il Rimino n. 70. Agosto 2001
Quando leggevamo Montanelli e Bo. Memorie riminesi.
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Sogni (di carta) alla fine degli anni '50

Quando leggevamo Montanelli e Bo

Nel penultimo anno delle Magistrali, avevo un compagno molto intelligente e ribelle (avrebbe poi fatto il politico). Anziché soffocare in aula nei caldi pomeriggi primaverili di quel 1959, a cui ci obbligavano i doppi turni, lui faceva puffi frequentando il bar Diana, lungo via IV Novembre, il tempio dei giocatori di biliardo (almeno nella fantasia di chi lo aveva visto solamente dall’esterno).
Le rare volte che veniva in classe, sfoggiava provocatoriamente tutta la sua capacità di apprendere. Durante un’interrogazione di latino (con traduzione alla lavagna), mi suggerì un congiuntivo presente del verbo essere ricorrendo alla marca di un liquore, il "Cavallino rosso", prodotto dalle aziende "Sis", utili nella sigla alla mia coniugazione. Era un gustoso inganno che sfuggì alla nostra insegnante, terribile nel suo inappagato istinto materno e soprattutto utilmente inesperta delle cose ordinarie del mondo (io non bevevo, ma guardavo le pubblicità).
Un giorno con il compagno di classe, durante la ricreazione, il discorso cadde su quello che avremmo voluto fare da grandi, e lui disse il giornalista, "magari scrivere sul ‘Corriere della Sera’". Lo leggevamo in pochi, forse in quell’aula soltanto noi due. Ma sapere di conoscerlo, instaurava una complicità intellettuale, se gli altri ci avessero ascoltato, ci avrebbero preso in giro.
(Un altro che lo leggeva, era un frate di Santo Spirito, professore di Filosofia. Quando la domenica arrivavo per la Messa, se non celebrava lui, mi sottraeva il "Corriere", ed alla fine me lo restituiva con un sorriso amaro: "Giornale eclettico", disse una volta. Un’altra spiegò alla predica che i professori materialisti potevano rovinare noi giovani, per fortuna che noi non capivamo niente e non potevamo così essere guastati dai loro strampalati ragionamenti.)
In quei tempi, dire "Corriere della Sera" voleva dire Indro Montanelli, che era già un mito, un maestro di stile. Quando il 22 luglio ho appreso la notizia della sua scomparsa, ho subito ripensato a questi semplici episodi, che però ci restituiscono un po’ del clima della nostra giovinezza, in quella Rimini solenne nelle sue dimensioni provinciali dell’inverno, ma che poi, da giugno ad agosto, diventava una città del mondo. I veicoli del nuovo, per noi che avevano solamente diciassette anni, erano (oltre al "Cineforum" di fantozziana memoria), i giornali ed i libri, come le "Poesie" di Federico García Lorca, con traduzione e prefazione di Carlo Bo e testo a fronte, editore Guanda di Parma, stesso anno 1959. Ed anche Carlo Bo se n’è andato, precedendo nella volata d’un soffio Montanelli.
Il gusto della lettura dei libri non era molto alla moda per i nostri coetanei. (Con quell’amico ribelle, si parlava anche di musica jazz, un’eresia per molti.) L’insegnante di Lettere non imponeva nulla, suggeriva con quella ostentata indifferenza che soltanto una mente bizzarra, ma dalla raffinata e scettica intelligenza, poteva sfoggiare davanti a molti maschi beceri (ed aspiranti vitelloni), ed a tante ragazze attente ad un apprendimento utilitaristicamente mnemonico, con una parsimonia più adatta alle virtù domestiche che a quelle scolastiche.
A muovere le acque della città, ci pensava un giornale che offriva servizi provocatori anche sul mondo dei giovani studenti, "La Provincia" diretta da Mimmo Mainardi che una volta alla settimana faceva da contraltare all’ufficialità quotidianamente servita a benpensanti e conformisti dal "Resto del Carlino", ribattezzato "Il Rino del Carlesto" in una parodia fatta sul periodico degli universitari riminesi "Il Goliardo" che una volta all’anno, per Pasqua, suscitava innocenti scandali ma anche comiche querele.
Sono i tempi in cui Fellini, se arrivava in città a salutare la mamma, lo faceva di notte, per non farsi vedere. Era già una celebrità (proprio nella primavera del ’59, comincia a girare "La dolce vita"). Ma nessuno voleva ammetterlo.
Antonio Montanari
(da "Il Ponte", 5 agosto 2001)
Postilla
A proposito del mio pezzo su Montanelli (vedi sopra), aggiungo qui che il Corriere della Sera del 5 agosto ha presentato un inedito del grande Indro, la voce "Ricciardetto" per il "Dizionario biografico degli Italiani" (BDI).
Ed a proposito di Ricciardetto, Augusto Guerriero, io debbo (e voglio) testimoniare un debito di riconoscenza. Mi è stato Maestro (il che, per carità, non implica nulla sugli esiti dell'allievo), di rigore nello stile, e di logica nell'esposizione del pensiero.
I suoi articoli erano sempre la dimostrazione di un assunto, condotta con chiarezza e semplicità. Niente cose astruse, ma soltanto ragionamento ferreo. Resta un Maestro anche oggi. In tanti farebbero bene a leggerlo. (a.m.)
Su Ricciardetto, vedi nelle Memorie riminesi. Dove si legge pure un post scriptum a questo articolo.

Quello che si è letto finora, è un articolo mio, pubblicato il 5 agosto 2001 sul Ponte di Rimini.
Lo stesso giorno, sul Corriere della Sera, è apparso un inedito montanelliano, la voce composta per il Dizionario Biografico degli Italiani [DBI] e dedicata ad Augusto Guerriero, alias Ricciardetto.
Ho provato un altro tuffo nel cuore. Ho sempre detto che avevo imparato a ragionare, sia a voce sia per iscritto, leggendo i suoi articoli sullo stesso Corriere della Sera e su Epoca. Se poi non ci sono riuscito, spero che non sia addebitata la colpa al Maestro, ma soltanto ai difetti dell’alunno.
Ricciardetto aveva uno stile tutto speciale: fatto di un procedere razionale, con la partenza da un assunto e l’articolarsi accurato della spiegazione. Rendeva comprensibile a tutti la materia ostica di cui trattava, la politica estera.
Aveva anche momenti di abbandono personale, nelle risposte ai lettori di Epoca, dove lentamente cominciò a trattare quegli argomenti religiosi che poi raccolse in due volumi che ebbero un grande successo.
Partendo da Montanelli e Ricciardetto, mi sono chiesto quali siano stati gli altri grandi giornalisti che mi affascinavano quand’ero ragazzino con il tarlo della carta da leggere, ereditato per lunghe vie parenterali (un antenato materno fu persino bibliotecario gambalunghiano: ma l’argomento richiederà un altro capitolo a parte).
Due nomi, dopo (anzi, con) Montanelli e Ricciardetto: Orio Vergani e Mosca, Giovanni Mosca, quello dell’"oliva pallida" ("per un’oliva pallida si può delirare", parodiava in una commedia che credo s’intitolasse Gli astanti).
Vergani era l’incarnazione di una rara felicità narrativa che poi ho venerato nel suo libro Memorie di ieri mattina, ritratto di un’Italia distante anni luce da quella in cui allora vivevo, quindi una specie di museo da visitare con l’attenzione che richiedono oggetti delicati e frangibili come i sentimenti legati ai ricordi personali o di famiglia, quelli cioè che sono raccontati nel volume.
Mosca era il mondo dell’invenzione, l’uomo delle vignette pubblicate ogni giorno sul Corriere d’Informazione, che arrivava alle 17 solo nelle tre edicole della due piazze centrali di Rimini, un appuntamento quasi maniacale per me, tant’è vero che mia madre credeva che andassi a trovare qualche fanciulla quando uscivo di caso con una puntualità inglese e la gioia negli occhi per correre a comprare quel giornale della sera, un prodotto che oggi non esiste più, e che nessuno, se non l’ha vissuto con i propri occhi, può immaginare.
L’ho conosciuto, Mosca, quando facevo l’ultimo anno della Magistrali, ed il Giro d’Italia arrivava a Rimini. Feci puffi, per vedere i corridori allo Stadio, a trenta metri da casa mia. Mia madre lo salutò, e parlarono del fatto che non ci avevano dato vacanza per la tappa della corsa ciclistica più importante, quasi un rito popolare. E lui le disse che era strano, che dovevamo vederlo il Giro. Ed io pensai: anche se siamo grandi, ci dovevano accompagnare i nostri professori, come facevano i maestri delle elementari.
Non riconoscendoci il diritto di legalizzare una vacanza per il passaggio della Maglia Rosa e dei suoi compagni d’avventura, il vecchio preside burbero aveva cercato di imporre la sua autorità. Ma io, precocemente disobbediente, non mi sottomisi con la complicità di mia madre, a cui il mondo delle biciclette piaceva più di me.
Sia Vergani sia Mosca furono grandi inviati sportivi. Per il Giro d’Italia, Mosca continuò la tradizione di Vergani, che allora si chiamava degli articoli di colore. Per il Tour de France, doveva fare anche la cronaca.
Ma la cronaca di Mosca (così si firmava, senza il nome di battesimo) era tutta diversa da quella degli altri inviati. Non erano discorsi tecnici i suoi. Il pennino che usava, assorbiva assieme all’inchiostro contenuto in una bottiglietta anche una dose affascinante di fantasia, malinconia, dolore, entusiasmo. Era cantore dell’uomo che pedalava, delle sue miserie, delle sue imprese gloriose.
Per certi articoletti che pubblicai nel 1960-61 sul Carlino riminese, considerai talora Mosca un modello degno di imitazione.
Antonio Montanari
(13.8.2001)
Alla pagina delle "Memorie riminesi".
G8, tv per soli Grandi
Venerdì 20 luglio, il Paese del Sorriso a Genova (niente panni stesi, limoni attaccati per bellezza con il nailon ad altre piante, facciate finte su edifici anonimi), è crollato come un castello di carta. Il risveglio è stato amaro ed ipocrita. Lo abbiamo seguito in tivù. Primo pomeriggio del G8, silenzio della Rai (presente soltanto su satellite). Eccitazione degli inviati di Italia1 ("Ecco, la Polizia usa l'idrante"), raffreddata dal mezzobusto Brachino. Solita dichiarazione di Fede (Emilio), sono tutti delinquenti, guardate da soli. Bruciano le auto, i negozi. La 7 di Gad Lerner rilancia la diretta d’una emittente genovese. Poi alle 18, l'annuncio su Rai1, c'è scappato il morto. Uno spagnuolo, si ipotizza, tanto per calmare gli animi (non siete contro la globalizzazione?, mica è uno dei nostri, deve aver pensato qualcuno). Ritorni da Fede, quello che per primo ha annunciato le bombe su Baghdad, e non lo trovi. Lo spagnuolo (anzi, forse un italiano), gli ha guastato i piani. Uno che è morto, lo puoi ancora chiamare delinquente? Ed infatti all’ora canonica del suo tg, Fede ha l’imbarazzo delle scelte. Non puoi non piangere un ragazzo steso da un colpo in fronte, anche se stava per tirare un estintore contro la jepp dei CC (e forse è una bomba, rilancia alle 21 l’on. Fini, da Vespa).
Dalle 20 alle 21.25 il TG5 di Mentana dà una sberla a tutti, ed insegna come si fa informazione, anche se la rete ha un padrone che siede a Palazzo Chigi. Una foto, due, ma guardate, ecco la pistola che spara, quel ragazzo è morto così, il suo corpo scavalcato dalla jeep. Ha anche un nome: Carlo Giuliani, anni 23, con precedenti. Ottime notizie: vive come un barbone, chiede l’elemosina con i cani, le riprenderà anche il "Corriere della Sera". Niente di vero. Ha studiato Storia all’Università. Aveva un viso gentile.
Le immagini trasmesse da Mentana dopo le 20, impiegano due ore per essere capite (e messe in onda) da quelli di Vespa, a "Porta a porta", con in apertura il gran gala diplomatico, come se su Genova non fosse passato il diluvio. Più tardi, Gad Lerner sulla 7 lancia il suo dibattito. In platea, ragazzi che piangono Carlo Giuliani ed urlano "Assassini". Una fanciulla irrompe sul palco, alle spalle del conduttore: "Si tratta della nostra vita, c…o". Lerner invoca la pubblicità, e non ritorna più sul video. Il dibattito è chiuso. Restano i Grandi, i piccoli a dormire.
Antonio Montanari
(da "Il Ponte", 5 agosto 2001)
50 anni di poesia: don Aldo Magnani
Don Aldo Magnani raccoglie in queste "Poesie" (Pazzini editore) un’antologia di testi composti lungo l’arco di mezzo secolo, con l’intenzione di offrire un bilancio esistenziale, suddividendo il volume attraverso il parametro delle quatto fasi del giorno (e della vita): mattino, mezzodì, sera e compieta. Già da questa impostazione, che riecheggia l’alternarsi dei momenti che scandiscono nella vita del religioso le ore canoniche dell’Ufficio divino, si rivela l’importanza che il messaggio cristiano, come dice il risvolto di copertina, ha nella sua produzione lirica. Da esso non si può prescindere, essendo come il chiodo a cui tutte le altre corde vanno poi legate. Altrimenti, si rischia di dimenticare (o non comprendere appieno) perché questo sacerdote ha con assiduità (e con feconda fedeltà) assecondato la sua voglia di scrivere.
Bisogna però intendersi su che cosa significhi per don Magnani il messaggio cristiano: esso si moltiplica e divide nelle occasioni più contrastanti tra loro, così come antitetica è la vita stessa, desiderio ed angoscia, gioia e dolore.
Si parte da quella simbolica fontanella del paesello natìo, delicata immagine di fanciullesca (pascoliana?) meraviglia, e si approda lentamente alle sofferenze, alle ribellioni. Il poeta si accosta alla natura, oppure si rinchiude in una stanza per meditare, oppure apre una finestra sulla Storia che scorre sotto gli occhi di tutti, come nel "Dies lunae" che all’orgoglio della conquista scientifica contrappone il dramma di "donne e uomini abbruttiti / dalla fame, pestilenze e anemie" nel Terzo Mondo.
L’impegno civile, il discorso politico hanno il loro luogo ed il loro ruolo: l’autore denuncia l’ansia di quello "stato di diritto" che è universale, e che è negata secondo le varie longitudini sia dalla corruzione delle tangenti, sia dalla violenza dei macelli come sulla Piazza Tien An Men di Pechino.
Su questo sfondo non manca un dolente e terribile accenno alle responsabilità di chi fa informazione, quando appare il "buffone pubblicista", colpevole di assecondare i gusti perversi della Nazione, "che di giallo e di rosa vuole tinte / le orge dei veleni quotidiani".Antonio Montanari

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