il Rimino n. 79. Maggio 2002
Archivio 2016

Il nostro doping quotidiano
Come rovinarsi la vita usando male la mente

Nella camminata da vecchio che sono abituato a fare quasi ogni giorno, l'altra sera ho incontrato due signore straniere che passeggiavano parlando nella loro lingua, e spingendo altrettante carrozzine dove placidamente dormivano i loro neonati.
Ho pensato a quelle creature. Tra vent'anni, se non cambieranno patria, saranno i nuovi cittadini d'un Paese che sta discutendo da mattina a sera, talora con calma, altre volte con preoccupazione, in certe occasioni con onestà, spesso con perfidia e malafede, sul rapporto che si instaura in un territorio tra chi lo abita da un pezzo (soltanto personalmente, od anche per via di discendenza), e chi invece vi arriva all'improvviso, insalutato ospite.
E' ovvio che auguro a quelle creature di trovare un mondo migliore e meno ostile di quello che forse (e anche senza forse) hanno conosciuto i loro genitori. In un campo come quello dell'emigrazione agiscono fattori inconsci che forse si possono spiegare con certe ritualità le cui origini appartengono però non soltanto al genere umano: qualsiasi essere vivente, ovvero anche le bestie, sono abituate a segnare il loro territorio.
Ma tra il gesto istintivo che determina poi l'aggressività verso chi varca il confine delineato, ed il comportamento di chi si presume definirsi un essere razionale ed un animale sociale, dovrebbe passare una qualche differenza. E' la differenza che dovrebbe aver accumulato il trascorrere del tempo, ma che svanisce se pensiamo che ancora oggi, come tanti millenni fa, abbiamo la guerra come unico strumento di risoluzione dei contrasti.
Se quei neonati che dormivano serenamente nella loro carrozzina, all'ombra delle piante agitate da un fresco vento primaverile, avessero potuto ascoltarmi (e se per un'improvvisa mediazione celeste avessimo potuto colloquiare), oltre ad augurargli le cose che ho appena detto, avrei per onestà anche dovuto aggiungere di non fidarsi troppo delle mie parole perché purtroppo la paura verso chi viene da fuori (da cento chilometri, da mille, da tremila, non contano i numeri), fa parte del nostro destino sociale, è frutto di un nostro diffuso, placido doping quotidiano: con esso ci sentiamo più forti, anche se ciò non significa che realmente lo siamo. Con esso, cerchiamo di nascondere a noi stessi le nostre personali debolezze, fingendoci dei superman che poi l'altrui malvagità può ricompensare con l'annientamento totale (leggi terrorismo).
Questa paura di chi è, non dico, straniero, ma nuovo per noi, dovrebbe essere vinta anche da un'altra serie di considerazioni. Siamo un popolo che fino a pochi anni fa aveva un'emigrazione altissima perché da noi non c'era abbastanza cibo per tutti (non è retorica, è statistica). Siamo anche un popolo che impiega, attualmente, un'altissima percentuale di manodopera straniera immigrata, al punto che lo stesso mondo industriale non condivide l'astio leghista (odiano chi ha la pelle di colore diverso, e poi chiedono il Crocifisso ad ogni cantone): se dovessimo cacciare tutti quelli che non 'piacciono' a certi politici, la produzione italiana si fermerebbe.
(Il bello della nostra produzione è che è in gran parte "in nero", e noi non vogliamo i negri, che trattiamo come esseri inferiori soltanto per la loro provenienza geografica.)
Se quei lavoratori ci servono per tirare avanti la baracca, dovremmo considerarli cittadini di pari grado a noi: ma questo non succederà mai, perché la nostra economia, quella che fa andare in brodo di giuggiole i liberisti, si è costruita quarant'anni fa con le sofferenze dei meridionali in quasi tutto il Nord, così come oggi sfrutta il lavoro nero dei negri (che proprio nel Nord-Est hanno cominciato a scioperare all'insegna del motto: «No, badrone», cioè ricorrendo al linguaggio attribuito ai loro antenati nel doppiaggio in italiano dei film americani).
Noi siamo un popolo che ha ancora un altro tipo di emigrazione: quella dei cervelli che qui non trovano posto e finanziamenti, e vanno a lavorare all'estero non soltanto per soddisfazione personale, non soltanto per reagire alla mafiosità politica delle protezioni di casta, ma anche per impiegare dignitosamente i loro talenti, giusta la parabola evangelica, ed il senso di dignità morale di chi non vuole soccombere alle prepotenze ed alle vigliaccate che leggiamo dovunque sull'argomento.
Ma noi, tutto questo non lo vogliamo ammettere e ricordare perché i nostri quotidiani doping mentali ci rallegrano facendoci credere che il nostro è il miglior mondo esistente.
Pensate all'incoscienza di genitori, allenatori, dirigenti sportivi che rovinano i giovani con il doping vero, quello chimico: sono le stesse cose che accadevano trent'anni fa nei Paesi dell'Est comunista, dove i ragazzi si uccidevano con le loro mani, ricorrendo a quelle perverse tecniche di rafforzamento del fisico, perché sognavano di evadere dalla miserie che il partito garantiva a tutti, mentre a loro prometteva non solamente la gloria sportiva ma pure gli effetti che essa comportava (un'agiatezza che là avrebbero definito borghese, una casa decente, una vita meno povera dei loro connazionali). Andate a leggere quanto Gianpaolo Ormezzano ha scritto anni fa al proposito.
Da noi si può vivere discretamente senza ricorrere a quei trucchi che invece si usano: ed allora perché accade? Credo proprio per quest'altro doping di cui dicevo, il nostro doping mentale che ci vuol fare credere grandi, onnipotenti, signori della nostra vita e di quella del prossimo.
Ci sono altri modi per rovinarsi l'esistenza: pensate a chi sprofonda nell'abisso del gioco e di chi si affida ai maghi. Bastano (basterebbero) pochi elementi per un semplice ragionamento da usare con queste persone: ma spesso le parole sono inutili quando uno sta precipitando. Allora forse l'unica soluzione potrebbe essere quella di prevenire.
Bisognerebbe cominciare nelle scuole, a dimostrare che non esiste nessuna legge numerica per i ritardi nel gioco del lotto: perché ogni volta, in base al calcolo delle probabilità, per ogni estrazione, ci sono sempre novanta numeri, e tutti sono egualmente posizionati davanti alla sorte, nessuno deve uscire per forza perché non è sortito nelle estrazioni precedenti. (Come al solito, siamo bravi a salvarci l'anima: il lotto serve allo Stato, lo si usa per i monumenti, e quindi non ti curar di lui, ma guarda e passa).
Maghi: possibile che la cultura scolastica e quella mediatica non riescano a dimostrare che sono dei gangster quelli che approfittano delle altrui debolezze per arricchirsi usando i più vari stratagemmi truffaldini? Ci sono numerose reti televisive che vivono soltanto grazie a cartomanti, astrologi, indovini, angeli sensitivi, consiglieri spirituali che quotidianamente inondano le case e le famiglie di messaggi pericolosi: meglio loro del medico, meglio loro della scienza, meglio loro del conforto di un'altra persona che ti può aiutare semplicemente, senza spillarti quattrini.
Roberta De Monticelli, una filosofa milanese che lavora a Ginevra, intervistata da Barbara Palombelli del Corsera (29 aprile), ha dichiarato: «Se non cerchiamo di offrire gli strumenti per riflettere e tentare di comprendere il nuovo che ci sta sconvolgendo, la gente finirà in massa dal mago, dallo stregone, dal guru». Riassume efficacemente il titolo dell'articolo: «Se la mente si impigrisce vincono i maghi».
Ma noi, anziché usare la mente, preferiamo farci ingannare. E' scoppiata al Giro d'Italia la nuova puntata dello scandalo del doping nel ciclismo. La gente gridava ai microfoni delle tivù che il Giro è bello, lasciatecelo godere, di queste cose non c'interessiamo. Qualche direttore di telegiornale leggeva le notizie sfottendo con un ironico sorrisino i magistrati che stanno lavorando sull'argomento.
Il doping è un'invenzione delle Procure. Ci sentiamo tutti belli forti nelle nostre certezze. Il male della società, sono gli immigrati. La rovina dell'economia, è la richiesta delle tutele per i lavoratori. Questo è il nostro doping mentale quotidiano. Per il quale, il rimedio sta nell'uso corretto della nostra ragione. Sta, anzi starebbe, come sostiene la professoressa De Monticelli.
Post scriptum. Perché la professoressa De Monticelli lavora in Svizzera? Lo spiega lei stessa: «In certi anni [in Italia] era più facile diventare docente avendo portato la borsa di Tizio, che non studiando e pubblicando in giro per il mondo». Cito da Repubblica del 22 maggio: Sabrina Malpede, 30 anni [[email protected]], «ricercatrice presso una prestigiosa università londinese», «cervello scappato all'estero», scrive: «Dopo più di quattro anni di esperienza all'estero, mi dichiaro felice della mia scelta e con questa lettera invito tutti i laureandi e laureati d'Italia a seguire questa strada» perché in Italia, con i tagli dei fondi alla ricerca scientifica, si tagliano «i ponti con lo sviluppo».
Pietro Corsi
La Provincia che il duce non voleva
Lunga storia d'una giovane autonomia amministrativa

Visita di Mussolini a Rimini. Corteo delle autorità che sfilano, salita sul palco, discorso ufficiale. Ad un tratto, dalla folla entusiasta si alza una voce che proclama con la stessa grinta del Capo: «Vogliamo la provincia». Più che un desiderio, un ordine. Il duce, lo sguardo imperioso, forse nascondendo a malapena quel disgusto che nutriva naturalmente per la nostra città, è lapidario: «Sulla carta». Come dire, scordatevela. I saluti romani continuarono ad agitare la scena.
L'antico episodio (ripreso da memorie ascoltate in famiglia), mi ritorna in mente aprendo il volume edito dalla Provincia di Rimini, volume che ha lo stesso titolo dell'ente, ed in cui si illustrano i vari aspetti di una realtà che è storica, amministrativa, naturalistica e politica insieme. Il libro infatti si articola in una serie di saggi che esaminano questi singoli momenti i quali tutt'assieme costituiscono l'immagine riassuntiva di un lungo processo.

Si nasce
o si diventa?
Provincia si nasce o si diventa, verrebbe da domandarsi provocatoriamente, ricordando che da sempre Rimini è stata relegata a giocare ruoli secondari da altre città romagnole che, in un modo o nell'altro, giustificavano la loro superiorità nei nostri confronti.
Quando sento parlare delle buone intenzioni di quanti, come noi un tempo chiedevamo la provincia, adesso continuano a domandare la regione Romagna ben distinta dall'Emilia, mi viene da sorridere ricordando che mai i romagnoli si sono trovati d'accordo sull'organizzazione del loro territorio: abbiamo troppi campanili di pari altezza, ognuno dei quali non rinuncerebbe per nessuna ragione al mondo al primato che si attribuisce, vantando oneste e giuste benemerenze stratificatesi lungo l'arco storico. Pensate soltanto alla grandezza di Ravenna, che sarebbe quasi naturalmente portata ad assumere il ruolo di capoluogo regionale: ma credete che Forlì possa essere d'accordo?

Città di «rammolliti
ed affittacamere»
Esisteva per Rimini tutta una serie di antichi e buoni motivi che servivano a giustificare la richiesta della provincia. Ma se leggete il testo di Maria Rosa Pasini Rapini trovate elencati ostacoli e rifiuti che furono sempre presentati alle richieste della nostra città. Politica e deteriore folclore si mescolano in certi scritti fascisti (fase ante-marcia, 1921) che definiscono Rimini «città dei rammolliti e dei vili, paese di mercanti e di affittacamere» (per aver disertato il funerale dello squadrista Luigi Platania). Come poteva Mussolini non ricordare questi giudizi, confortato pure dalle opinioni ufficiali locali come quella del federale Ivo Oliveti che in un convegno indetto appunto sulla richiesta riminese, lanciò una specie di anatema chiedendo ai presenti: vi vergognate forse di appartenere alla provincia del Duce?

Nel 1959 esce
«La Provincia»
Sulle macerie della guerra rinasce la speranza che la Pasini documenta passo a passo, con i vari interventi, comitati, proposte. Nel 1959 esce anche un giornale, La Provincia, che si batte sull'argomento con il suo direttore Mimmo (Flaminio) Mainardi, di cui ebbi occasione di parlare recentemente in occasione della scomparsa. Va ricordata, al proposito, come fa la Pasini, anche la passione del prof. Luigi Silvestrini e di Flavio Lombardini che dirigeva il Corriere di Rimini.
Il primo passo fu l'istituzione del Tribunale nel 1962, grazie soprattutto all'opera dell'avv. Bonini. Nel 1974 nasce il Circondario. Infine nel 1992 arriva la benedetta provincia, con il decreto legge pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del primo aprile (niente «pesce», per una volta). Essa diventa operativa tre anni dopo, come ricorda Pier Giorgio Pasini nel «ritratto» che apre il volume, destinato a delineare le caratteristiche del Riminese, cioè di un territorio che ha avuto antiche descrizioni che l'autore ricorda: nel 1550 il bolognese fra Leandro Alberti parla di una «nobilissima» pianura; nel 1575 Francesco Sansovini scrive che la nostra terra «abbonda assai delle cose necessarie per il vivere dell'uomo»; nel 1617 Cesare Clementini illustra anche la scenografica immagine di sfondo dell'Appennino, definita «una sontuosa scena boschereccia».

Territorio
e cultura
Il lettore troverà in queste pagine di Pasini una suggestiva ricostruzione storica, ricca di spunti anche divertenti (come i motteggi che si scambiavano i paesi tra loro), che costituiscono una trama di eventi legati alla vita quotidiana della gente ed ai percorsi economici che l'autore analizza trattando prima di città e campagna, e poi del mare.
Merita di esser citata la sintesi che Pasini fa, scrivendo che il nostro territorio, per la sua breve dimensione e per la sua caratteristica di luogo di transito, solo raramente ha potuto sviluppare «una originale fisionomia culturale». Per questo motivo, aggiunge Pasini, la cultura di Rimini e del suo territorio «appare ibrida, incerta, attratta da poli diversi e quindi "provinciale": del resto come quella di tutta la Romagna e delle Marche, tra le quali il Riminese si trova incuneato».

Natura, arte,
ospitalità
A Rita Giannini è toccata la descrizione fisica, demografica ed economica, che costituisce una specie di trampolino di lancio verso il futuro, mentre Loris Bagli esamina beni naturali e paesaggio. Ovviamente, per un territorio come il nostro, natura ed economia sono elementi altamente interattivi, come osserva la Giannini: «Qui arte, storia, cultura, natura, ricettività, ospitalità sono così ben integrate, che insieme possono offrire ciò che altrove andrebbe cercato in molti luoghi diversi e lontani tra loro».

Gusto felliniano
nelle foto
Resta da parlare della sezione fotografica, affidata all'obiettivo di Luciano Liuzzi il quale ha suddiviso il suo lavoro in quattro sezioni, Paesaggi, Centri abitati, Storia e cultura, La gente. Questa scaletta nasce da una precisa scelta retorica. Prima viene la terra, con i campi, le nuvole di sfondo, l'agricoltura, i girasoli, l'alternarsi dei colori, prati, fiumi, colline, la riva del mare, i gabbiani. E' quasi una natura idillica, di una società preindustrale, dove il verde prevale sul cemento, dove le strade sono miracolosamente deserte ed un trattore disegna sui campi, graziosamente, come una penna sul foglio. Ma sappiamo che ci sono anche ben altri paesaggi, non meno interessanti come documento, non so: l'autostrada affollata di turisti od il mare che ha migliaia di bagnanti sulla spiaggia od in acqua. Questo è l'aspetto vero della nostra vita quotidiana che Liuzzi non considera per cantare sulle note più melanconiche e indubbiamente eleganti, come nelle scene invernali (la neve di piazza Cavour, dell'Arco), che ricalcano un poco l'Amarcord felliniano: dove la citazione nascosta è utile per ricostruire un clima passato, ma non serve a far capire quello presente.
Forse il capitolo più difficile da affrontare era quello della Gente: esso risulta alla fine descrittivo in alcune immagini di personaggi singoli, scarsamente corale, talora stereotipato, come il bagnino che vernicia l'insegna od il pescatore che accomoda la rete.
Forse sarebbe stato più utile, per il significato complessivo dell'opera, accompagnare le immagini al testo, e non farne una sezione a se stante, quando non tutto per un tema così vasto si può raccontare soltanto con degli scatti.
Antonio Montanari
Tama 826. No Martini?

Luciano Canini mi ha scritto una lettera (vedi lo scorso Ponte), dai toni graziosamente apocalittici, sui quali non concordo. Non hanno ragione i reazionari dell'Ottocento i quali pensavano che la democrazia avrebbe «alla lunga» avvelenato morale e religione. Società liberale e democratica non sono la stessa cosa, e non abbiamo bisogno di un «onesto Bonaparte cattolico» (cosa del tutto improbabile se non impossibile, per un contrasto semplicemente logico fra gli aggettivi ed il sostantivo).
Abbiamo bisogno invece di tanti cardinali Martini che dicano, come lo scorso primo maggio ha fatto l'arcivescovo di Milano, che occorre «una partecipazione convinta e unitaria per i comuni obiettivi di giustizia ed equità». E che «non serve tanto lamentarsi ma serve unire insieme capacità e sensibilità e costruire, con le altre forze sociali e istituzionali, una realtà più umana».
Quanto ai giornalisti, Canini li considera degli anarchici pericolosi. Alcuni aneddoti. Mario Missiroli negli anni '50 diresse il Corrierone. A chi gli suggeriva di trattarvi argomenti spinosi, rispondeva sempre che, per farlo, sarebbe stato necessario avere a disposizione un giornale. In un suo recente (e postumo) libro-intervista, Indro Montanelli ricorda che Missiroli ad ogni crisi di governo «scriveva tre fondi, sempre gli stessi». Il primo era intitolato «Grave errore», perché ogni crisi turbava lo status quo. Dopo cinque o sei giorni, veniva il secondo, «Sulla buona strada». Infine, conclude Montanelli, giungeva il terzo, «La giusta soluzione». Nella rubrica «Iceberg» della Stampa (proprietà della Fiat), il 3 maggio si è letto che «la prova cruciale della vitalità di una democrazia è la vitalità dei suoi media».
Un ricordo di famiglia. Quando ci fu la tragedia del Vajont mio zio Guido Nozzoli scrisse per il Giorno degli articoli sulle responsabilità della società che gestiva la diga idroelettrica: fu denunciato e processato. A chiedere la sua assoluzione in sede dibattimentale, fu addirittura il Pubblico ministero. Dai cronisti ai politici: è uscito il diario postumo di Paolo Emilio Taviani. Forse nei prossimi giorni se ne discuterà. Scotteranno le sue rivelazioni sulle stragi, a partire da quella del 12 dicembre 1969, a piazza Fontana: egli tira in ballo «settori deviati dei servizi segreti». Chi ha la mia età, sa che non sono affermazioni originali. Allora non le scrissero gli ex ministri, ma certi giornalisti piantagrane. [826]
Sigismondo, dica «33»
Le malattie dei Malatesti


Stefano De Carolis nell'Annuario 2001 dell'Ordine dei Medici (Bollettino n. 2, anno III) racconta «Le malattie dei Malatesti». Si comincia con Paolo e Francesca, i cognati di cui si sa soltanto (da Dante) che furono uccisi: «Ma i cadaveri dove sono finiti?» si chiede De Carolis citando un testo del 1581 che li vuole sepolti in sant'Agostino e ricoperti di abiti di seta (resistenti al trascorrere del tempo: una specie di spot pubblicitario adatto all'argomento del testo: «Il vermicello della seta» di Giovanni Andrea Corsucci di Sassocorvaro).
Segue il padre di Sigismondo, Pandolfo III, morto dopo aver sposato la terza moglie: malandato in salute un po' per il continuo uso delle armi e un po' per le cattive abitudini alimentari (carni rosse e formaggi).
Il beato Galeotto Roberto, figlio naturale di Pandolfo III, e fratello di Sigismondo, condusse una vita di penitenza, dopo essersi sposato controvoglia («pare») con Margherita d'Este. Sigismondo aveva una bella testa grande («capacità superiore alla media», naso aquilino e mento sporgente). Negli ultimi anni di sua vita soffrì di febbri malariche, contratte in guerra, e di una «disperata malinconia».
Sua moglie Polissena Sforza morì durante una pestilenza. Vuole la leggenda che sia stato lo stesso Sigismondo ad ucciderla o a farla eliminare (De Carolis racconta anche le relative polemiche relative al fatto, che proseguono tuttora).
Di Isotta sono sappiamo praticamente nulla: il mistero dell'Amore prende il sopravvento sulle indagini scientifiche, una volta tanto. Nel 1756 il suo corpo apparve privo di vesti, durante la prima delle quattro ricognizioni effettuate nelle tombe malatestiane (chissà perché, poi, non si lasciano in pace i morti: che cosa cambi, nel mondo, non sappiamo, con tutti questi esami su poveri resti, che tali restano anche se di persone illustri).
Ultimo compare Roberto, figlio di Sigismondo e di Vannetta de' Toschi, ucciso da una febbre terzana doppia (con fortissima diarrea), contratta mentre combatteva in una zona paludosa laziale.
Lena Vanzi
Romagna religiosa, tradizioni popolari.
Un numero monografico di Romagna arte e storia


L'ultimo numero della rivista «Romagna arte e storia» (63/settembre dicembre 2001) diretta da Pier Giorgio Pasini, è monografico e riguarda la «religiosità popolare». I contributi sono stati curati da Oreste Delucca, Gian Ludovico Masetti Zannini, Giovanni Montanari, Claudio Riva, Marino Mengozzi, Cristoforo Buscarini, Andrea Casadio e Giancarlo Cerasoli.Delucca indaga sui «Barabba» riminesi fra Quattro e Cinquecento: si tratta di provvedimenti di liberazione di prigionieri, che si richiamano ad un'antica consuetudine dei canonici riminesi, di cui peraltro, osserva l'autore, non è nota l'origine. Il nome usato da Delucca per indicare questi prigionieri liberati, è preso dalla notizia evangelica che racconta la domanda di Pilato che delegò al popolo la scelta fra Barabba e Gesù, in occasione della festa di Pasqua per la quale il Governatore era solito prendere questo provvedimento. Questo scritto di Delucca riveste grande importanza storica e documentaria, affrontando un tema del tutto inedito.
Anche Masetti Zannini affronta un argomento riminese, legato ai riti ed alle usanze funebri del Cinquecento nel nostro territorio. Anzitutto le leggi locali vietavano gli eccessi che, per addobbi, cere e abiti usati nel periodo di lutto, provocavano spese eccessive, a tutto danno delle elemosine per i poveri. Nel 1596 il Consiglio riminese dice chiaramente che molti privati cittadini si rovinavano con le spese per le candele. Una curiosità: le famiglie del defunto offrivano al clero dopo le esequie un pranzo che, come le elemosine, era riservato soltanto ai chierici officianti.
Nel 1577 si regolò il suono delle campane, da eseguire appena appresa la notizia di un decesso e durante il trasporto (da effettuarsi tra la levata e il tramonto del sole, anche se non mancavano casi di funerali in orario notturno). Durante le esequie venne proibita la recita dell'elogio del defunto, a meno che la lode scritta non fosse stata preventivamente approvata dal vescovo.
Buscarini tratta del Santo di San Marino «fra ceti egemoni e classi subalterne». E' un ampio ed originale saggio in cui si contrappone lo sfarzo di certe manifestazioni (nel 1743 ad un monsignore venuto in missione si regalano una vitella e 24 fiaschi di «scelti vini»), alle condizioni misere in cui il popolo minuto viveva afflitto da sottoalimentazione e malattie.
Per venire all'oggi, Buscarini osserva il definitivo tramonto di forme di religiosità spontanea, sacrificate a quelle di culto prestabilite ed uniformi, con le «pompe ridondanti» delle festività ufficiali in cui (in mezzo agli spari di cannone) «sacro e profano si confondono incautamente».
Lena Vanzi
Non basta la parola
L'extra non serve


Alberto Arbasino ha l'abitudine di scrivere quasi quotidianamente una lettera ai principali giornali, trattando del più o del meno, talora del nulla (e sono le cose migliori, perché il nulla intellettualmente è la parte più consistente della nostra società: pensate a quanti milioni di telespettatori raccolga il nulla televisivo di Cucuzza e dei suoi catodici fratelli/sorelle di latte).
Orbene, commentando un articolo del prof. Giovanni Sartori che invitava a considerare non pericolosa la xenofobia perché non è odio verso lo straniero, ma soltanto paura, Arbasino ha tirato uno di quei colpi di fioretto da vero Maestro, con una battuta fulminante. Oggi si usa parlare di «extra»(comunitari), scrive Arbasino sul Corsera (17 maggio): ci dimentichiamo che «extra» era una volta garanzia di alta qualità, mentre per noi è soltanto una connotazione negativa; e che «extra»(comunitari) lo sono anche americani, giapponesi e svizzeri.
Forse abbiamo bisogno di parole nuove per esprimere vecchi concetti. E' successo, a proposito di donne «extra»(comunitarie), come le badanti. Termine che non è risultato gradito troppo (aggiungerei non tanto per chi bada quanto per chi è badato in quanto malandato: certe finezze sfuggono al nostro degrado mentale). L'on. Bossi non parla di colf, ma di serve (che non servono a casa sua, perché ha molti figli che aiutano la moglie).
Più sfumato come al solito l'on. Pierferdinando Casini: la sua è una «tata di fiducia». Come si addice al presidente della Camera. La «tata di sfiducia» l'hanno quelli dell'opposizione.
Pietro Corsi
La luna di Sanchini nel pozzo di Cerreto

Ritorna un piccolo classico del folklore romagnolo e della poesia dialettale. E' stato ristampato il libro di Vincenzo Sanchini «La pulenta t'è pèz», presentato domenica 19 maggio a Saludecio. Come recita il sottotitolo, si tratta di tradizioni di Cerreto, e delle loro legami con Saludecio, Mondaino, Montefiore e Morciano.Anche questa edizione reca l'introduzione di un noto studioso come il prof. Amedeo Montemaggi il quale nelle dieci righe dell'introduzione scrive che Sanchini «si riallaccia al grande e inesausto filone della eterna satira paesana, morale e didascalica».
Rispetto alla prima edizione, il volume ha una nuova e più lunga prefazione, a cura di Gabriele Bianchini che così conclude la sua paginetta: «Oggi è un tempo in cui le parole delle culture contadine, marinare e borghigiane tendono a scomparire ad opera di una globalizzazione che tutto travolge».Nei profili degli autori e collaboratori, andava forse detto che il bravo Sanchini non ha più 35 anni, come appare scritto, cioè l'età del suo debutto con queste poesie dialettali che lo hanno reso famoso nelle vallate e sul mare (dove vive, accampato nelle ore libere sul porto canale).
Questa nuova edizione è stata permessa dalla Provincia di Rimini, precisamente dall'Assessorato all'Agricoltura, il cui titolare Massimo Foschi ha scritto un'altra pagina introduttiva, partendo proprio dal titolo: «C'è chi nel pozzo, cerca la luna. I cerretani cercano la polenta simbolo di povertà ma anche di concretezza e semplicità, atavico alimento del lungo inverno, una forma assicurativa contro la fame».
Sono sempre interessanti ed utili queste iniziative editoriali, ma non sappiamo perché si debbano caricare di tanti interventi in cui alla fine all'autore resta lo spazio minore (Sacchini non scrive troppo, mira all'essenziale, o è felicemente pigro?).
Lena Vanzi
Amina Lawal Kurami, 35 anni,
contadina nigeriana condannata a morte per lapidazione

Amina Lawal Kurami, 35 anni, contadina nigeriana, il 22 marzo scorso è stata condannata a morte per lapidazione dalla corte islamica di Bakori, nello stato nigeriano di Katsina, uno dei dodici che hanno reintrodotto nel 2000 la sharia, la legge islamica. L'esecuzione della condanna è stato rinviato di otto mesi per consentire l'allattamento della figlia nata dal rapporto extra matrimoniale, causa del processo e della condanna.
Il sito di Amnesty International ( www.web.amnesty.org ) segnala vari casi di condanne secondo questa legge: non solo la condanna alla lapidazione per donne che abbiano avuto rapporti sessuali senza essere sposate o adultere, ma anche amputazioni, perfino a ragazzini di 15 anni.
La campagna internazionale che ha salvato il 25 marzo scorso Safiya Hussaini si è rimessa in moto per Amina. La donna, la più giovane di 13 figli, sposata due volte, la prima a 14 anni, ha tre figli. L'ultimo, una bambina, l'ha avuto da un uomo che le aveva promesso di sposarla, ma che, al processo, instaurato per l'evidenza del rapporto extra matrimoniale rappresentata dalla nascita della bambina, ha negato di essere stato lui ad aver rapporti con Amina, che non ha potuto avere la testimonianza favorevole di almeno quattro persone, come vuole la legge. Amina non ha avuto avvocati nel primo processo. Qualcosa ora sta cambiando. Il 5 aprile ha presentato appello, che sarà discusso il 15 maggio prossimo.
Occorre quindi un'azione urgentissima. La Nigeria non è un paese in cui un certo tipo di legislazione è visto con indifferenza. Anche al più alto livello, anche nel mondo osservante mussulmano, è stato espresso il più netto dissenso.
Potete seguire le indicazioni contenute nel sito di Amnesty: inviare al presidente e al ministro della giustizia nigeriani un appello alla soppressione della pena di morte e di punizioni crudeli, inumane e degradanti ad ogni livello.
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