il Rimino n. 80. Giugno 2002
Archivio 2016

L'anello di Galileo
E' di Iano Planco la prima storia a stampa dei Lincei

Nel 2003 saranno quattro secoli dalla fondazione dell'Accademia dei Lincei.
La ricorrenza riguarda anche la nostra città perché nel 1745 il medico e scienziato riminese Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775) vi rifondò la celebre istituzione romana, di cui aveva scritto in precedenza una breve storia, intitolata «Lynceorum Notitia», che è la prima apparsa a stampa.
Questa storia esce nel 1744 come premessa al «Fitobasano» di Fabio Colonna, pubblicato a cura dello stesso Bianchi a Firenze: l'opera studia le piante più rare note agli antichi, cercandone il corrispondente nome moderno. Colonna aveva 24 anni quando, a sue spese, la licenziò nel 1594 a Napoli, dove era nato (e morì nel 1640).
Osserva la storica e bibliotecaria Paola Delbianco che «la pubblicazione dell'opera lo portò al dissesto finanziario, anche perché, per la prima volta in un'opera di botanica, volle sostituire le comuni immagini silografiche con incisioni in rame da lui stesso preparate con grande maestria» (cfr. «Le belle forme della Natura», pp. 146-147).

Ecco l'articolo completo.
L'anello di Galileo
Iano Planco pubblica la prima storia dei Lincei romani


Nel 2003 saranno quattro secoli dalla fondazione dell'Accademia dei Lincei. La ricorrenza riguarda anche la nostra città perché nel 1745 il medico e scienziato riminese Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775) vi rifondò la celebre istituzione romana, di cui aveva scritto in precedenza una breve storia, intitolata «Lynceorum Notitia», che è la prima apparsa a stampa.
Questa storia esce nel 1744 come premessa al «Fitobasano» di Fabio Colonna, pubblicato a cura dello stesso Bianchi a Firenze: l'opera studia le piante più rare note agli antichi, cercandone il corrispondente nome moderno. Colonna aveva 24 anni quando, a sue spese, la licenziò nel 1594 a Napoli, dove era nato (e morì nel 1640). Osserva la storica e bibliotecaria Paola Delbianco che «la pubblicazione dell'opera lo portò al dissesto finanziario, anche perché, per la prima volta in un'opera di botanica, volle sostituire le comuni immagini silografiche con incisioni in rame da lui stesso preparate con grande maestria» (cfr. «Le belle forme della Natura», pp. 146-147).
Anche Bianchi paga di tasca propria la ristampa fiorentina del 1744: le spese assommarono a «cinquecento e più ducati», come leggiamo in una sua lettera. Planco non riuscì a recuperare nulla di questa cifra, stando a quanto gli scrive proprio da Firenze Giovanni Lami, direttore delle «Novelle Letterarie», il 26 dicembre 1744: «neppure uno è venuto a ricercare il suo Fitobasano, che è un'opera degnissima, e di più da Lei illustrata, e adorna a meraviglia». Era stato lo stesso Lami ad anticipare nel suo periodico il 4 ottobre 1743 che Bianchi stava allora lavorando in Firenze alla ristampa del libro di Colonna, «in tempo di vacanze» dell'Università: in quel periodo Planco insegnava a Siena Anatomia umana.
Sulle «Novelle» si presenta la fatica di Bianchi il 14 agosto 1744, scrivendo: «Il celebre Sig. Giovanni Bianchi Ariminese, il quale tre anni sono fu chiamato dalla Munificenza dell'Altezza Reale del presente Gran Duca nostro Gloriosissimo Sovrano a professare l'Anatomia nella illustre Università di Siena, dà frequente occasione co' suoi dotti scritti d'adornare queste Novelle, facendo egli onore a se stesso, e all'Italia nostra insieme».
Nella seconda parte dell'articolo (21 agosto 1744), in riferimento ai Lincei, leggiamo che «dopo la morte del Cesio [1630], e dopo l'accidente occorso l'anno dopo in Roma al Galileo, [...] cominciò l'Accademia a mancare». Bianchi vuole però dimostrare, come vedremo, che anche successivamente al 1630 i Lincei continuano a svolgere la loro attività scientifica.
Nel cap. XX della «Lynceorum Notitia», premessa al «Fitobasano», Bianchi, in base a «carte fogheliane» (opera cioè di Martino Fogel di Hannover), elenca tre lincei riminesi del XVII sec., Francesco Gualdi, Francesco Diotallevi, Francesco Battaglini. Carlo Tonini, nella sua «Coltura» (pp. 87 88, 133, 192), riporta la smentita di monsignor Gaetano Marini a tali tre nomine lincee.
Bianchi si era procurato la copia delle 162 «carte fogheliane» tramite il nobile di Livonia Diedrick Zimmermann, con cui fu in corrispondenza. Un altro testo di cui Planco si servì, è il manoscritto intitolato «Brevis historia Academiae Lynceorum» (1740) di Giovanni Targioni Tozzetti (cfr. G. Gabrieli, «Contributi alla storia dell'Accademia dei Lincei», pp. 247-248). Targioni fu direttore dell'Orto Botanico e prefetto della Biblioteca Magliabecchiana di Firenze.
Bianchi usa questo testo senza però citarlo. Molti anni dopo, nel 1752, Targioni invia una garbata protesta a Planco, ipotizzando che il suo manoscritto fosse stato inviato a Bianchi «verisimilmente senza il mio nome» da un antico maestro riminese di Planco, monsignor Antonio Leprotti, a cui egli l'aveva in precedenza inoltrato. Invece Leprotti il 18 novembre 1739 aveva espressamente dichiarato a Bianchi che l'«Istoria dell'Accademia dei Lincei» trasmessagli era «del Sig. Targioni di Firenze».
Targioni osserva: «Mi trovo spesso a vedere alcuni far uso di mie fatiche e scoperte, senza che io glie le abbia gentilmente comunicate, e neppure si degnano nominarmi: io non me ne offendo punto, anzi, confesso il mio peccato, internamente mi sento qualche accesso di superbia».
Planco aveva iniziato a preparare la ristampa del «Fitobasano» nel 1739, cioè due anni prima di andare ad insegnare a Siena, dove rimane fino al novembre 1744. Bianchi il 21 ottobre 1739 inoltra a Roma la richiesta «per avere e ritenere per sei mesi le Opere di Fabio Colonna che sono in Biblioteca Gambalunga, per farle ristampare»: ne parlano le lettere scambiate con Leprotti il quale gli ottiene il permesso. Il 26 novembre 1739 Bianchi chiede a Leprotti di procurargli un'autorizzazione più generale per potersi «servire in casa de' Libri della Biblioteca Gambalunga»: «sarà una cosa molto comoda a miei studi perciocché nell'ora che si tien aperta quella Libreria io il più non ci posso andare». Il 10 dicembre lo sollecita per un permesso «che non sia ristretto ad alcun libro particolare, e che si distenda per ogni tempo, ristringendosi solo che io debba lasciar la ricevuta di ciascun libro che prenderò in mano».
La lettera del 26 novembre a Leprotti, dove Bianchi riferisce della difficoltà di trovare notizie sui Lincei e su Federico Cesi, merita di essere citata ulteriormente. Intorno ai Lincei, per comporne la breve storia da premettere al «Fitobasano», scrive: «Credo che basterà quello che s'era trovato finora. Al più si potrebbe vedere se si potesse ritrovare uno di quegli Anelli col Lince che loro serviva di divisa, il quale si potrebbe far incidere». Bianchi suggerisce di svolgere la ricerca a Firenze, «appresso gli eredi del Galileo»: il quale, aggiunge, era «stato condannato in Roma» nel 1631, l'anno dopo la morte del «Principe Cesi autore dell'Accademia». In realtà la condanna di Galileo è del 1633, per il «Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo» uscito nel febbraio '32.
Dopo i due eventi «questa Accademia patisce una grande eclisse, contuttocciò» il suo nome si andava mantenendo, poiché «verso l'anno 1650» apparve un testo con scritti di alcuni accademici lincei (apertamente dichiarati come tali) e dello stesso Colonna: si tratta di un trattato su piante, animali e minerali messicani di Francisco Hernandez (1517-1587), curato dal medico napoletano Marco Antonio Recchi (XVI sec.), e pubblicato a Roma nel 1651, in cui appare pure un elogio di Galileo (datato 1625). Questo volume, ideato da Federico Cesi, uscì postumo a causa di «intoppi, contrarietà e lentezze» che s'aggiungono alla sua scomparsa, per opera di Francesco Stelluti «l'unico superstite dell'avventura del 1603» (cfr. E. Raimondi, «Scienziati e viaggiatori», Storia Lett. Ital. Garzanti, V, p. 238).
La lettera di Bianchi prosegue: «Bisognerebbe trovare qualche cosa di più intorno di Fabio [Colonna] che è la cosa principale che si cerca, cioè quanto vivesse, dove sia morto, e sepolto. Scrittor alcuno non ne parla, almeno costì in Roma, o in Napoli si dovrebbe ritrovar persona che per indizio de' loro maggiori n'avessero udito a parlare. Io mi ricordo che una mia Avola paterna che morì 30 anni sono d'ottantacinque mi raccontava di monsignor Angiolo Cesi nostro Vescovo il quale doveva esser Fratello dell'Autore dell'Accademia de' Lincei, che era uomo di santa vita, come egli di sé predicava, e altre cose». Angelo Cesi è realmente fratello di Federico, e fu vescovo della nostra città dal 1627 al 1646.
Circa la «Lynceorum Notitia», in lettera senza né data né destinatario, Bianchi osserva come essa esamini «le principali gesta di que' valorosi uomini, e il principio, e il progresso della Filosofia moderna che i Lincei suscitarono sulla scorta del Galileo, del Cesio, del Colonna, e di tant'altri valorosi uomini di quel consesso».
Nel «Lynceorum Catalogus», a p. XXVII della premessa al «Fitobasano», Bianchi scrive su Federico Cesi: «Telescopium, Microscopiumque vel invenit, vel inter primos eorum usum propagavit, eaque his nominibus donavit». Di qui l'accusa a Planco (da parte di D. Vandelli) di aver errato, sottraendo a Galileo il merito dell'invenzione del cannocchiale. Vandelli, docente «delle Matematiche» nell'Università di Modena, inoltre incolpa Bianchi di aver omesso il nome di Alessandro Tassoni nel «Lynceorum Catalogus». Vandelli porta come fonte autorevole L. A. Muratori, anche se riconosce che quel nome manca nell'elenco ufficiale del 1625.
L'edizione fiorentina del «Fitobasano», secondo quanto scoperto da Paola Delbianco (op. cit.), è accompagnata da un'altra uguale (esistente in Gambalunghiana), che reca il nome dello stesso tipografo, Pietro Gaetano Viviani, però sotto la "falsa data" di Milano.
Antonio Montanari


Gente allegra il ciel l'aiuta.
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in una immagine pubblicata da El Mundo con questo commento:
«Al primer ministro italiano, Silvio Berlusconi, no le gusta pasar inadvertido en ninguna parte. En un mitin en Olbia (Sassari), decidió adornar la cabeza de su candidato y amigo, Settimo Nizzi, con un par de cuernos. (EPA PHOTO)». © Diario EL MUNDO, Madrid (España, UE).

Dopo il presidente operaio, il presidente dentista: l'opinione di Tama.
Tama 829. Fuori dai denti
Italiani, Italiane.
Sono il capo del Governo Silvio Berlusconi.
E' la seconda volta che mi rivolgo a voi, con il legittimo orgoglio di una Patria comune e di un comune conflitto d'interessi. La prima volta fu quando v'inviai lo strumento per calcolare il cambio fra la lira e l'euro. A proposito, dove l'avete nascosto? Non ne ho visto nessuno in giro. E pensare che è costato tanto alle vostre tasche, quel mio dono natalizio.
Questa mia seconda lettera è indirizzata soltanto ad una parte di voi, a quelli che abbisognano di una dentiera, che io prometto, garantisco e fornisco affinché chi di essa sarà dotato possa meglio servire alla causa nostra e del Paese: azzannare con immacolate protesi i nostri nemici invisibili. Voi vi chiederete a questo punto molte cose. Io vi rispondo prima che esprimiate le vostre parole. Ho il dono della profezia. Voi volete sapere come si fa a combattere contro i nemici invisibili (parole sante, prese di peso da un carosello televisivo): ed io vi rispondo che, dopo le dentiere, vi fornirò, se ne avrete bisogno, pure di un bel paio di lenti adatte allo scopo. Così i nemici non saranno più invisibili, ma vi appariranno in tutta la loro pericolosità.
Voi ardete anche dal desiderio di conoscere perché mai il governo debba occuparsi di dentiere, in mezzo a tante questioni che urgono sul piano nazionale ed internazionale, politico ed economico, meteorologico ed enigmistico. La verità è una sola. Noi abbiamo ereditato ventimila miliardi di carie, di cattive otturazioni, di ponti crollati, di denti da latte lasciati crescere senza alcuna cura dai passati governi che non hanno coltivato l'igiene della bocca ma il veleno della lingua, disprezzando le sane risorse politiche che il gusto della polemica, l'estremismo della piazza, l'incoscienza dei macellai sostenitori della vecchia maggioranza (quanti pezzi d'osso nascosto per frode nella carne hanno portato alla rovina innocenti vecchietti), hanno creato un sistema insostenibile. E quando dico insostenibile so quello che dico, anche se contrasta con quello che penso: l'istanza della dentiera di Stato a cui mi ha costretto l'emergenza presente, è un principio che s'oppone alla fede politica ed al credo economico che ho sempre professati: libero dente in libero digerire. Un unico timore ho: i comunisti con le mie dentiere non torneranno a mangiare i bambini?
Dopo il presidente operaio, vi saluta il presidente dentista.
Antonio Montanari [Ponte n. 21, 2.6.2002]

"Non toccatemi Berlusconi"
Il Tam-Tama continua a scandalizzare i lettori del «Ponte»: in particolare l'articolo citato qui sopra.
Riprendo dal «Ponte» n. 23, pagina delle lettere.
"Fuori dai denti"
sulla democrazia
Scusatemi, ma non posso fare a meno di manifestare la mia delusione per il fondo di A. Montanari "Fuori dai denti" (pag. 18 del 2/6). Non mi pare giusto che un settimanale cattolico possa ospitare un pezzo così banalmente di parte; forse il Montanari crederà di essere spiritoso, ma non si accorge che potrebbe offendere la maggioranza che dopo tutto in democrazia vale ancora, e poi prende in giro un settimanale che dovrebbe costruire per la pace e non scendere nelle meschinità della politica. Distinti saluti
Giovanni Corzani

Ecco la risposta firmata dal direttore del settimanale:
Gentile lettore, occorre sempre distinguere fra un articolo di fondo e uno di satira. La satira è pane di democrazia. Non censurerò la penna di Montanari con un governo di centrodestra, come non l'ho fatto con uno di centrosinistra. Forse, allora, lei si era sentito più in sintonia, oggi meno. Del resto l'aver votato una parte non significa identificarsi con tutto ciò che quella parte propugna e dice. Nessuno di noi cattolici concede, a destra o manca, deleghe in bianco. Dunque un po' di ironia e satira può esserci solo salutare.
GvT


Il nostro doping quotidiano
Come rovinarsi la vita usando male la mente

Nella camminata da vecchio che sono abituato a fare quasi ogni giorno, l'altra sera ho incontrato due signore straniere che passeggiavano parlando nella loro lingua, e spingendo altrettante carrozzine dove placidamente dormivano i loro neonati.
Ho pensato a quelle creature. Tra vent'anni, se non cambieranno patria, saranno i nuovi cittadini d'un Paese che sta discutendo da mattina a sera, talora con calma, altre volte con preoccupazione, in certe occasioni con onestà, spesso con perfidia e malafede, sul rapporto che si instaura in un territorio tra chi lo abita da un pezzo (soltanto personalmente, od anche per via di discendenza), e chi invece vi arriva all'improvviso, insalutato ospite.
E' ovvio che auguro a quelle creature di trovare un mondo migliore e meno ostile di quello che forse (e anche senza forse) hanno conosciuto i loro genitori. In un campo come quello dell'emigrazione agiscono fattori inconsci che forse si possono spiegare con certe ritualità le cui origini appartengono però non soltanto al genere umano: qualsiasi essere vivente, ovvero anche le bestie, sono abituate a segnare il loro territorio.
Pietro Corsi

La balena del 1943 a San Giuliano
Debutto narrativo di Anna Rosa Balducci

Anna Rosa Balducci vara «La balena», un libro di racconti
(Ponte Vecchio, Cesena) che hanno ampio riferimento alla storia novecentesca di Rimini, in quell'angolo fra terra e mare di San Giuliano da dove partono ricordi della sua famiglia e pennellate delle sue descrizioni.
Il volume è un debutto editoriale che raccoglie una lunga esperienza ed un tirocinio appassionato di scrittura, un suo «bisogno primario» come confida con la consueta timidezza, aggiungendo: «Barerei con me stessa se cercassi a questa mia attività giustificazioni di varia natura. Non posso fare a meno di scrivere, ora che ho compiuto cinquant'anni, così come quando ero adolescente, e la cosa poteva essere sospettata di intimismo consolatorio».
I racconti che compongono il volume (dedicato alla memoria del padre Guido, scomparso in aprile ad 82 anni), spiega, «sono legati tra di loro dal filo di appartenenza allo stesso territorio, quel tratto di città che va dal Ponte di Tiberio alla spiaggetta di San Giuliano a Mare».
La balena del titolo, è quella che approda alla riva di San Giuliano nell'aprile del 1943, un capodoglio naufragato su cui la gente inizia subito a fantasticare in tempi spaventosi, quelli della guerra che la Balducci sintetizza con efficacia nella trama del racconto il quale, commenta, «vuole essere un inno all'amore, alla storia della mia gente, dei miei vecchi, alla memoria ed alla fantasia che loro mi hanno lasciato».
Alla fine della «Balena», un vecchio ripete la solita cronaca del «quattroaprilequarantatré», raccontando di un piccolo Giannino che vide allora quel grosso corpo lucido che avanzava. Forse Giannino non è mai esistito scrive la Balducci: «anche questo è il bello del raccontare storie: che si può, così senza esagerare, dare qualche piccolo ritocco, per rendere più avvincente la trama, e insieme eleggere noi stessi a personaggi. Altrimenti, chi si ricorderebbe di noi?».
In questa conclusione, la Balducci fa consistere la sua poetica: partire dai fatti, legarsi ad essi per poi costruire l'invenzione letteraria che troviamo nella pagina compiuta. Dove lei dimostra una maturità espressiva ed un controllo dei mezzi narrativi che testimoniano la sua passione ed il suo autocontrollo che in certi momenti può essere anche eccessivo (all'inizio leggiamo: «La sfida che sto accettando è questa: scrivere qualcosa di 'storico'. Difficile, so che è difficile: ho giocato molto con la scrittura, ma questa sfida mi trova più irrigidita. La storia mi mette soggezione.»).
La vicenda della balena è talmente originale nella sua impostazione che potrebbe da sola reggere il peso di un intero romanzo: è una sfida che la Balducci potrebbe vincere con se stessa. Basta sapere aspettare che sulla pagina bianca approdi, in un misterioso momento, qualche altra immagine di luce o di ombra per dare corpo alle parole, ai pensieri. Come appunto quella balena del «quattroaprilequarantatré».
Antonio Montanari

Quando il potere era temporale
La storia di un soldato dell'800

Secondo un paradosso logico, tra due orologi (uno guasto ed uno eternamente in ritardo), quello fermo va meglio dell'altro perché almeno due volte al giorno segna l'ora esatta. Indro Montanelli, per giustificare orgogliosamente il suo pensare da conservatore, vantava di essere appunto come quell'orologio fermo che tuttavia dice la verità in due occasioni (sulle 1.440 delle ventiquattr'ore).
L'immagine viene in mente leggendo la storia che, per l'editore Pazzini, ha scritto A. M. Sertorio, «Stanislao Freddi, un carabiniere del Papa», biografia d'un uomo che si oppose alle idee risorgimentali in virtù del proprio ruolo militare.
Invenzione interessante quella di ripercorre, attraverso la vicenda di un singolo, tutta quella collettiva che riguarda da vicino anche la Romagna e Rimini, con una messe molto ricca di documenti, continuamente esposti a sostegno del filo conduttore che guida il racconto.
Si va dai briganti del Ferrarese ai contestatori di Sogliano (che accusavano i preti di spargere dottrine «contro l'umanità»), passando attraverso episodi più o meno clamorosi. E quasi sempre salta fuori Freddi, «uomo in Romagna odiatissimo» secondo una calzante definizione di Massimo d'Azeglio, in quanto sempre impegnato a dar la caccia ai patrioti.
Le quasi trecento pagine del libro sono un continuo duello fra legalità e rivolta, fra popolo affamato (anche di libertà) e Stato incapace di risolvere i suoi problemi se non attraverso la repressione. L'autore mostra le sue preferenze di cui si diceva all'inizio quando, parlando di prelati liberi da responsabilità politiche (pp. 122-123), accusa ad esempio il vescovo riminese Gentilini di «interferire nella cosa pubblica applicando i dettami del Vangelo» o l'arcivescovo di Ravenna Falconieri di elaborare una lettera pastorale «nella quale esaminava i problemi del presente alla luce della religione». In tal modo, Falconieri «tentava di conciliare le nascenti teorie sociali con la secolare posizione della Chiesa in materia di proprietà e lavoro, non accorgendosi che così facendo di fatto ne riconosceva la validità e le nobilitava, mettendosi sullo stesso piano anziché confutarle». (La «Rerum Novarum» non tarda molto: 1891.)
A pag. 212 si legge che Pio IX il 16 novembre 1848 «formò un nuovo ministero, affidandolo all'abate Antonio Rosmini», prima di fuggire («secondo suo costume») a Gaeta: manca, se non andiamo errati, la seconda parte della notizia, cioè quella relativa al fatto che si trattava solamente d'una proposta fatta a Rosmini il quale rifiutò l'incarico. E saranno guai per lui: gli avversari denunceranno la pericolosità delle sue idee, portandolo verso la condanna all'Indice di due scritti, «La costituzione secondo la giustizia sociale» e «Le cinque piaghe della Santa Chiesa».
Per tornare a Freddi, l'autore ben lo rappresenta nell'ultima pagina come campione di «una visione della vita legata alla tradizione cattolica e al rispetto di canoni sanciti da usanze plurisecolari». Ma come dimostra il Concilio Vaticano II, per affrontare il mondo non basta restare rabbiosamente aggrappati al passato quale salvagente per (non) affrontare i problemi presenti. [l. v.]

Leonardo torna a Rimini cinque secoli dopo. Mostra itinerante nel mondo
ed esposizione al Castello nel 2003

Leonardo in Romagna. E' questo l'argomento di un'esposizione programmata per il febbraio 2003 nel nostro Castel Sismondo, e propagandata da una mostra itinerante di trenta pannelli fotografici, dedicata a Leonardo da Vinci, Niccolò Machiavelli e Cesare Borgia, che, da questo mese fino al gennaio 2003, toccherà tredici città sparse nel mondo: Bucarest, Lubiana, Sydney, Montreal, Lisbona, Washington, Philadelphia, Baltimora, Monaco di Baviera, Ankara, Stoccarda, L'Avana, Boise (Idaho).
Il progetto è dell'Associazione Culturale Erasmo di Imola, l'amministrazione curata da una società di Bologna, la promozione dell'Apt regionale, del Comune e della Provincia di Rimini, con la collaborazione del Ministero degli Esteri e con una convenzione dell'Assessorato al Turismo della nostra Regione.
Come si vede è una bella iniziativa che, alla presentazione avvenuta giovedì 30 presso il Museo di Rimini da parte del sindaco Alberto Ravaioli, un funzionario degli Esteri ha sintetizzato con lo slogan «esportare cultura per importare turismo». Ed a Rimini come «città della cultura» ha accennato Ravaioli per sottolineare l'impegno della sua amministrazione in questa esposizione che ricorderà il 550° anniversario della nascita di Leonardo (1452) ed il quinto secolo dal viaggio compiuto (1502) dallo stesso genio di Vinci nelle Marche e in Romagna al seguito dell'esercito di Cesare Borgia.
Machiavelli c'entra indirettamente (con Rimini...) perché nello stesso 1502 compie una missione ad Imola presso Cesare Borgia.
In una celebre annotazione, Leonardo lasciò scritto sulla fontana di piazza Cavour (attualmente in restauro): «Fassi un'armonia colle diverse cadute d'acqua, come vedesti alla fonte di Rimini, come vedesti addì 8 agosto 1502». Ma nella lapide che fu apposta nel secolo scorso, si scrisse invece «5 agosto», ha precisato Learco Andalò, curatore delle manifestazioni in programma. [Lena Vanzi]

Non basta la parola
L'extra non serve

Alberto Arbasino ha l'abitudine di scrivere quasi quotidianamente una lettera ai principali giornali, trattando del più o del meno, talora del nulla (e sono le cose migliori, perché il nulla intellettualmente è la parte più consistente della nostra società: pensate a quanti milioni di telespettatori raccolga il nulla televisivo di Cucuzza e dei suoi catodici fratelli/sorelle di latte).
Orbene, commentando un articolo del prof. Giovanni Sartori che invitava a considerare non pericolosa la xenofobia perché non è odio verso lo straniero, ma soltanto paura, Arbasino ha tirato uno di quei colpi di fioretto da vero Maestro, con una battuta fulminante. Oggi si usa parlare di «extra»(comunitari), scrive Arbasino sul Corsera (17 maggio): ci dimentichiamo che «extra» era una volta garanzia di alta qualità, mentre per noi è soltanto una connotazione negativa; e che «extra»(comunitari) lo sono anche americani, giapponesi e svizzeri.
Forse abbiamo bisogno di parole nuove per esprimere vecchi concetti. E' successo, a proposito di donne «extra»(comunitarie), come le badanti. Termine che non è risultato gradito troppo (aggiungerei non tanto per chi bada quanto per chi è badato in quanto malandato: certe finezze sfuggono al nostro degrado mentale). L'on. Bossi non parla di colf, ma di serve (che non servono a casa sua, perché ha molti figli che aiutano la moglie).
Più sfumato come al solito l'on. Pierferdinando Casini: la sua è una «tata di fiducia». Come si addice al presidente della Camera. La «tata di sfiducia» l'hanno quelli dell'opposizione. [Pietro Corsi]

La beata Chiara da Rimini:
lo studio di De Carolis

Negli ultimi tempi, due pubblicazioni a stampa («Arte e storia della chiesa riminese» di Pier Giorgio Pasini; «Santa e ribelle. Vita di Chiara da Rimini» di Jacques Dalarun), ed una sezione di una mostra («Le Donne dei Malatesta. Amore Sangue Santità», tenutasi a Verucchio), hanno riportato l'attenzione su una beata riminese quasi dimenticata, Chiara da Rimini.
Come storico della medicina, il dottor Stefano De Carolis si è occupato una prima volta di questa beata con una comunicazione presentata assieme ad Elisa Tosi Brandi al Convegno annuale della Società di Studi Romagnoli di San Marino (ottobre 2000), ed intitolata «Quando l'allievo supera il maestro: Iano Planco, il Cardinal Garampi ed un miracolo della Beata Chiara da Rimini».
Questo studio esaminava dal punto di vista storico-medico il più importante miracolo operato dalla Beata nel 1751, grazie al quale fu elevata all'onore degli altari trentatré anni dopo.
Una nuova comunicazione sullo stesso personaggio, intitolata «Un pittore seicentesco ed una beata medievale: Angelo Sarzetti (1656-1700 c.) ed il "corpo" della Beata Chiara da Rimini», il dottor Stefano De Carolis ha presentato lo scorso anno a Fermo (AP), in occasione della XXXV Tornata dello "Studio Firmano dall'Antica Università". Ora questo studio è appena venuto alla luce nel volume degli Atti dello stesso "Studio Firmano".
Qui il dottor Stefano De Carolis riesamina i miracoli che nel Seicento portarono alla ribalta il culto della Beata Chiara. Egli ricorda pure le numerose ricognizioni delle sue reliquie fatte nello stesso torno di tempo e culminate nella costruzione, operata dal pittore riminese Angelo Sarzetti (1656-1700 circa) utilizzando lo scheletro della beata, di un simulacro accomodato "in buona forma" per la pubblica venerazione.



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