il Rimino n. 77. Marzo 2002
Archivio 2016

Pensiero 'flessibile' per una civiltà del dialogo.
Ezio Raimondi: ogni parola ha una «dimensione pubblica»

EZIO RAIMONDI tenne nell'ottobre 1993 una serie di lezioni nel corso di un seminario di studi sulla retorica, organizzato dalla Biblioteca Comunale di Cattolica. Ora quei testi sono raccolti in un volume della casa editrice bolognese «il Mulino» («La retorica oggi»), che esce con la premessa di Marcello Di Bella, direttore a quel tempo della stessa Biblioteca di Cattolica, ed ora della Gambalunghiana riminese. In fondo al libro è riprodotta una lunga intervista di Benedetta Craveri a Raimondi, pubblicata (con qualche riduzione) su «la Repubblica» del 27 giugno 2000.
L'articolo prosegue qui.
A Carlo Azeglio Ciampi
Presidente, per favore, non firmi!

Signor Presidente della Repubblica,
Lei riceverà presto la legge sul conflitto d'interessi approvata dalla Camera dei Deputati e adesso all'esame del Senato della Repubblica. È stata definita "di comodo", "truffa", "burla". Probabilmente sono tutte definizioni appropriate. In pratica, è una legge che fotografa quello che c'è già, non regolamenta, non disciplina. E quello che c'è già è un "imbroglio di fatto" che anzitutto vìola – per l'insipienza del centrosinistra – la legge che impedisce l'eleggibilità in Parlamento di chi è concessionario di un servizio pubblico. Insomma, legalizza l'illegale. Con una postilla-beffa: costringe il Capo del Governo a cedere la Presidenza del Milan-calcio al figlio Piersilvio, così come l'iniquità di altre leggi lo hanno costretto a passare al fratello Paolo "il Giornale" e alla moglie Giuliano Ferrara con tutto il suo "Foglio". Come Lei ben capisce, Signor Presidente, comunque la si guardi è una legge che non corrisponde ai canoni della democrazia e neppure agli interessi di Berlusconi. Sarebbe quindi del tutto comprensibile se Lei non la controfirmasse, come la Costituzione Le chiede e come la Costituzione Le consente di non fare, confermando così agli italiani che "da lassù qualcuno ci guarda".
Con immutata stima Suo
Salvatore D'Agata
La mostra milanese del Neoclassicismo.
Un articolo di Isabella Amaduzzi


«…conviene educare il popolo ad avere per passione quello che sia utile alla società.. Costumi bisognano alle nazioni, non leggi. Le scienze e le arti che muovono per piacere gli animi umani alla verità sono più utili delle leggi, che forzano senza persuadere…»
Così Bernardo Tanucci si esprimeva intorno alla metà del Settecento. Le stesse parole potrebbero essere usate oggi per introdurre la mostra dedicata al Neoclassicismo in Italia, inaugurata lo scorso 2 marzo al Palazzo Reale di Milano e che resterà aperta fino al prossimo 28 luglio.
Il Neoclassicismo in Italia. Da Tiepolo a Canova, questo è il titolo della mostra curata da Fernando Mazzocca, si presenta fin da subito sotto una luce nuova, speciale, bella. Non è infatti frequente avere l'opportunità di vedere ambienti e capolavori – contenitore e contenuto – dialogare spontaneamente. Le quattrocento opere – sculture, quadri, arazzi, ma anche pezzi d'argenteria ed eleganti ceramiche – proveniente da oltre 150 musei e collezioni di tutto il mondo e scelte con passione dal curatore sono infatti esposte nelle sale neoclassiche del piano nobile di Palazzo Reale. Palazzo Reale viene così restituito all'incanto “dell'epoca che vide quella reggia fastoso teatro della vita di corte”.
L'opera di trasformazione dell'antico edificio in una superba reggia neoclassica, gli affreschi di Giuliano Traballesi, di Martin Knoller e di Angelo Monticelli, i motivi decorativi di Giocondo Albertolli, i pannelli ornamentali di Giuseppe Levati e del giovane Andrea Appiani come anche i mobili di Giuseppe Maggiolini fanno contemporaneamente da cornice e da protagonisti a questa mostra che si presenta strutturata in due nuclei principali: il primo è dedicato alla rivisitazione dell'antico operato da artisti, filosofi secondo una sensibilità nuova del gusto nei vari generi della pittura, nella scultura e nelle arti decorative mentre il secondo è un viaggio nelle principali corti illuminate italiane che furono per tutta la seconda metà del Settecento centri di promozione delle arti e delle manifatture. Il percorso si chiude nella Sala della Cariatidi, ferita per sempre dai bombardamenti del 1943, ma sempre stellante, dove sono esposte alcune opere di Antonio Canova, colui che seppe dar vita, respiro e palpiti alla bellezza perduta del mondo greco. Un omaggio nella sala più importante, ancora oggi la più bella del palazzo, a colui che seppe render attuali non solo le splendide statue ma anche gli ideali di vita che questa civiltà del passato poteva ancora trasmettere.
Nella penisola italiana gli anni che vanno dal 1748 (Pace di Aquisgrana) al 1800 (Vittoria di Napoleone a Marengo) sono anni di pace; il più lungo periodo di pace fino ad allora verificatosi. In quegli anni si diffonde nelle arti, nella filosofia e nel costume un nuovo gusto quello neoclassico. Artisti e viaggiatori visitano l'Italia per studiare i grandi maestri del Cinquecento e del Seicento come Raffaello, Guido Reni e Domenichino e per ammirare le antichità romane, greche ed etrusche.
Ma non solo. Le bellezze della natura mediterranea, le spettacolari eruzioni del Vesuvio come le coste sbattute dal vento e dalle tempeste diventano soggetti di molte tele che ebbero grandissimo successo presso aristocratici viaggiatori che le acquistavano come preziosi ricordi del Grand Tour compiuto in Italia.
Il mondo antico diventa presto un modello da imitare. “C'è solo un modo per noi di diventare grandi (…) ed è l'imitazione degli antichi” scriveva all'epoca Winckelmann. Artisti ma anche uomini di cultura interessati a riformare la società guardano all'antico; episodi epici, leggende del passato, esempi di virtù, eroismo e patriottismo diventano i temi della grande pittura di storia. Contemporaneamente si assiste all'emancipazione dell'artista che non è più un artigiano, ma uno studioso che dialoga con poeti, scienziati e filosofi e che segue i progressi della scienza e della tecnica. Luoghi di incontro, studio e scambio sono le nuove accademie d'arte fondate nelle principali città d'Italia (Milano, Roma, Firenze, Torino e Napoli) ma anche l'Arcadia dove artisti dotati di capacità letterarie e poetiche si riunivano con i letterati per promuovere il buon gusto nella poesia e nelle arti.
In uno dei più sfarzosi e organici complessi monumentali dell'arte neoclassica inizia poi il viaggio nelle più importanti corti italiane, centri di promozione delle arti e della manifatture. Opere di Mengs, Hackert, della Kaufmann, di Valadier e di Maggiolini – solo per citarne alcuni – tracciano un quadro vivo della vita e del gusto nelle corti di Torino, Milano, Napoli, Firenze e Parma dove appunto “…Le scienze e le arti che muovono per piacere gli animi umani alla verità sono più utili delle leggi, che forzano senza persuadere…”.
E direi che non è cosa da poco.
Isabella Amaduzzi
Critica d'Arte e studiosa d'Estetica
Milano, 10 marzo 2002
Amaduzzi, tra i big del 1700
Alla mostra di Milano sul Neoclassicismo


A Milano, a Palazzo Reale, fino al 28 luglio si svolge una mostra di grande valore ed interesse, dedicata al Neoclassicismo. Ne parliamo perché c'è un piccolo ma molto significativo richiamo alla nostra realtà locale. Infatti il catalogo dell'esposizione dedica un ricordo anche a Giovanni Cristofano Amaduzzi.
Nel saggio «Il rapporto dell'arte con il mondo delle lettere», Liliano Barroero e Stefano Susinno parlano dell'attività dell'Arcadia romana, alla quale appartenne pure Amaduzzi, e della questione dello scioglimento della Compagnia di Gesù, decretato dal santarcangiolese papa Ganganelli. Sul fronte filogiansenista, scrivono i due studiosi, troviamo «personaggi quali Voltaire e Algarotti, Amaduzzi e De Rossi», eccetera. Amaduzzi è comunemente considerato il suggeritore del provvedimento di Clemente XIV. (E questo fatto gli procurerà parecchi guai negli ultimi anni della sua vita.)
A dare avvio al Neoclassicismo furono Anton Raphael Mengs e Johann Joachim Winckelmann, con i quali Amaduzzi ebbe continui e stretti rapporti. Winckelmann fu conosciuto a Roma anche da Giovanni Bianchi, che era stato maestro di Amaduzzi a Rimini per sette anni, a partire dal 1755.
Con uno scritto apparso sulle «Novelle letterarie» di Firenze, Amaduzzi ricordò l'incontro che lui, Bianchi ed un altro riminese, Epifanio Brunelli, ebbero con Winckelmann nel 1766. Epifanio Brunelli accompagnava Bianchi in un tour che ebbe come tappe Loreto, Assisi, Perugia, Todi, Roma, Napoli, Siena, Firenze e Bologna. Winckelman era allora al servizio del cardinale Alessandro Albani, nel cui palazzo «alle 4 Fontane», Bianchi spesso lo incontrava.
Lena Vanzi
Fossoli, il silenzio sulla strage
Vi morirono Rino Molari, Walter Ghelfi e Edo Bertaccini


Sessantotto prigionieri italiani del lager di Fossoli sono uccisi al poligono di tiro di Cibeno (Carpi). Tra loro ci sono Edo Bertaccini di Coriano (frazione di Forlì), capitano dell'ottava brigata Garibaldi, un ferroviere di Rimini, Walter Ghelfi, ed il santarcangiolese Rino Molari, professore di scuola media. Sulla drammatica vicenda ritorna un libro appena uscito presso Mondadori, «Le stragi nascoste» di Mimmo Franzinelli, dedicato al tema precisato nel sottotitolo: «L'armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti, 1943-2001».
11 luglio 1944, vigilia dell'eccidio: alle ore 19 il vicecomandante del lager Hans Haage, chiama «i nomi delle persone che l'indomani sarebbero partite ‘per il nord'; la modalità dell'appello, nominativo invece che numerico, indicava che qualcosa di straordinario stava per accadere». I repubblichini hanno piazzato una mitragliatrice che domina la piazza dell'appello. Questo comprova, scrive Franzinelli, la «compartecipazione dei fascisti alla preparazione dell'eccidio». Otto prigionieri ebrei sono stati intanto portati al poligono di Cibeno, distante circa tre chilometri, per scavare una fossa: è larga dieci per cinque metri, profonda un metro e mezzo.
L'indagine di Franzinelli ricostruisce quanto accaduto in Italia del dopoguerra a proposito degli eccidi come questo di Fossoli. Per mezzo secolo, scrive, la magistratura militare ha negato giustizia; soltanto dal 1994 si sono avviate istruttorie «seguite al tardivo invio dei fascicoli processuali alle procure militari territoriali». In un armadio di legno con le ante appoggiate contro una parete (l'«armadio della vergogna» del sottotitolo), 695 fascicoli sui crimini nazisti (che provocarono dai 10 ai 15 mila morti), furono occultati a Roma presso la procura generale militare, in uno stanzino inaccessibile, a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta.
Il fascicolo di Fossoli reca il n. 2 (apre la serie quello sulle Fosse Ardeatine). Come per gli altri, nel 1960 fu decretata la sua «archiviazione provvisoria», durata fino al 1994, quando tutti i documenti furono rinvenuti casualmente nel corso di indagini su Erich Priebke, dal procuratore militare del Tribunale militare di Roma, Antonino Intelisano. Il Consiglio della magistratura militare definì illegale l'occultamento dei 695 fascicoli, con una relazione approvata di misura il 23 marzo 1999: fu «una votazione che spaccò in due il Consiglio», osserva Franzinelli.
Per la vicenda di Fossoli, il gip militare della Spezia, il 10 novembre 1999, decretò l'archiviazione del procedimento nei confronti di Hans Haage (deceduto), Karl Friedrich Titho (per insufficienza di prove per sostenere l'accusa), e di altri indagati «per essere gli stessi rimasti ignoti non essendo stata possibile la loro esatta identificazione». Il tenente Titho comandava il lager, ma «il vero padrone di Fossoli», scrive Franzinelli, era Haage, sergente maggiore, descritto da un recluso come un nazista fanatico.
Sulle responsabilità dell'eccidio, la sentenza del 1999 dice che essa «è da ricondurre al Comando supremo» tedesco, «nella persona, allo stato, di soggetti ignoti». A Titho, l'ordine ricevuto poté sembrare non illegittimo «proprio perché inserito in una organizzazione dalla disciplina particolarmente rigida e severa, nella quale l'obbedienza era cieca ed assoluta».
Contro Titho ed Haage, un ordine di cattura era stato emesso nel 1954 dal Tribunale militare di Bologna. La successiva richiesta di estradizione per Titho fu bloccata dal ministro degli Esteri Gaetano Martino e dal Tribunale supremo militare, con la motivazione che i fatti a lui attribuiti apparivano di «carattere politico». La posizione fu condivisa dal ministro dell'Interno, Paolo Emilio Taviani.
L'interprete di Fossoli, Karl Gutweniger, lavorò anche a Bolzano. Arrestato dagli americani, fu rinchiuso nel campo di concentramento di Rimini da dove fuggì nel luglio 1946. Fu condannato il 13 dicembre dello stesso anno, in contumacia, dalla Corte d'assise straordinaria di Bolzano a 12 anni per collaborazionismo: «egli beneficiò di cinque anni di condono e scontò solo tre anni di libertà vigilata».
Franzinelli, a proposito «di sopraffazioni e di violenze gratuite da parte» tedesca contro la popolazione italiana, riporta un memoriale dell'ex segretario del fascio di Riccione: «per carità di Patria», questi scrisse, doveva rimanere ignorato un episodio di violenza usata da soldati germanici a donne «ed anche alle giovinette», nell'imminenza dell'abbandono delle postazioni difensive.
Tra le «stragi nascoste», Franzinelli elenca pure quella di Fragheto, agosto 1944: 80 persone fucilate, 30 case distrutte; i 17 giovani fucilati a Cesena per inadempienza del servizio militare; i 33 italiani fucilati a Galeata. A Fossoli passò anche lo scrittore Primo Levi («Io so cosa vuol dire non tornare. / A traverso il filo spinato / Ho visto il sole scendere e morire; / Ho sentito lacerarmi la carne /Le parole del vecchio poeta:/ “Possono i soli cadere e tornare: / A noi, quando la breve luce è spenta, / Una notte infinita è da dormire”»).
Riuscì invece a non arrivarci un altro riminese, Giuseppe Babbi, arrestato il 18 marzo 1944 dai fascisti italiani in territorio neutrale, a San Marino, e trasferito al carcere di Bologna: qui incontra Ghelfi e Molari. Della sua vicenda s'interessò la diplomazia alleata che riuscì a salvargli la vita.
Walter Ghelfi, che aveva raggiunto l'Ottava brigata Garibaldi sull'Appennino tosco-emiliano, fu carcerato, torturato e ridotto in misere condizioni fisiche, ma «non tradì i suoi compagni in arme». Rino Molari insegnò lettere nell'anno scolastico 1943-44 a Riccione, dove fece amicizia con don Giovanni Montali, suo compaesano. Trasportò materiale clandestino. Una spia della Repubblica di Salò lo fece arrestare il 28 aprile 1944.
Tonino Guerra in quell'anno cerca di applicare la lezione appresa da Rino Molari. Ricevuti in consegna dei manifestini lasciati proprio da Molari (nel frattempo ucciso) ad un fabbro, Guerra è fermato da un fascista del suo paese, portato poi a Forlì, quindi a Fossoli («e sono stato nella stessa baracca dove era stato Rino Molari quattro o cinque giorni prima, la numero 19»), infine in prigionia in Germania per un anno.
Antonio Montanari

Per altre notizie, vedi «I giorni dell'ira»,
VIII. L'arresto di Giuseppe Babbi.
Tutto il volume de «I giorni dell'ira», si legge qui.
Gli articoli con le stesso titolo, apparsi su "il Ponte" nel 1989, si leggono qui.

La storia del campo: dalle SS a Nomadelfia
A Fossoli, nelle vicinanze di Carpi, in provincia di Modena, nel maggio 1942 è insediato il campo di concentramento fascista per prigionieri di guerra “n. 73", gestito dalle autorità militari italiane e destinato all'internamento di sottufficiali inglesi catturati in Nord Africa. L'8 settembre 1943 il Campo viene occupato dai nazisti, attratti dalla posizione geografica che rende la zona un comodo snodo ferroviario. Dal dicembre dello stesso anno funziona come "Campo di concentramento provinciale per ebrei", sotto la gestione della Prefettura di Modena. Sul finire del gennaio 1944 le autorità tedesche avocano a sé la giurisdizione del campo che diventa campo poliziesco di transito per deportati politici e razziali, rastrellati in varie parti d'Italia. Ha così inizio una serie di trasferimenti: dalla stazione ferroviaria di Carpi partono 7 convogli destinati ai più tragici lager del Nord Europa.
Accanto al Campo Vecchio amministrato dalle Prefettura di Modena e gestito da italiani con prigionieri che non venivano deportati; c'era il Campo Nuovo gestito dalle SS tedesche del tenente Karl Titho e del sergente maggiore Hans Hage, con prigionieri ebrei e politici destinati alla deportazione.
Il campo di Fossoli rimase in attività per circa sette mesi, durante i quali vi passano circa 5.000 deportati di cui la metà ebrei: un terzo dei deportati ebrei dal nostro Paese. Il primo grande trasporto, composto quasi tutto di ebrei, è quello segnalato da Primo Levi, che partì da Fossoli il 22 gennaio 1944. Dopo la fine della guerra, il Campo è utilizzato lungamente a scopo abitativo: dal 1947 al 1952 è occupato dalla comunità cattolica di Nomadelfia (che significa dal greco: “Dove la fraternità è legge"), e dal 1953 alla fine degli anni '60 dai profughi giuliani e dalmati (Villaggio San Marco).
A Fossoli avvennero alcuni gravissimi delitti ad opera delle SS, il più grave dei quali è la fucilazione di 68 deportati, partigiani e antifascisti, il 12 luglio 1944. Sull'episodio, ecco la testimonianza di Alba Valech Capozzi (deportata da Fossoli a Birkenau, e liberata dagli Alleati a Dachau il 1° maggio 1945), tratta dal suo volume "A.24029":
«Quel giorno lavorammo preoccupate. Neppure a mezzogiorno i venti ebrei erano rientrati. Nelle baracche regnava un gran nervosismo. Si facevano i commenti più disparati. Tutti eravamo inquieti. Non tornarono neppure la sera, quando ci adunammo sullo spiazzo per il controllo. Pensammo li avessero ammazzati. Eravamo tutti in fila, ma regnava un'atmosfera pesante e perfino il maresciallo Hans aveva il viso oscuro. Anche a mensa io avevo notato qualcosa di strano. Un parlottare serio e serrato fra i tedeschi e delle animate discussioni. Io non avevo compreso nulla di quello che si diceva, ma avevo collegato quelle discussioni con l'assenza dei venti ebrei. Avevo provato a chiedere di loro, ma avevano risposto solo con grida e con pugni sui tavoli. Non avevo insistito ed appena terminato il lavoro ero corsa subito al campo.
Scuro in viso Hans terminò il controllo, poi si portò in mezzo allo spiazzo e disse: "Quelli che ora chiamo, prenderanno la loro roba ed andranno a dormire in un'altra baracca. Domattina partiranno per la Germania ed andranno in un campo di lavoro dove staranno molto bene". Cominciò l'appello. Erano settanta. (…) I settanta si erano frattanto riuniti, con tutta la loro roba. Vidi Fritz, l'interprete, parlare animatamente con loro, mentre si avviavano verso la baracca. I venti ebrei non erano ancora rientrati. Uno ad uno quei settanta vennero poi a salutarci tutti, e quella notte al campo, si fu più preoccupati per i venti ebrei che per quei settanta politici. La mattina seguente, andando in cucina, vidi che gli ebrei erano rientrati al campo. Stavano in gruppo fra la cucina e la mensa. Erano tutti pallidi.
"Signor Vita, signor Vita, - chiamai, rivolgendomi ad uno di loro, - ma dove siete stati? Qui al campo eravamo tutti in pensiero". Il Vita non rispose. Scosse solo la testa con aria desolata. "Alba, Alba, venga qua", gridò il cuoco. Un tedesco si avvicinava. Erano circa le otto. Presi il bricco del caffelatte e mi avviai alla mensa. Uno dei tedeschi aveva un braccio fasciato.
"Capùt, capùt", dissi indicandogli il braccio. Intendevo chiedere se si fosse fatto male; nella speranza di attaccare discorso e saper qualcosa. Mi guardò meravigliato ed accennando di sì con la testa, rispose: "Molto, molto capùt". Uscii impressionata dalla mensa. Vidi i muratori che venivano al campo per lavorare. Anche loro avevano delle facce strane. "Che è accaduto?" chiesi ad uno di loro. "Li hanno ammazzati tutti, ma stia zitta, per carità", mi sussurrò.”
Fonti:
www.deportati.it/campi/fossoli
www.fondazionefossoli.org
www.itc-belotti.org
www.nomadelfia.it
www.comune.modena.it
In Pakistan è stato ucciso Daniel Pearl, giornalista americano, con un’esecuzione terribile: prima di morire sgozzato è stato costretto ad «autodenunciarsi» come «ebreo e figlio di padre ebreo». Ha commentato Fiamma Nirenstein su La Stampa: «Non di essere americano, altro grande crimine, ha dovuto dichiarare, ma di essere ebreo, una grande colpa con molti secoli di tradizione». Fiamma Nirenstein ha aggiunto che il doversi accusare di appartenere ad una religione, «è un fenomeno nuovo e che è urgente denunciare a piena voce e bloccare».
Un odio antisemita percorre scuole, giornali e televisioni del mondo islamico. Paolo Mieli sul Corriere della Sera, riprendendo un articolo di Rodolfo Casadei apparso su Tempi, ha riferito che si leggono cose impressionanti a proposito degli ebrei nel mondo arabo e musulmano.
La domanda è: quale legame esiste in tutto ciò con l’11 settembre? All’inizio dell’attacco al terrorismo, gli Usa avevano promesso una soluzione della questione palestinese. La situazione si è invece aggravata. Ci si scambiano colpi, aumentano gli odi nutriti dai gruppi più intransigenti. E’ cronaca tragicamente quotidiana.
Più leggera, ma ugualmente inquietante sotto il profilo politico, è la notizia relativa a David Frum che aveva coniato per la presidenza americana uno slogan con cui indicare quei Paesi, come Iraq, Iran e Corea del Nord, che sono considerati una minaccia alla pace, cioè «l’asse del male». E’ una notizia ambigua: David Frum è stato licenziato dalla Casa Bianca, ma non si capisce bene se per aver calcato troppo la mano con quello slogan, oppure se per colpa della moglie, una scrittrice nata nel mondo dell’economia quale figlia del proprietario del Toronto Star, Danielle Crittinden: sarebbe stata lei a far infuriare Bush, rivelando che la geniale trovata dell’«asse del male» era del marito e non del presidente. Il quale aveva usato lo slogan al Congresso, ma non l’aveva proposto durante il suo viaggio in Asia.
Il risvolto che rende degna di attenzione la vicenda di David Frum, è l’essere legata a quel sistema di informazione ufficiale che racconta ciò che vuole ed ammaestra i cittadini come desidera. Un’informazione che non scandalizza se realizzata dalle dittature, ma che pone problemi se essa è attuata nelle società democratiche, dove il diritto alla conoscenza dei fatti è fondamentale, e dove il «quarto potere» della stampa dovrebbe essere lasciato nelle condizioni di controllare quanto viene detto, e ciò non a scopi scandalistici, ma proprio per la tutela della stessa democrazia.
A proposito di questo aspetto, segnalo un lungo ed interessante articolo apparso sul supplemento economico del Corriere della Sera (25 febbraio), intitolato «Quando i mass media non sono liberi». Vi si riferisce di un saggio pubblicato da due docenti della London School of Economics, Tim Besley e Andrea Prat. Ne riporto solo alcune parole: «La loro idea è semplice. In mancanza delle informazioni ottenibili dai mass media (giornali, radio, televisione), per gli elettori è difficile giudicare se l’esecutivo in carica (identificato ad esempio dal primo ministro) abbia governato il Paese in maniera efficiente».
Veniamo a notizie di casa nostra, restando in tema di terrorismo. Lunedì 25 febbraio, la vignetta di Giannelli sul Corriere della Sera rappresentava un fumetto dal titolo «Castelli in aria». Dentro il fumetto una foto formato polaroid, come quella drammatica di Aldo Moro con, sullo sfondo, lo striscione delle brigate rosse. Senonché, al posto di Moro, Giannelli ha raffigurato Silvio Berlusconi. La vignetta era collegata alle dichiarazioni del ministro della Giustizia Roberto Castelli il quale aveva lanciato l’allarme per possibili attentati: «Ora si annunciano episodi di violenza. Come nel ’68 quando prima si gridavano slogan contro il governo e poi qualcuno passò dalle parole ai fatti».
Gli slogan a cui faceva riferimento Castelli erano quelli risuonati da Roma a Firenze, a Milano, in varie manifestazioni del cosiddetto centro-sinistra, dove gli attacchi maggiori erano stati indirizzati proprio ai rappresentati di quei partiti che oggi sono in minoranza. Le sberle più forti se le sono prese Rutelli, Fassino, D’Alema. Lo stesso Fassino, nei giornali di lunedì 25, appariva assai aspro verso la minoranza dei Ds, che userebbe appunto queste manifestazioni per attaccare il suo ruolo di segretario di partito. La sera del 25, addirittura, a Firenze si è tenuto quello che i giornali del giorno dopo hanno definito un processo a D’Alema, intentatogli da alcuni professori che ora bocciano l’ex allievo della Normale di Pisa non tanto per essersi fermato (da giovane) prima della laurea, quanto per aver (da uomo maturo e vaccinato) fornito con la Bicamerale ossigeno a Berlusconi. Quel 25 sera D’Alema ha giurato che in Italia non c’è un regime come alcuni suoi accesi compagni di strada sostengono esistere, ma semplicemente una legittima situazione in cui la destra è in maggioranza.
La mattina dopo, mentre viaggiavano verso le edicole i quotidiani con i resoconti dei fischi tributati a D’Alema, ecco la bomba che esplode sotto un Viminale (sede del ministero degli Interni) che pareva abbandonato a se stesso, nonostante le misure antiterrorismo presentate in pompa magna all’opinione pubblica vari mesi fa. Forse la facilità con cui simili episodi possono accadere dovrebbe far più notizia che non quella dello stesso attentato, fortunatamente (o scientemente) di scarso effetto. Il quotidiano della famiglia Berlusconi, Il Giornale, il 27 febbraio intitolava «Scoppia la bomba, tutti giù per terra», alludendo al «popolo del girotondo», così come sono stati chiamati alcuni dei manifestanti di questi giorni. Intanto, la formula dei «girotondini» è diventata un tormentone di Emilio Fede nel TG4, per ridicolizzare quelli che molti dei suoi compagni di strada chiamano i comunisti, intendendo con questa definizione alludere ai componenti del centro-sinistra.
Un ritratto molto rispondente al vero della situazione politica e dell’informazione in cui si trova il nostro Paese lo ha delineato, a mio debol parere, la penna satirica di Massimo Gramellini nel suo «Buongiorno» della Stampa, il 26 febbraio: in Italia abbiamo «una destra padrona e una sinistra padrina, entrambe prive di senso del ridicolo e dello Stato».
Antonio Montanari
Non basta la parola.
L' Espressa

Il nuovo direttore del settimanale L'Espresso è Daniela Hamaui. C'è chi la chiama anche direttrice, persino direttora, come pretendequalche sua omologa collega. L'Espresso diventerà l'Espressa?
Ci risiamo con l'irrisolto problema delle professioni. Attenzione, la signora vigile che vi ferma non è una vigilessa, può essere una poliziotta,od una donna carabiniere (in Romagna la carabiniera è invece lamoglie dal bel caratterino). Avvocata o avvocatessa? Senza dubbio la primaforma: l'avvocatessa sembra un po' cugina della carabiniera. Anticamente(parlo sempre per me) l'ambasciatrice era la moglie dell'ambasciatore,la signora ambasciatore c'è stata a volte (e come si saràchiamato il marito?).
A "Primapagina" di Radiotre un ascoltatore ha deliziatole mie orecchie, riproponendo un discorso che facevo sempre a scuola: l'italianoè orfano del neutro, che invece c'era (c'è) in latino. Ormai la situazione è storicamente determinata. Il neutro non si comprané al supermercato né in ditta.
Resta il problema del politicamentecorretto (come negli annunci di offerte di lavoro, che recano, per leggecredo, l'avviso: «per entrambi i sessi»).

Il discorso non è da poco. La frizzante Maria Laura Rodotà (La Stampa, 20 febbraio, «Gentil sesso messo da parte dal linguaggio») ha perorato la causa della parola persona, al posto di uomo (come terminecomprensivo di uomini e donne), in una nota come al solito gustosa che,se letta male, si vede trasudare femminismo d'altri tempi: invece rispecchiasic et simpliciter una condizione ben ritratta dalla chiusa. Si dice comunementeche «ci sono gli uomini» o «mancano gli uomini».
Commento di MLR: «E anche se mancano, per loro son soddisfazioni».
[a. m.]
Einstein, un liceo «possibile»
Un libro per i 30 anni della scuola
Per i trent'anni d'attività del liceo riminese intitolato ad Albert Einstein, compiutisi nell'anno 2000, è stato di recente curato un interessante volume, con prefazione di Francesca Sanvitale, introduzione del compianto Alberto Melucci ed a cura di Anna Maria Torri.
Lo scopo del libro è delineato dall'attuale preside, Giuseppe Prosperi, che, dopo aver ricordato i suoi predecessori (Ferruccio Ferrari, Francesco Pedri, Armando Contro, e Serena Bonini), osserva: abbiamo voluto «testimoniare a tutti, non solo agli addetti o agli ex studenti ed insegnanti, alcune delle esperienze e delle parole, alcune fra le infinite, che hanno lasciato un piccolo o un grande segno in chi le ha vissute, quelle esperienze, o in chi le ha pronunciate, quelle parole».
Nulla di più importante nella formazione individuale, checché se ne dica, esiste dell'esperienza scolastica. Sia per chi siede in cattedra, sia per chi ci passa alcuni anni della propria vita seduto sui banchi. Questo libro già dal titolo («Una scuola possibile») offre la descrizione di itinerari intellettuali e psicologici, in cui la somma dei singoli fattori (di studenti e docenti) determina un risultato che è il trasformarsi (l'evolversi?) della società, il mutamento: trent'anni sono in fin dei conti il tempo di due generazioni.
L'Einstein nasce a ridosso dei momenti caldissimi della contestazione, quando le acque erano ancora turbolente. Scrive Luciano Lagazzi: «Ciò che colpisce nei verbali dei collegi dei docenti dell'Einstein dei primi anni Settanta è la conflittualità delle riunioni, appena mitigata, per il lettore di oggi, dal sorrisino che strappa un politichese ormai desueto e che non ci si aspetterebbe così vivo in un'assemblea di professori». (E' un discorso su cui si potrebbe ritornare...)
La parte più consistente del volume è dedicata alle esperienze culturali del liceo, dove si riportano le «conversazioni con gli scrittori», introdotte da Anna Maria Torri («E' importante che ci siano delle occasioni in cui gli studenti siano liberi di ‘incontrare' i testi, che le loro opinioni, le loro reazioni, magari ingenue, siano considerate ‘legittime', da insegnanti che si collocano sullo ‘sfondo' e accettano cornici interpretative altre, pur avendo loro stessi suggerito e negoziato certe letture»). Ed ecco, dunque, Lalla Romano, Fulvio Tomizza, Raffaello Baldini, Eraldo Affinati, Dacia Maraini, Sebastiano Vassalli, Daniele Del Giudice, Tonino Guerra, Piero Meldini, Mario Rigoni Stern, Jacqueline Risset, Francesca Sanvitale: ne nasce un'antologia utile per chiunque, una stimolante raccolta di interviste pubbliche.
Infine, una nutrita sezione di esperienze e ricordi, come il viaggio di un insegnante di Religione, Francesco Cavalli, in Albania per fare un campo di lavoro con alcuni suoi studenti che qui ne ricordano la realizzazione. Od il saluto-testimonianza che manda Paolo Parini, studente del liceo dal 1978 al 1983, ed ora medico ricercatore presso il prestigioso Karolinska Institute di Huddinge, Svezia: dove, giungendo a ventisette anni, si rese conto come il tempo trascorso all'Einstein non gli aveva dato soltanto le nozioni fondamentali per gli studi universitari, ma fosse stato pure «una scuola di vita dove poter crescere e maturare». Anche questo può fare la (tanto vilipesa) scuola italiana.
Antonio Montanari
Il Santuario della Madonna delle Grazie
Un libro di p. G. Montorsi e di P. G. Pasini

Ai piedi del Colle del Paradiso, il santuario di Santa Maria delle Grazie domina dal Covignano la città. Il suo primo, umile nucleo risale al 1290. Cento anni dopo, nel 1394, papa Bonifacio IX approvò la fabbrica della chiesa che lungo i secoli ha subìto significativi interventi, l'ultimo dei quali può essere considerato il lavoro di restauro compiuto recentemente. Alla storia del sacro edificio ed a tutto quanto è accaduto nell'arco di tempo che ci separa dalla sua nascita, padre Giambattista Montorsi e Pier Giorgio Pasini hanno dedicato un pregevole studio, stampato dall'editore Pazzini per conto della ditta Valentini di Rimini.
Alla Madonna delle Grazie i riminesi si sono dimostrati sempre particolarmente devoti, con un sentimento che si è trasmesso di generazione in generazione. Dal Covignano lo sguardo della Vergine abbraccia la distesa della città. Proprio sotto il colle scorre, noiosa come il trapano di un dentista, l'autostrada che, giustamente, quarant'anni fa, Luigi Pasquini, inascoltato, proponeva di spostare dietro al Covignano.
Come fosse in antico l'immagine della città, lo sappiamo dalla nota formella del Tempio Malatestiano, nella quale Agostino Di Duccio ha 'ritratto' Rimini sotto il segno zodiacale del Cancro: «Lo scultore», osserva Pasini, «ha considerato il colle come una parte integrante ed un elemento caratterizzante della sua veduta. Giustamente».
Il bassorilievo è del 1454 circa, cioè trent'anni dopo che nella chiesa delle Grazie è stata collocata la nuova immagine della Madonna, dipinta da Ottaviano Nelli, e datata appunto attorno al 1425. I lavori approvati da Bonifacio IX nel 1394 furono ultimati nel 1396, mentre è di due anni posteriore il soffitto della chiesa. La quale allora aveva un'unica navata, corrispondente all'attuale destra.
La cronologia lasciata da padre Giovanardi (appassionato studioso delle carte d'archivio), è l'unica testimonianza sopravvissuta alla furia dell'ultima guerra, che distrusse i manoscritti conservati nel convento delle Grazie. Di quei testi antichi, le pagine di padre Gregorio Giovanardi sono una sintesi che rende possibile ricostruire la vicenda del santuario.
Padre Giovanardi ricorda che il primo ottobre 1430 la piccola chiesa fu consacrata dal vescovo di Rimini, l'agostiniano Girolamo Savio Leonardi, e dal suo collega del Montefeltro, Giovanni Secchiani, dei frati Minori. Una cronaca bolognese del 1580 ricorda l'evento, precisano che nel 1430 erano signori di Rimini i fratelli Galeotto Roberto, Sigismondo Pandolfo e Domenico Malatesti. (Lo erano diventati nel settembre dell'anno precedente, alla morte dello zio Carlo Malatesti: i tre erano figli naturali di Pandolfo III.)
Galeotto Roberto era un terziario francescano; fu principe mite e amante della cultura, poco adatto alle attività politiche. Dopo la sua morte (1432), la fama popolare lo beatificò, senza alcun riconoscimento ufficiale. La storia vuole che anche Roberto abbia concorso alle spese per la chiesa delle Grazie. Così come dimostra che, secondo quanto precisa Pasini, i signori di Rimini «avevano favorito e anzi fortemente voluto gli insediamenti religiosi sul colle: certo per 'spirito di devozione'; ma soprattutto, possiamo fondatamente sospettare, per impedire a rivali presenti e futuri di impadronirsi di un luogo strategicamente importante per il dominio della città. Già nel 1424, Carlo Malatesti aveva donato ai Francescani (che nel 1396 erano stati autorizzati a prender possesso della chiesa) sedici tornature».
Nel 1439 fu dipinto il Crocifisso su tavola, un tempo erroneamente attribuito alla Scuola riminese del Trecento, come osserva Pasini. Occorre saltare più di un secolo per vedere realizzato (1569) il presbiterio attuale. Negli anni immediatamente successivi i frati ricevono varie donazioni per edificare alcune cappelle, mentre la facciata attuale risale al 1580. Nel 1598 papa Clemente VIII transita dal Covignano, mentre è in viaggio per Ferrara: definisce «Paradiso terrestre» il nostro colle, dandogli un marchio di qualità tramandato felicemente ai posteri, e rimasto oggi per indicare la sua parte superiore, dove sorge Santa Maria di Scolca (attuale parrocchia di San Fortunato).
Nel ripercorrere le tappe della storia della chiesa, Pasini delinea alcuni elementi che riguardano la cultura religiosa e la spiritualità vissuta nel sacro edificio: «Si ha la sensazione che i Francescani giunti alle Grazie non apprezzassero particolarmente la troppo generica e forse troppo popolare devozione che circondava la preesistente immagine mariana e cercassero di indirizzare i fedeli verso un motivo più centrale della fede, più fondante ed essenziale. Nell'introduzione replicata di immagini del Crocifisso [...] si può individuare un tentativo di spostare l'attenzione verso la Croce e la Passione di Gesù, motivi caratteristici della spiritualità francescana».
Ma l'operazione non riuscì, prosegue Pasini, «o meglio riuscì parzialmente: la primitiva generica Madonna (il cui simulacro, tra l'altro poteva forse essere considerato rozzo o comunque arcaico) fu a poco a poco dimenticata, ma non sostituita dalla devozione per la Croce o per il Crocifisso, bensì per un'altra Madonna: quella dell'Annunciazione».
La «primitiva generica Madonna» è quella legata alla nascita dell'antica cappella del 1290, a sua volta collegata alla leggenda secondo cui nel 1286 un pastore (chiamato Rustico) formò da un tronco d'albero del Covignano un'immagine della Vergine, trasportata miracolosamente sino a Venezia dalle acque. A Venezia ancora oggi la si venera con il titolo di «Madonna di Rimini, o delle Grazie», nella chiesa di San Marziale.
L'osservazione di Pasini c'introduce al capitolo di padre Montorsi sulla «Catechesi al santuario», dove tutti i particolari artistici sono esaminati come espressioni di quelle intenzioni divulgative da «Bibbia dei poveri» che avevano un tempo le pitture le quali, quindi, oltre ad abbellire, servivano (soprattuto) per indottrinare i fedeli.
La scena dell'Annunciazione si ripete nella facciata trecentesca, nel quadro centrale di Ottaviano Nelli, negli affreschi che circondano l'arco, nel paliotto della prima cappella entrando, e nel cartiglio posto al centro del presbiterio. Al proposito, padre Montorsi osserva che il santuario potrebbe essere chiamato «dell'Incarnazione», perché l'Annunciazione ricorda appunto il mistero dell'Incarnazione: l'annuncio dato a Maria è l'annuncio di Cristo. «Non possiamo dimenticare», aggiunge padre Montorsi, che siamo in una chiesa francescana e per i francescani l'incarnazione non è solo voluta per la redenzione dell'uomo, come abitualmente si ritiene, ma soprattutto per la gloria di Dio e per il coronamento della creazione».
Gli affreschi del presbiterio illustrano la nascita di Maria, la sua presentazione al Tempio, la sua morte, assunzione al Cielo e glorificazione, e la presentazione di Gesù al Tempio. Gli affreschi accanto all'arco trionfale ricordano che Maria «è la mediatrice tra noi e Dio: a nome nostro eleva le mani a Dio [...], a nome di Dio ci accoglie maternamente sotto il suo lungo manto». Infine, gli affreschi della parete di sinistra ammoniscono a non offendere Maria, ad amarla per essere premiati, a pregarla per essere esauditi.
Tralasciamo altri particolari, per giungere alla conclusione di padre Montorsi: «Maria nella vita della Chiesa e nella nostra esperienza è quindi presente come Madre vigile ed amorosa, e con la sua assunzione e glorificazione ricorda la meta radiosa che ci attende».
Antonio Montanari

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