Riministoria 

Antonio Montanari

Tra erudizione e nuova scienza

I Lincei riminesi di Giovanni Bianchi (1745)

 

1. All’origine dell’Accademia planchiana

 

L’Accademia dei Lincei di Federico Cesi, attiva tra 1603 e 1630, rinasce a Rimini nel 1745 per iniziativa del medico, scienziato e poligrafo Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775), già allora ben noto negli ambienti colti italiani anche grazie all’autobiografia latina pubblicata tre anni prima, come opera di «autore anonimo», nei Memorabi­lia Italorum eruditione praestan­tium curati da Giovanni Lami a Firenze [1]. Bianchi da poco era rientrato in patria da Siena, dove aveva insegnato Anatomia umana presso quell’Università, dalla quale era stato chiamato il 24 luglio 1741: «senza alcun suo maneggio», preciserà più tardi per sottolineare come la scelta fosse stata dovuta soltanto a chiara fama [2]. Egli si era laureato presso la Facoltà di Medicina e Filosofia dell’ateneo bolognese il 7 luglio 1719, seguendo un veloce cursus studiorum iniziato soltanto nel novembre 1717, dopo una giovinezza tormentata da problemi economici conseguenti alla prematura scomparsa del padre, avvenuta quando Planco aveva soltanto otto anni; e dopo una carriera scolastica alquanto irregolare e prevalentemente da autodidatta [3]. A Bologna avviene, sempre nel 1719, il suo duplice debutto pubblico: il 27 settembre, «in occasione di una straordinaria, e frettolosa raggunanza fatta per compiacere alcuni canonici forestieri» [4]; ed il 19 ottobre, con un’orazione tenuta per l’inaugurazione dell’anno accademico [5]. Bianchi non era nuovo ad esperienze culturali di questa specie: già nel 1715 aveva cominciato a viverle nell’Accademia «di scienze, e d’erudizione» [6], voluta dal vescovo di Rimini, Giovanni Antonio Davìa [7], un bolognese che era stato allievo di Marcello Malpighi e di Geminiano Montanari. In essa, Planco aveva recitato quattro dissertazioni sulle Odi di Pindaro [8], oltre a compendiare quelle altrui in qualità di segretario del consesso [9].

La chiamata alla Cattedra senese significò per Bianchi non soltanto soddisfare la sua ambizione, ma anche affrontare un’esperienza resa difficile dalle polemiche che egli suscitò nell’ambiente accademico sia con le accuse di ignoranza indirizzate ai colleghi universitari [10], sia con le vanterie contenute nell’autobiografia latina. L’ostilità e la diffidenza che nacquero attorno alla sua persona, lo convinsero a ritornare [11] nella natìa Rimini alla fine del novembre 1744, dopo aver pubblicato a Firenze il Fitobasano di Fabio Colonna [12], a cui premise «la notizia» sull’Accademia dei Lincei (sua prima storia a stampa), della quale Colonna aveva fatto parte [13]. Bianchi motiva il suo rientro in patria con l’accettazione di una duplice offerta fattagli dalla comunità di Rimini: la concessione della «cittadinanza nobile, e lo stipendio di scudi 200 annui per la sola permanenza» [14]. In realtà, allo stipendio doveva corrispondere un preciso impegno di lavoro con l’incarico di «medico primario condotto della città» [15].

Per quanto ben remunerata ed illustrata con le lusinghe di un titolo nobiliare (oltremodo gradito alla sua vanità), la carica assunta da Planco era di nessun valore rispetto al prestigio derivantegli da una Cattedra universitaria: la situazione dovette turbarlo parecchio, e spingerlo a ricercare una rivalsa psicologica ed intellettuale, con lo scopo di poter continuare a primeggiare e di non farsi dimenticare da colleghi ed avversari, due categorie destinate spesso a coincidere ed a fondersi in una sola, e non sempre per colpa sua. Lo strumento con cui realizzare questo scopo, Bianchi lo individua nel rimettere «in piedi l’antica accademia filosofica, ed erudita de’ Lincei, avedoci rifatte le leggi, ed avendoci aggregate non solamente le persone più dotte della città di Rimino, ma di altri paesi ancora» [16]. Planco non rinuncia però, negli anni successivi, all’idea di tornare ad occupare una Cattedra di Anatomia, come si ricava da una lettera di Giovanni Bottari [17] a lui diretta.

 

[1] Cfr. alle pp. 353-407, tomo I (in seguito «autobiografia latina»). Un ritratto psicologico di Planco, presentato come fatto dall’amico estensore «anonimo», è alla p. 403. Era troppo fedele il ritratto ri­spetto all’originale perché l’autore fosse al­tri dal per­sonaggio presentato in quelle pa­gine. Su questo testo, cfr. A. Montanari, Modelli letterari dell’autobiografia latina di Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775), «Studi Romagnoli» XLV (1994, ma 1997), pp. 277-299. Una seconda autobiografia di Planco, anch’essa anonima, è nei Reca­piti del dottore Giovanni Bian­chi di Rimino, Pe­saro 1751. La parola «recapito» ha il significato di considerazione, reputazione, stima. Sulla paternità dei Recapiti, cfr. le Novelle letterarie (in seguito Nov.) di Firenze, XIX, 30, 28 lu­glio 1758, col. 480. Di altre autobiografie inedite diremo infra. Per una completa biografia di Bianchi, cfr. A. Fabi, Dizionario biografico degli Italiani (DBI), X, Roma 1968, pp. 104-112. Nel tomo II, i dei Memorabilia, Bianchi pubblica le biografie di due riminesi, Marco ed Andrea Battaglini: cfr. alle pp. 121-132 e 133-156.

[2] Cfr. nei citt. Recapiti, p. III. La data del 24 luglio, relativamente alla nomina, si ricava dalle Schede Gambetti (in seguito SG), ad vocem, in Biblioteca Civica Gambalunghiana di Rimini (BGR). Nel fasc. 218 del Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, Bianchi Giovanni (FGMB), in BGR, Bianchi scrive a proposito della sua chiamata a Siena: essa era avvenuta «senza nessun mio previo impegno». (I testi sono riportati fedelmente rispetto agli originali: eventuali integrazioni sono inserite fra parentesi quadre; le parole sottolineate sono rese in corsivo; sono sciolte le abbreviazioni. Le parti illeggibili od indecifrabili della trascrizioni, sono state sostituite da questa indicazione: <…>.) Le Nov., III, 5, 2 febbraio 1742, col. 77, scrivono che a Bianchi era stata conferita «la Cattedra di Professore di Storia Naturale e di Anatomia nell’Università di Siena», «sul riflesso della di lui nota dottrina». Nel fasc. 150, FGMB, è conservata una sua domanda per ottenere che «il settore Anatomico» fosse «a lui onninamente sottoposto nelle cose di Anatomia»: il che fa pensare a contrasti ed a rivalità tra colleghi di Facoltà. Planco era noto allora anche per altri studi scientifici, come il De conchis minus notis liber, Venezia 1739, sui Foraminiferi. (L’opera ha una seconda ed. arricchita a Roma nel 1760: cfr. la nota di G. C. Amaduzzi in Nov., XXVI, 3, 17 gennaio 1766, coll. 35-38.) Circa l’importanza europea di questo testo, cfr. le Nov., IV, 15, 12 aprile 1743, col. 229: qui leggiamo che Bianchi, per le sue scoperte in questo campo, venne definito «Linceo» da Gian Filippo Breynio, professore di Storia Naturale in Danzica. (Tale giudizio è anche nell’autobiografia latina, pp. 377-378: «vere Lynceum, vel Lynceis oculis instructum».) Sulle Nov., I, 27, 1 luglio 1740, col. 426, si ricorda un neologismo introdotto da Bianchi nel De conchis, «acquistizio», per indicare «cessazione di moto, o sia quiete dell’acque» che dura «ordinariamente» un’ora. Circa il De conchis, va detto che Bianchi «ricusa di esporre l’opra sua in vendita» perché «l’ha destinata in dono a que’ soli, che degni di tal’onore saranno» da lui reputati, come leggiamo in lettera del 3 agosto 1739 di un suo corrispondente di San Vito al Tagliamento, Anton Lazzaro Moro (1687-1764), Fondo Gambetti, Lettere autografe al dottor G. Bianchi (FGLB), ad vocem, BGR. Moro è autore di un interessante studio, De’ crostacei e degli altri marini corpi che si trovano su’ monti, Venezia 1745, in cui è ripetutamente cit. il De conchis. In esso si studia il problema dell’origine dei fossili e, quindi, delle montagne: secondo Moro la crosta terrestre è stata cacciata «dal fondo del mare insù [...] da sotterranei fuochi» (p. 245). Dal carteggio con Planco, ricaviamo che questi non concordava con le ipotesi di Moro. Le minute di lettere di Bianchi a Moro si trovano in Minutario, 1739-1745, MS-SC. 969, BGR: le più importanti sono quelle del 14 dicembre 1739, c. 16r; 21 marzo 1740, c. 74v; 18 aprile 1740, c. 92r; e 3 maggio 1740, c. 100v. Bianchi conobbe personalmente Moro a Venezia nel 1740 (cfr. G. Bianchi, Viaggi 1740-1774, conosciuti anche come Libri Odeporici, SC-MS. 973, BGR, 4 agosto). In altra pagina dei Viaggi (8 agosto 1740), Planco così si esprime sul volume di Moro: «L’opera dunque sarà lunga, ma non so poi se da per tutto sarà squisita, attesocché non sembra il Sig. Abate gran filosofo, ne molto informato della materia che ha intrapreso a trattare». (Non è qui il luogo di spiegare l’ingeneroso giudizio di Bianchi su Moro, per il quale rimando anche ai seguenti testi: A. L. Moro. Epistolario con bibliografia critica, catalogo dei manoscritti e tre opere inedite, a cura di P. G. Sclippa, Pordenone 1987; A. L. Moro, Contributi per una ricerca, Maniago 1988; e A. L. Moro, Carteggio (1735-1764), Firenze 1993.)

[3] Cfr. A. Montanari, La Spetiaria del Sole - Iano Planco giovane tra debiti e buffonerie, Rimini 1994, passim. La Spetiaria del Sole è il negozio del padre di Giovanni, il farmacista Girolamo Bianchi (1657-1701). Sulla giovinezza di Planco, cfr. Id., «Lamore al studio et anco il timor di Dio», Precetti pedagogici di Francesco Bontadini commesso della «Spetiaria del Sole» per Iano Planco, suo padrone, «Quaderno di Storia n. 2», Rimini 1995: mentre Bianchi nell’autobiografia latina si rac­conta come un ragazzo prodigio, tutto rivolto agli studi, e dotato di capacità eccezionali, in famiglia lo considerano un perdigiorno che frequenta cattive compagnie. An­che l’immagine che della sua stessa famiglia emerge dall’epistolario esaminato in quest’ultimo saggio, è diversa ri­spetto a quella che Planco ci offre nelle pagine autobiografiche. Per il periodo universitario, cfr. Id., Giovanni Bianchi (Iano Planco) studente di Medicina a Bologna (1717-19) in un epistolario inedito, «Studi Romagnoli» XLVI (1995, ma 1998), pp. 379-394.

[4] Cfr. il fasc. 109, FGMB.

[5] Cfr. il fasc. 48, FGMB. Bianchi, il 22 novembre 1717, era stato nominato «Consigliere della Università di Bologna per la Nazione della Marca Inferiore», come si ricava da SG, ad vocem, BGR.

[6] Cfr. il fasc. 310, FGMB: esso contiene numerose stesure di autobiografie planchiane, in gran parte inedite. Altre se ne trovano nei fascc. 134-135, FGMB. La data del 1715 si ricava dai citt. Recapiti, p. I.

[7] Davìa (1660-1740) era stato traslato alla Chiesa riminese nel 1698. Fu poi Nunzio in Polonia ed in Austria fino al 1706. Nel 1712 era stato fatto cardinale. Nel conclave del 1730 non fu eletto papa per un solo voto (cfr. alla nota 176). Suo fratello Francesco sposa Laura Bentivoglio che, come vedremo, sarà allieva di Planco a Rimini. Qui Laura, assieme al figlio Giuseppe, nato nel 1710, è «relegata dal marito, noto per la sua vita sregolata e stravagante» (cfr. la biografia di Giuseppe Davìa, a cura di G. P. Brizzi, DBI, vol. XXXIII, Roma 1987, pp. 130-131). Il 29 settembre 1722 Laura Bentivoglio scrive a Bianchi: «Il mal Animo de Riminesi contro di me ò per meglio dire contro al loro prossimo in generale, che per verità è tale; non mi giunge nuovo avendolo riconosciuto dal primo giorno, che la mala sorte qui mi portò»: cfr. FGLB, ad vocem. In questa stessa missiva, la dama bolognese augura a Bianchi «una cattedra a Padova essendo, il luogo appunto per» lui. Planco aveva soggiornato a Padova nel 1720, legandosi d’amicizia con Giambattista Morgagni ed Antonio Vallisnieri. La Cattedra a cui accenna Laura Bentivoglio è quella di Medicina teorica: essa gli fu soffiata dal professor Giacomo Piacentini (cfr. G. Bilancioni, Carteggio inedito di G. Morgagni con G. Bianchi, Bari 1914, pp. 129-130; e A. Turchini, Il tentativo di I. Planco di salire sulla Cattedra del Cicognini nel 1740, «Quaderni per la Storia dell’Università di Padova», 1972, pp. 91-105).

[8] Leggiamo nei Recapiti, p. I, che «molte volte recitò diverse sue dissertazioni il Bianchi esponendo con filosofiche, e pellegrine dottrine le Ode greche di Pindaro». La prima dissertazione è svolta nella sessione inaugurale dell’Accademia: «Plancus, qui Pindarum esplicans, secundus post Deviam ipsum, locutus est in primo congresso», come lui stesso scrive nell’autobiografia latina (p. 356). Ne seguirono altre tre. Nelle Odi di Pindaro, «andava egli rintracciando l’antiche dottrine filosofiche, e le antiche storie della Grecia»: così in G. C. Amaduzzi, Elogio di Monsig. Gio­vanni Bianchi di Ri­mino, apparso anonimo sull’Antologia romana (tomo II, 1776, p. 227). Il testo delle dissertazioni su Pindaro è nel fasc. 340, FGMB. L’interesse di Bianchi per la letteratura greca è testimoniato pure dai testi conservati nel cit. FGMB, fascc. 341, 342, 343 (varie traduzioni) e 315 (versione in latino della Vita di Epicuro di D. Laerzio). In F. Venturi, Settecento Riformatore. I. Da Muratori a Beccaria, Torino 1998, p. 333, leggiamo che Giovanni Lami, nelle Nov., «combatté contro lo stanco latino dei gesuiti, per un rinnovamento degli studi classici che intendeva ritornare al greco».

[9] Nella biografia di Bianchi scritta in D. Paulucci, Memorie di uomini illustri, SC-SM. 356, BGR, si confonde l’Accademia vescovile riminese con quella dei Lincei, quando si racconta che di quest’ultima venne «fatto segretario in età d’anni 22», cioè nel 1715. Sull’attività di docente a Siena, cfr. il fasc. 150, FGMB. Nei fascc. da 151 a 157, ibid., sono conservate sette lezioni anatomiche.

[10] Nell’autobiografia latina, pp. 395-397, c’è ampia traccia delle polemiche in ambito accademico senese; e delle accuse lanciate da Planco contro chi in quell’Università praticava la «cartacea Anatomia», fonte di tanti errori in capo medico. (Galileo aveva parlato di «astronomia cartacea».) Scrivono le Nov., XI, 5, 30 gennaio 1750, col. 65, che Bianchi «fu Professore primario d’Anatomia a Siena, e non incontrò molto il genio di que’ Cittadini».

[11] Per valutare la decisione di Bianchi, vanno considerate queste parole scrittegli dall’amico padre teatino Paolo Paciaudi (di cui parleremo anche infra), al momento della sua decisione di recarsi a Siena: «Se fusse o Firenze o Pisa direi: andate pure… Ma Siena, Siena che decoro può recarvi? [...] bisognerà che vi apprestiate a sostenere le maledicenze dell’invida genìa de’ paesani di Siena professori della vostra scienza. Già si sa che dove il Forestiero è solo a primeggiare ha da essere inquietato da’ Nazionali»: cfr. M. D. Collina, Il carteggio letterario di uno scienziato del Settecento, Firenze 1957, p. 8. E’ interessante l’inedita risposta di Bianchi: «Io come Filosofo non mi sono mai affezionato a niuna cosa in particolare; ma essendomi dilettato di varj studi, colà io attenderei a quelli che io potessi, dove qui io non posso per così dire attendere ad alcuno, tutto il giorno essendo occupato in cure tediose di malati senza alcun profitto. Questa è una città che dà ai Medici il medesimo incomodo che Roma, e ogni altra gran città, ma il premio è senza alcun paragone infinitamente minore, e ciò per le ragioni di cui dissi; ma passiamo ad altre cose» (cfr. Minutario, MS-SC. 969, cit., 26 luglio 1741).

[12] L’opera studia le piante più rare note agli antichi, cercandone il corrispondente nome moderno. Nato nel 1567, Colonna aveva 24 anni quando la pubblicò. Bianchi ha iniziato a lavorare al progetto editoriale del Fitobasano nel 1739: cfr. SG, ad vocem, dove si cita il Rescritto Apostolico per avere e ritenere per sei mesi le Opere di Fabio Colonna che sono in Biblioteca Gambalunga, per farle ristampare, 21 ottobre 1739. Il permesso gli è procurato da mons. Antonio Leprotti (di cui si dirà): cfr. lettera di Bianchi, 15 novembre 1739 (SC-MS 963, Lettere autografe a mons. A. Leprotti, BGR, c. 336). Il 26 novembre Bianchi scrive a Leprotti per chiedere un permesso più ampio : «Se m’otterrà la grazia di potermi servire in casa de’ Libri della Biblioteca Gambalunga l’averò per molto favore, e sarà una cosa molto comoda a miei studi perciocché nell’ora che si tien aperta quella Libreria io il più non ci posso andare» (ib., cc. 337-338). Il 10 dicembre (ib., c. 341) ribadisce: «lascio alla bontà di lei la cura con tutto il suo agio però di procurarmene un generale, che non sia ristretto ad alcun libro particolare, e che si distenda per ogni tempo, ristringendosi solo che io debba lasciar la ricevuta di ciascun libro che prenderò in mano dal Bibbiotecario, e che io debba restituire il libro preso dopo un determinato tempo di quattro o sei mesi, e nel rescritto [...] si potrebbe dire che ponessero brevemente conceditur ut petitur o qualch’altra formula brevissima». Come scrive P. DELBIANCO in una delle schede del catalogo Le Belle Forme della Natura. La pittura di Bartolomeo Bimbi (1648-1730) tra scienza e ‘maraviglia’, dell’omonima mostra cesenate (Modena 2001), p. 147, nello stesso 1744 esce un’altra edizione del Fitobasano, a Milano, sempre però con il nome del tipografo fiorentino Pietro Gaetano Viviani: un esemplare è custodito in BGR.

[13] Nel breve articolo, scritto probabilmente dallo stesso Planco, ed apparso sulle Nov., VI, 53, 31 dicembre 1745, coll. 842-846, per presentare le leggi lincee di Planco, si ricorda che «il Signor Giovanni Bianchi, Gentiluomo Riminese, e Professore Primario di Medicina nella Città di Rimino» aveva nell’anno precedente pubblicato «a sue spese» il Fitobasano (che reca nel sottotitolo: «Plantarum aliquot historia»), premettendogli «la Storia dell’Accademia de’ Lincei» (cfr. A. Montanari, L’anello di Galileo. E’ di Iano Planco la prima storia a stampa dei Lincei, «Il Ponte», Rimini, XXVII, 25, 30 giugno 2002, p. 17). Tali spese assommarono a «cinquecento e più ducati», come si legge in una sua lettera: cfr. G. L. Masetti Zannini, Carta e stampa nel Settecento, «Bollettino dell’Istituto di Patologia del Libro “Alfonso Gallo”», XXXI, 1972, fascc. I-IV, p. 123. Le stesse Nov., V, 33, 14 agosto 1744, coll. 513-516, avevano presentato l’edizione planchiana del Fitobasano, scrivendo: «Il celebre Sig. Giovanni Bianchi Ariminese, il quale tre anni sono fu chiamato dalla Munificenza dell’Altezza Reale del presente Gran Duca nostro Gloriosissimo Sovrano a professare l’Anatomia nella illustre Università di Siena, dà frequente occasione co’ suoi dotti scritti d’adornare queste Novelle, facendo egli onore a se stesso, e all’Italia nostra insieme». Nella seconda parte dell’articolo (V, 34, 21 agosto 1744, coll. 529-537), leggiamo che «dopo la morte del Cesio, e dopo l’accidente occorso l’anno dopo in Roma al Galileo, […] cominciò l’Accademia a mancare». Si osservi la prudenza con cui si fa riferimento alle vicende di Galileo: non si parla di condanna (in realtà del 1633) ma di «accidente». (Nello stesso anno, sulle Nov., V, 15, 16 aprile 1744, col. 236, Lami scrive poi che si poteva abolire il Tribunale dell’Inquisizione, «essendo i Vescovi più che sufficienti a riparare a qualche piccolo errore, ed inconveniente, che potesse nascere alla giornata, non essendo necessario che un Magistrato instituito in certo bisogno e in certe circostanze, debba durare ancora cessato quel bisogno, e quelle circostanze». «Era troppo», osserva Venturi: «Lami fu costretto a far appicciccare sulle righe incriminate qualche anodina affermazione, coprendo così le sue idee troppo ardite»: cfr. il cit. Settecento Riformatore. I., pp. 344-345, e M. A. Morelli Timpanaro, Autori, stampatori, librai per una storia dell’editoria in Firenze nel secolo XVIII, Firenze 1999, pp. 60-63. Nell’esemplare esistente in BGR, si trova il testo originale senza correzione. Sul tema cfr. M. Infelise, I libri proibiti, Roma-Bari 1999, pp. 33 e 37.) Una prima anticipazione del Fitobasano planchiano, è contenuta nelle Nov., IV, 40, 4 ottobre 1743, coll. 625-628, in cui si narra che Bianchi vi stava allora lavorando in Firenze «in tempo di vacanze» dell’Università. Su questa edizione del Fitobasano, cfr. i fascc. 165-166 e 174-175, FGMB. (Sul totale insuccesso fiorentino dell’impresa editoriale, Lami parla a Bianchi il 26 dicembre 1744, FGLB, ad vocem: «neppure uno è venuto a ricercare il suo Fitobasano, che è un’opera degnissima, e di più da Lei illustrata, e adorna a meraviglia». Il progetto della ristampa delle «opere rarissime di Fabio Colonna», è illustrato da Bianchi ad Angelo Calogerà il 4 gennaio 1740 (cfr. Minutario, MS-SC. 969, cit., c. 30r.) Nel «Lynceorum Catalogus», a p. XXVII della premessa al Fitobasano, Bianchi scrive su Cesi: «Telescopium, Microscopiumque vel invenit, vel inter primos eorum usum propagavit, eaque his nominibus donavit». Di qui l’accusa a Planco di aver errato, sottraendo a Galileo il merito dell’invenzione del cannocchiale: cfr. D. Vandelli, Considerazioni sopra la Notizia degli Accademici Lincei, Modena 1745, p. 42. Vandelli, docente «delle Matematiche» nell’Università di Modena, inoltre accusa Bianchi (ibid., pp. 3-4) di aver omesso il nome di Alessandro Tassoni nel «Lynceorum Catalogus». Vandelli porta come fonte autorevole L. A. Muratori, anche se riconosce che quel nome manca nell’elenco ufficiale del 1625. Forse si tratta dello stesso elenco di trenta nomi, una cui copia è inviata a Bianchi da G. Bottari l’8 aprile 1750, FGLB, ad vocem. A Vandelli, Bianchi risponde con una Lettera nelle Nov., firmata con lo pseudonimo di Simone Cosmopolita ed apparsa in ben dieci parti nel tomo VII (1746, nn. 5, 10, 14, 15, 16, 17, 18, 22, 23, 25), coll. 71-76, 153-159, 215-222, 232-240, 242-249, 262-270, 276-284, 342-350, 357-360, 387-393. Al tema Bianchi accenna pure all’inizio di un’altra Lettera contro Vandelli (sopra un’iscrizione ravennate), nelle Nov., VIII, 13, 31 marzo 1747, coll. 202-207, dove riferisce che, nella «famosa Libreria dell’Eminentissimo Signor Cardinale Alessandro Albani», esisteva «l’Archivio dei Lincei con altri bellissimi documenti inediti di quella celebre Accademia»: in essi «non vien mai mentovato il Tassoni». La notizia dello scritto di Vandelli era stata data dalle stesse Nov., VII, 53, 31 dicembre 1745, coll. 846-847. (Sulla polemica tra Bianchi e Vandelli, cfr. M. Maylender, Storia delle Accademie d’Italia, III, Bologna 1929, pp. 470-471; ed E. Schettini Piazza, Bibliografia storica dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Firenze 1980, pp. 28-31.) Nel cap. XX della «Lynceorum Notitia», premessa al Fitobasano, Bianchi, in base a «carte fogheliane» (cioè di Martino Fogel di Hannover), elenca anche tre lincei riminesi del XVII sec., Francesco Gualdi, Francesco Diotallevi, Francesco Battaglini: su di loro, cfr. C. Tonini, La coltura letteraria e scientifica in Rimini dal secolo XIV ai primordi del XIX, Rimini 1884, ed. anas. 1988, a cura di P. Delbianco, passim. Tonini riporta la smentita di monsignor Gaetano Marini a tali nomine lincee sia per Battaglini (p. 87-88), sia per Diotallevi (p. 192), sia per Gualdi (p. 133). Sulle «carte fogheliane» e sul caso di Tassoni, cfr. G. G. Gabrieli, Contributi alla storia dell’Accademia dei Lincei, Roma 1989, pp. 247-257; a p. 643, si scrive di «molto vaghe e malsicure notizie» divulgate da Bianchi riprese da quelle carte; a p. 469, inoltre, si parla dei tre riminesi, da Bianchi «enumerati fra i lincei, o piuttosto fra gli “amici dei Lincei”, ma che nulla», secondo Gabrieli, «ebbero a fare con l’Accademia»: Battaglini è qualificato poeta, Diotallevi, «dotto patrizio», e Gualdi «dotto archeologo en antiquario collezionista, possessore d’un famoso Museo di antichità e curiosità naturali». Su come Bianchi si fosse procurate tramite il nobile di Livonia Diedrick Zimmermann le «carte fogheliane», oltre al carteggio (FGLB) dello stesso Zimmermann, cfr. pure la lettera di Bianchi a mons. Leprotti (Minutario, SC-MS 969, cit., e Lettere, SC-MS 963, cit., 21 aprile 1740). Il 26 novembre 1739 aveva scritto a Leprotti della difficoltà di trovare notizie sui Lincei e su Federico Cesi, aggiungendo che era stato vescovo di Rimini un Angiolo Cesi «il quale doveva esser Fratello dell’Autore dell’Accademia de’ Lincei». Angelo Cesi, realmente fratello di Federico (cfr. G. Benzoni, ad vocem, DBI, XXIV, pp. 239-243), fu vescovo di Rimini dal 1627 al 1646: il suo ricordo, scrive Bianchi, gli era stato tramandato da un’avola paterna morta nel 1709 ad ottantacinque anni d’età, nata quindi nel 1624. Circa la «Lynceorum Notitia», premessa al Fitobasano, in lettera senza né data né destinatario (cfr. Minute di lettere 1717-1770, SC-MS. 965, BGR, c. 130), Bianchi osserva come essa esamini «le principali gesta di que’ valorosi uomini, e il principio, e il progresso della Filosofia moderna che i Lincei suscitarono sulla scorta del Galileo, del Cesio, del Colonna, e di tant’altri valorosi uomini di quel consesso». Il cit. Gabrieli, pp. 247-248, ricorda che Planco per stendere la «Lynceorum Notitia» si servì, oltre che delle 162 «carte fogheliane», anche della manoscritta Brevis historia Academiae Lynceorum di Giovanni Targioni Tozzetti, bibliotecario fiorentino, composta nel 1740. In una lunga lettera a Planco (20 giugno 1752, FGLB, ad vocem, e Gabrieli, cit., pp. 270-272), Targioni Tozzetti ipotizza che quel manoscritto fosse stato inviato a Bianchi «verisimilmente senza il suo nome» da monsignor Leprotti a cui il fiorentino l’aveva in precedenza inoltrato. Invece Leprotti il 18 novembre 1739 (FGLB, ad vocem) aveva espressamente dichiarato che l’«Istoria dell’Accademia dei Lincei» trasmessagli era «del Sig. Targioni di Firenze». Al che Bianchi il 26 successivo rispose: «Unita alla Sua gentilissima de’ 18 del presente ricevo i fogli del Sig. Targioni contenenti le notizie intorno l’Accademia de’ Lincei» (Minutario, SC-MS 969, cit., cc. 1r/v). Bianchi non cita, nella «Lynceorum Notitia», il lavoro di Targioni che così osserva in quella sua unica lettera inviatagli: «Mi trovo spesso a vedere alcuni far uso di mie fatiche e scoperte, senza che io glie le abbia gentilmente comunicate, e neppure si degnano nominarmi: io non me ne offendo punto, anzi, confesso il mio peccato, internamente mi sento qualche accesso di superbia». Nella cit. lettera del 26 novembre Bianchi osserva che, dopo la morte di Cesi e la condanna di Galileo, l’Accademia dei Lincei «patisce una grande eclisse, contuttocciò» il suo nome si andava mantenendo, poiché «verso l’anno 1650» apparve un volume con scritti di alcuni accademici lincei (apertamente dichiarati tali [Johannes Terrentius, Johannes Faber, Federicus Caesius]) e dello stesso Colonna: è un trattato su piante, animali e minerali messicani, curato dal medico napoletano Marco Antonio Recchi (XVI sec.), e pubblicato a Roma nel 1651, in cui appare pure un elogio di Galileo (datato 1625). Questo volume reca nel frontespizio Nova plantarum, animalium et mineralia mexicanorum historia a Francisco Hernandez ... compilata, dein a Nardo Antonio Reccho in volumen digesta... (Francisco Hernandez visse dal 1517 al 1587). Segue un altro frontespizio calcografico: Rerum medicarum Nouae Hispaniae thesaurus, con indicazioni tipografiche («Romae MDCXXXXVIII»). L’Historia vera e propria occupa la prima parte (pp. 1-459). Seguono le aggiunte di J. Faber (pp. 460-840), le Annotationes et Additiones di Colonna al testo di Recchi (pp. 841-899), ed infine le Phytosophiae Tabulae «Principis Federici Caesi Lyncei» (pp. 901-952), edite «primum a Lynceis», con imprimatur del 1628 e presentazione di Francesco Stelluti datata 1651, in cui si ricorda il principe Cesi come istitutore «Academiae nostrae». Il volume, ideato dallo stesso Federico Cesi, uscì postumo a causa di «intoppi, contrarietà e lentezze» che s’aggiungono alla sua scomparsa, per opera di Francesco Stelluti, «l’unico superstite dell’avventura del 1603» (cfr. E. Raimondi, Scienziati e viaggiatori, «Storia della Letteratura Italiana, V. Il Seicento», Milano 1967, p. 238). Di N. A. Recchi e di questo volume (BGR, segn. CT 722) Planco parla nella «Lynceorum Notitia» alle pp. XVI-XX.

[14] Planco scrive che la relativa deliberazione del Consiglio civico fu presa «il dì ultimo di Ottobre»: cfr. nei citt. Recapiti, p. IV. Infatti, il 31 ottobre 1744, come si legge in AP 875, Atti Consigliari 1735-1745, Archivio di Stato di Rimini (ASRi), c. 160v: i voti favorevoli furono 42 e i contrari 3. (Sul tema, cfr. pure i fascc. 176 e 179, FGMB.) Lo stipendio universitario di Siena era di trecento scudi fiorentini annui: quello assegnatoli a Rimini è inferiore di cento scudi annui (cfr. il fasc. 310, FGMB). L’offerta della cittadinanza nobile e dello stesso stipendio annuo di duecento scudi gli era già stata fatta in precedenza: nel cit. fasc. 310, FGMB, leggiamo che Bianchi «rifiutò l’oferta, e volle andare, e leggere la notomia pubblicamente in Siena per tre anni, insegnando insieme colà diverse altre cose privatamente [...]». Quest’offerta precedente (cfr. AP 875, cit., c. 99r, 23 settembre 1741) aveva ricevuto in Consiglio 34 sì e 10 no. Un’annotazione nella stessa c. 99r reca: «Adì 7 ottobre 1741 non ebbe effetto, per alcun modo per non aver egli accettato». Giuseppe Garampi il 16 marzo 1743 scrive a Bianchi, FGLB, ad vocem: «[...] ho udito alcuni (già suoi parziali) ora essere alquanto mutati da quel buon animo che prima per essolei nutrivano contuttociò gran fidanza io averei che venendo ella in Rimini potesse e colla sua presenza e col suo discorso facilmente rivoltarli in suo favore. Oltredicché forse alcuni ch’ella avea già contrarii spererei che ora non le potessero fare ostacolo alcuno».

[15] Cfr. il fasc. 256, FGMB. L’incarico di «medico primario condotto della città», inizialmente confermato di sei anni in sei anni, diventa a vita il 28 agosto 1769: cf AP 877, Atti del Consiglio Generale, 1766-1777, ASRi, p. 126.

[16] Cfr. nei citt. Recapiti, p. IV.

[17] Cfr. l’epistola (che ritengo inedita) del 28 aprile 1750, FGLB, ad vocem: «Scrivo a favore di V. S. Ill.ma con tutto il calore immaginabile per la cattedra consaputa di Notomia [...] pel buon esito dell’affare».

 

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