuola privata planchiana non, come vedremo, nel 1720 (cfr. i citt. Recapiti planchiani, p. II), ma nel 1726.

[37] Dalla cit. lettera di Davìa, merita di essere ripreso il passo conclusivo, in cui Davìa si scusa di essersi «un po’ diffuso sul libro» di Locke, «per averlo letto e perché mi è sembrato averne trionfato allorché l’ho tolto dalla mente e dalla mano del mio Leprotti, ch’ella ben sa non essere ignorante nelle materie particolarmente dove gioca la mente». Oltre che a riportarci direttamente all’ambiente riminese, il documento ci obbliga ad aggiungere che il «rigorissimo piglio censorio» del Davìa, è presente pure nelle sue funzioni alla Congregazione dell’Indice, come risulta dal caso di mons. Celestino Galiani (1732), in cui Davìa torna a discutere del pericolo costituito da Locke: allargando l’orizzonte tematico, è utile ai nostri fini rammentare che Galiani fu definito, oltre che lettore di Locke, anche giansenista, eretico ed ateo, con una significativa intercambiabilità di termini per delineare l’unico concetto di seguace della nuova Filosofia. (Cfr. Rotondò, op. cit., p. 1486-1487.) Sulla fortuna di Locke nel 1700 e la diffusione del suo pensiero da parte di G. C. Amaduzzi, cfr. A. Montanari, Amaduzzi, Scipione De’ Ricci ed il ‘giansenismo’ italiano, in Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792, a cura di L. Morelli, Firenze 2000, pp. XXVIII-XL. Mons. Celestino Galiani conobbe Bianchi e fu in corrispondenza con lui (cfr. ad vocem «Galiano», FGLB). Il 21 marzo 1732, invitandolo ad un viaggio nella Magna Grecia, Galiani gli scrive: «Qui ella rivedrebbe que’ galantuomini, che tant’ammirarono a Roma la sua erudizione». Ed il 19 settembre 1752: «L’Abate don Ferdinando Galiano mio nipote girando per l’Italia per conoscere e trattar le persone che più si distinguono nella letteratura, non ho potuto permettere, che egli passasse per costà senza che in nome suo e mio fosse ad inchinarsi a V. S. Ill.ma, che trà letterati della nostra Italia occupa un luogo tanto distinto. [...] Mi era dimenticato dirle, che ’l detto Abate Don Ferdinando, oltre ad altre sue operette assai spiritose, è autore del libro anonimo sopra le monete, che uscì quì l’anno passato, dedicato alla Maestà del Nostro Re delle due Sicilie: opera dotta e ben ragionata, che ha meritata la pubblica approvazione [...]». L’unica lettera esistente in FGLB di Ferdinando Galiani a Planco, reca la data del 3 aprile 1753: «Ho voluto sottoporre alla sua censura quell’opera della moneta, che uscita senza nome di autore al principio, si è poi fatto noto essere un mio saggio giovenile: né ho voluto scriverLe prima d’aver riscontro d’esser questa giunta a Venezia. Ora il mare, la distanza de’ luoghi, ed altri accidenti hanno fatto che non prima di questi giorni io abbia avuto riscontro dal Pasquali d’essergli giunto un ballotto di libri tra’ quali è questo, ch’io mi prendo l’ardire d’offerire a V. S. Ill.ma. Potrà compiacersi di farlo da persona conosciuta riscuotere in suo nome da esso Pasquali, a cui così stà ordinato. Lettolo, niente mi sarà più caro che il sentirne il suo savio (e se fosse possibile) acre giudizio. Nel tempo stesso io La prego a farmi erede di quella amicizia, che con pacifico possesso da tanto tempo è goduta da Monsignor mio Zio. [...] Di cose letterarie qui ci è poco o nulla di nuovo».

[38] Bianchi ricorda con riconoscenza Leprotti anche per la pratica di Anatomia che gli fece fare in età giovanile, e che considerava un tirocinio dimostratosi utile ai successivi sviluppi della sua carriera, come si è ricordato alla nota 2: «non poco onore, ed utile ho io riportato essendo io stato [...] spontaneamente senza verun mio previo impegno dall’Imperial Consiglio della Reggenza di Toscana a professarla pubblicamente nell’Università di Siena prescelto» (fasc. 218, FGMB).

[39] Cfr. P. Meldini, Il medico di parrocchia, in San Vito e Santa Giustina, contributi per la storia locale, a cura di C. Curradi, Rimini 1988, pp. 175-187. Contro tale divieto si esprime nel 1761 l’accademico linceo G. P. Giovenardi con una dissertazione «sopra l’utilità della scienza medica a Parochi spezialmente di campagna, recitata [...] la sera del 23 febbraio 1761 nell’Academia dell’E.mo Sig. Cardinale Valenti Vescovo di Arimino» (cfr. il ms. in due copie in Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, BGR [FGMMR], Giovenardi, don Giampaolo). Il padre Giustiniano Orsini scriveva il 7 febbraio 1747 a Bianchi (FGLB, ad vocem): «Il mio stato di sacerdote della Dottrina cristiana parerà forse men convenevolmente a tali studi, ma l’avere ne’ miei primi anni udito in Padova mia patria il non mai abbastanza lodato Antonio Vallisnieri primario professore di medicina in quell’Università a declamare contra rimedio sì barbaro [i vescicatori, n.d.r.]scuserà facilmente la lettura che ho triplicamente fatto della sua dotta dissertazione [...]». Contro l’abuso dei «vescicatorj», Bianchi si pronuncia in una seduta accademica del 1746: cfr. infra la dissertazione n. 3. La lettera di padre Orsini è in G. L. Masetti Zannini, Vicende accademi­che del Sette­cento nelle carte inedite di I. P., in «Accademie e Biblio­teche d’Italia», XLII, 1-2, Roma 1974, p. 88. Sui rapporti tra Medicina e Religione, cfr. infra la lettera di padre Giuseppe Merati a Bianchi. (Nel 1826 vede la luce a Milano, sotto forma di dialogo, Il paroco istruito nella medicina, un trattatello in due voll. di Giacomo Barzellotti che si proponeva di fornire al «paroco» un’istruzione medica che gli consentisse di essere di «utilità spirituale e temporale» ai suoi popolani.)

[40] Meldini ricorda (Il medico di parrocchia, cit., p. 186, nota 66), che il testo è attribuito a Giovanni Antonio Battarra (del quale parleremo infra), la cui forma mentis e pratica filosofica sono però molto lontane dal modo di pensare che traspare da questo scritto. Atteso che, come lo stesso Meldini osserva, la grafia non è quella di Battarra; e che «il vuoto formalismo e il rigido conservatorismo» dello scritto «mal s’accordano con le opinioni pubbliche del Battarra», oltre che pensare, come fa Meldini, «se il velenoso scritto è davvero opera sua [...] a un ignoto e poco edificante sfondo di rivalità personali e colpi bassi», si potrebbe ipotizzare pure la funzione satirica del testo, con un rimando a polemiche circolanti tra il clero riminese.

[41] Cfr. il cit. Modelli letterari, pp. 290-292, non soltanto per le esperienze di Planco, ma pure per il contesto generale italiano. Gassendi «era un Canonico Cattolico, che la sapeva lunga (comm’ella dice)», scrive Giuseppe Garampi a Bianchi il 31 ottobre 1753 (FGLB, ad vocem). Gassendi «ripropone gli atomi e il vuoto come princìpi primi di tutte le cose all’interno di una nuova ontologia»: cfr. M. Mamiani, La struttura dell’universo: particelle, forze e spiriti, «Storia della Filosofia. 4. Il Settecento», a cura di P. Rossi e C. A. Viano, Roma-Bari 1966, p. 4. «Critico del dogmatismo degli aristotelici, degli occultisti, dei cartesiani, Gassendi era vicino a posizioni libertine e teorizzava uno scetticismo metafisico che costituiva la premessa per l’accettazione consapevole del sapere ‘limitato’ della scienza»; secondo una «tesi centrale» di Gassendi, «la nuova scienza non è interessata né alle scolastiche quidditates rerum né agli arcana naturae dei maghi del Rinascimento: è conoscenza fenomenica del mondo»: cfr. P. Rossi, La filosofia meccanica, «Storia della scienza moderna e contemporanea», Milano 2000, pp. 248-249. Su pensiero di Gassendi, Bianchi e la Nuova Scienza in ambito locale, cfr. A. Montanari, Nei «ripostigli della buona Filosofia». Nuovo pensiero scientifico e censure ecclesiastiche nella Rimini del sec. XVIII, «Romagna arte e storia», 64/2001, pp. 35-54.

[42] Cfr. Lyn­ceorum Restitutorum Codex, SC-MS. 1183, BGR, c. 2r. Il passo testuale è il se­guente: «…ad eam autem rem nulla potior uti­liorque reperi­tur exercitatio quam dili­genter inquirere quid de re qua­que doc­tissimi phi­losophi at­que eruditis­simi viri senserint: quorum ta­men pla­citis et natu­rae ipsius investigatio, et propriae meditationes acce­dant, et sententiam collatio de rebus omni­bus, et singula­tim disse­rendi usus in eam partem quae verior sit». Cfr. Montanari, Modelli letterari, cit., p. 297; Tur­chini, G. Bianchi, l’ambiente antiquario, cit., p. 414. Il Codex è un manoscritto, in cui le «leggi lincee», sotto la data del 19 novembre 1745, occupano le cc. 2/3r. Seguono, bianche, le cc. 3/19v. Il testo riprende dalle cc. 10r a 21r, con la cronologia del periodo 1749-1755. Quindi mancano in esso le notizie sul periodo 1745-48. Sul contenuto del Codex, cfr. Masetti Zannini, Vicende accademi­che, cit., p. 79, nota 47, dove è presentato un elenco dei fogli volanti che vi si trovano allegati.

[43] «Academia Aristocratica esto».

[44] Secondo Galileo, ogni esperimento deve essere misurabile, ripetibile e rivolto a stabilire un nesso di causa ed effetto tra due fenomeni. L’atteggiamento del «dotto» appare anche nella prefazione di Bianchi al Fitobasano, così riassunta dalle Nov., V, 34, 21 agosto 1744, col. 535: Planco «dice esser meglio ristampare i libri buoni antichi, che il pubblicarne de’ nuovi di dottrina comune, i quali non fanno altro che ingombrare le pubbliche, e le private Librerie, con perdita di tempo, e di danari per gli studiosi». Nel cit. Elogio di Bianchi scritto da Amaduzzi sull’Antologia romana, si legge: «Fu tenace della sua opinione, alla quale di rado rinunciava».

[45] Cfr. A. Fabi, Aurelio Bertòla e le polemiche su Giovanni Bianchi, «Quaderni degli Studi Romagnoli» n. 6, Faenza 1972, pp. 15-16.

[46] Cfr. Giudizio libero, s. d. (Rimini 1776?), p. 1. Lo scritto è attribuito da Fabi, Aurelio Bertòla e le polemiche, p. 16, a Francesco Ferrari.

[47] Si allude qui alle Notti Clementine del Bertòla, su cui cfr. A. Montanari, Le Notti di Bertòla, Storia inedita dei Canti in memoria di Papa Ganganelli, Rimini 1998.

[48] Cfr. A. M. Borgognini, Riflessioni…, Lucca 1776, p. 9.

[49] Bertòla dalla natìa Rimini, a dieci anni, nel 1763, è collocato, per le scarse risorse economiche della famiglia, nel seminario di Todi. Quando Pasini (1720-1773) diventa vescovo di quella città, lo accoglie presso di sé, essendovi un rapporto di parentela tra loro due. A quindici anni, Bertòla è mandato in monastero, a diciassette pronuncia i voti da olivetano. Sulla figura di Bertòla, cfr. A. Montanari, Biografia di Aurelio De’ Giorgi Bertòla, «Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792», Firenze 2000, pp. 389-398; Id., La filosofia della voluttà, Aurelio Bertòla nelle lettere di Elisabetta Mosconi, Rimini 1997; Id., Un «Diario» inedito di Aurelio Bertòla, «Quaderno di Storia n. 1», Rimini 1994; Id., Bertòla redattore anonimo del Giornale Enciclopedico. Documenti inediti, «Romagna, arte e storia», n. 50/97, pp. 127-130; Id., Aurelio Bertòla politico, presunto rivoluzionario. Documenti inediti (1796-98), «Studi Romagnoli» XLVIII (1997, ma 2000), pp. 549-585.

[50] Cfr. la Lettera pubblicata nelle Nov., XX, 10, 9 marzo 1759, coll. 153-157. Sulle successive edizioni della Lettera, cfr. De Carolis, Opere mediche edite, in Giovanni Bianchi, Medico Primario…, cit., p. 81.

[51] Cfr. «Il Caffè», 1764-1766, Torino 1998, p. 770. L’articolo di Verri è del 1766. Sullo scritto planchiano del 1759, cfr. S. De Carolis, La produzione pubblicistica su questioni mediche, in Giovanni Bianchi, Medico Primario…, cit., pp. 45-46.

[52] Secondo Condillac, «in quanto «cause fisiche», le «qualità» esistono realmente «nei corpi», ma esse danno soltanto «occasione alle impressioni che provocano sui nostri sensi»: cfr. G. Paganini, L’io e le idee, in Storia della Filosofia. 4. Il Settecento, cit., p. 248. Bianchi è completamente al di fuori del dibattito su questo tema.

[53] L’epistola è in B. Fadda, L’innesto del vaiolo, Milano 1983, p. 192-193.

[54] Questa notizia è in Montanari, Le Notti di Bertòla, cit., p. 75, nota 85.

[55] Cfr. Mamiani, op. cit., p. 5.

[56] «Per Bianchi, la Filo­sofia è come il collante delle Scienze, un fattore che unifica e garantisce nell’indagine sulla realtà. Non è una disciplina a sé stante, con un suo si­stema di conoscenze, sul tipo di quello che Amaduzzi formula nei suoi tre Di­scorsi». Cfr. A. Montanari, I compiti del giovane Amaduzzi alla scuola riminese di Iano Planco, «Riminilibri», 5, marzo 1994. Sui rapporti tra Bianchi ed Amaduzzi, cfr. A. Montanari, Giovanni Cristofano Amaduzzi e la scuola di Iano Planco, Centro Studi Amaduzzi, Accademia dei Filopatridi, Savignano sul Rubicone, III, 2003, consultabile in Riministoria, <http://digilander.libero.it/monari>, ottobre 2002, <http://digilander.libero.it/monari/spec/amaduzzi.684.html>.

[57] Cfr. Illuminismo e spirito sistematico di Condillac, in Che cos’è l’Illuminismo? I testi e la genealogia del concetto, Milano 1997, pp. 306-314.

[58] Cfr. Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri (1751-1772), a cura di A. Pons, Milano 1966, pp.78-92.

[59] Cfr. S. Moravia, Filosofia e scienze umane nell’età dei lumi, Milano 2000, p. 5. Qui segnaliamo il cap. I, «Filosofia e medicina in Francia nel XVIII secolo» ed il cap. II, «Epistemologia e medicina in Cabanis».

 

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