il Rimino n. 60. 18 novembre 2000
Rimini divina, anzi pagana.
Archivio 2015

Rimini divina, anzi pagana
Un catalogo spiega la mostra allestita al Museo

Lo scavo archeologico effettuato tra 1989 e 1997 in piazza Ferrari a Rimini, nella "casa del chirurgo" (o "del farmacista"), ha permesso di recuperare anche una sottile lamina rettangolare di bronzo (base cm. 6,8, altezza 11,6): vi è raffigurata Diana nell'atto di estrarre una freccia dalla faretra con il braccio destro, mentre quello sinistro regge l'arco. Sullo sfondo c'è un cervo che corre. La placchetta, come commentano A. Fontemaggi ed O. Piolanti nel catalogo di "Rimini divina", la mostra archeologica in corso al Museo della Città sino al 20 maggio 2001 (ingresso libero), "doveva costituire il coperchio scorrevole di una cassetta a scomparti lignei, destinata alla custodia di strumenti chirurgici e medicinali".
Diana, oltre ad essere stata considerata una divinità dei boschi, quella del "certo telo" (l'invincibile freccia, Foscolo), era ritenuta collegata alla natura in generale ed alla fertilità in particolare, per cui le veniva attribuita una certa competenza anche sul lavoro sanitario. E questo spiega la presenza della sua immagine sulla cassettina recuperata nella ‘domus’ romana di piazza Ferrari.
A lei i greci avevano collegato la resurrezione di Ippolito, avvenuta per una sua intercessione ad Asclepio il quale, per agire, usò un'erba miracolosa a cui accompagnò frasi magiche. (Poi Zeus accoppò Asclepio.) Forse anche questo ricordo ellenico rimanda alla professione del chirurgo o del farmacista, i quali con le loro arti potevano (talora) ridare la salute perduta. Come scrive V. Cicala in altra parte del catalogo, a Diana era pure riconosciuta una competenza legata "ai riti della fertilità muliebre", secondo quanto si ricava da tante attestazioni letterarie e dai rinvenimenti di ex voto anatomici.
La devozione riminese a Diana ha una prova nel rinvenimento (1886-87) di una piccola lamina di bronzo nell'area del suo santuario, nei pressi di Roma, ad Aricia: è una dedica alla divinità (non citata nel breve testo apposto sulla lamina), fatta da un console, Caio Manlio Acidino, il quale intercedeva a nome (ed a favore, soprattutto) del popolo riminese. Che dalla nostra città si scendesse sin verso la capitale per portare questa testimonianza a Diana, è un fatto che si giustifica, come precisa il compianto prof. Giancarlo Susini nel saggio introduttivo, con l'essere Diana stessa la protettrice di Rimini.
Nel 268 a.C. nasce a Rimini una colonia di diritto latino. Secondo l'ordinamento repubblicano, gli abitanti di queste colonie erano senza diritto di voto (riconosciuto soltanto a quelli delle colonie romane), ma con tutti i doveri ed i diritti dei cittadini romani. Divinità "femminile e guerriera, tutta latina", aggiunge Susini, Diana è oggetto di culto che la riguarda soprattutto "come protagonista della ricerca audace di prede tra monti e boschi". Essa, osserva V. Cicala, è "il nume tutelare dei luoghi marginali, lontani dalla realtà civilizzata", come appunto era Rimini nei tempi iniziali della sua vita di colonia.
I primi visitatori di Rimini, avanti la fondazione della colonia, secondo Susini, furono mercanti e ricognitori, non i soldati che con le loro operazioni militari poi la crearono. Perché la nostra città fece gola ai romani? Essi volevano creare uno scalo marittimo a settentrione del Conero, per il controllo dell'Adriatico. Poi, "il possesso della foce del Marecchia rappresentava l'apertura all'ampio mondo di settentrione, in direzione del Po, e all'alto Adriatico", e permetteva di inoltrarsi nell'Appennino, superato il quale si scendeva verso un altro mare, quello di Roma.
Per Jacopo Ortalli, la fondazione di Ariminum "ebbe motivazioni di carattere prevalentemente strategico. La scelta politica allora operata dai Romani, che potenziarono e ripopolarono con nuovi coloni l'insediamento indigeno da tempo aggregatosi alla foce del Marecchia, era infatti intesa a creare un caposaldo che fosse in grado di proteggere i territori centroitalici da possibili infiltrazioni delle ostili genti, in primo luogo di stirpe gallica, che ancora occupavano la regione padana".
Che Rimini fosse stata consacrata a Diana, lo pure dice un'altra iscrizione, ritrovata a Roma: un breve testo in cui la dea viene chiamata "santa", quasi a ribadire, secondo V. Cicala, "l'inviolabilità di cui gode essa stessa e con lei, per una sorta di proprietà transitiva, coloro che si collocano o si identificano nella sua aura".
Un marmo esposto nella mostra con il n. 42, contiene l’iscrizione di un ex-voto per la dea Salute, in onore della quale Plautio Giusto, anche a nome della moglie Cassia Treptes e del figlio Quinto Plautio Verecondio, dedica un tempio che aveva "le stesse leggi" di quello di Diana sull’Aventino a Roma. Il marmo proviene dalla famosa collezione archeologica del medico ed erudito riminese Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775). Il quale però, a proposito di cose antiche, prese una bella cantonata, considerando l’Anfiteatro non romano, ma dei "bassi tempi", quelli che ora per noi sono i secoli dell’alto medioevo. Comunque, resta molto importante tutta la sua attività di studioso di archeologia, documentata attraverso le dissertazioni tenute nell’Accademia dei Lincei da lui rifondata in casa propria a Rimini nel 1745, ed anche attraverso gli articoli pubblicati nelle "Novelle Letterarie" di Firenze. L’esposizione di questo marmo della sua collezione, è una specie di omaggio all’impegno dimostrato anche in questo campo degli studi storici da uno studioso che è stato completamente dimenticato dalla sua città soltanto ora.
Un’altra lapide della mostra, di provenienza incerta, appartenente alla Biblioteca di Saludecio, e documentata dal 1770, racconta una diversa storia: Lucio Tizio Eutycas, di professione commerciante di legname, dedica il dono a Silvano, che, lo dice il nome, "impersona la sacralità dei boschi e assicura la prosperità del commercio del legname, una delle principali risorse dell’entroterra riminese" (Fontemaggi-Piolanti).
Silvano, aggiunge F. Cenerini, "ebbe sempre una connotazione popolare, pur godendo di un culto molto diffuso, soprattutto nelle province balcaniche, anche in ambito urbano". Per il territorio riminese, esistono altre tre attestazioni: una è lo scioglimento di un voto fatto da L. Valerio Giusto. La seconda, è il coronamento marmoreo di un cippo (rinvenuto a Spadarolo) su cui forse c’era un piccolo gruppo scultoreo, dedicato anche a Bacco, da parte di M. Arrecino Clemente, magistrato della città di Rimini, che era stato ufficiale di rango equestre in Egitto ed ufficiale del genio sotto Tiberio. L’ultima è una pietra recuperata nel 1984 nel fiume Marecchia (a monte del ponte di Tiberio). Silvano, scrive ancora F. Cenerini, "è garante e tutore dei limiti, inteso anche e soprattutto come tutela di spazi economici e commerciali, gli spazi del legnatico e dei pascoli, da sempre appannaggio dei ceti dirigenti italici locali che su tali risorse hanno costruito le loro fortune, investite anche per fare carriera a Roma, come attesta l’origine municipale di tanti ‘homines novi’ [di nobiltà recente, n.d.r.] provenienti da queste zone".
E la vita economica è rappresentata in un "sontuoso e complessissimo mosaico bianco-nero" che era posto nel grande triclinio d’onore della ‘domus’ di palazzo Diotallevi: è "la famosa scena", spiega M. G. Maioli, del porto canale, "con le navi che entrano probabilmente nel porto ricavato dalla foce del fiume Marecchia" e con al centro "una piccola immagine con Ercole stante con clava in una mano e coppa nell’altra, in atto di libare o di bere": immagine probabilmente scelta "anche per la sua alta valenza simbolica, a sottolineare la personalità e l’importanza del ‘dominus’ che, oltre a ribadire le fonti della sua ricchezza, il commercio per mare, chiama il dio a farne da testimone e da rappresentante".
L’ultima pietra della mostra è un marmo scoperto da Luigi Tonini (altra grande figura degli studi riminesi), nel 1863, nel pavimento di una chiesa riminese. Essa raffigura una Croce greca, con un fiore di melograno, un calice e tralci di vite. Il paganesimo è finito. Non ci sono più gli dei "falsi e bugiardi".

Nel catalogo della mostra
Storia dei culti locali,
tra miti e politica
Il catalogo della mostra "Rimini divina", curato da A. Fontemaggi ed O. Piolanti, presenta questi saggi: "L’assetto romano della religiosità riminese" di G. Susini; "I luoghi del sacro: testimonianze della devozione dalla protostoria" di A. Fontemaggi ed O. Piolanti; "Un rito di fondazione nella colonia di Ariminum", di J. Ortalli; "Il culto di Diana" di V. Cicala; "Uomini e dei: religione e politica sul colle di Covignano" di M. Marini Calvani; "Gli dei di Rimini in età imperiale", di F. Cenerini; "Le divinità nella statuaria di Rimini: arte e devozione" di J. Ortalli; "Rimini divina: le raffigurazioni del mito nella quotidianità" di M. G. Maioli; "Comunicare con gli dei" di A. Donati; "Monete con immagini di divinità della raccolta riminese del Museo della Città di Rimini" di M. Biordi. Seguono l’elenco dei materiali esposti con relative, singole schede, e le note bibliografiche.
Nella prefazione Pier Luigi Foschi, direttore dei Musei comunali, sottolinea l’eccezionalità della mostra, per il ritorno a Rimini di un complesso archeologico trovato, oltre un secolo fa, a Villa Ruffi, sul Covignano. Tale complesso, sparso da oltre un secolo nel mondo, è stato ricomposto quasi nella sua integralità, grazie ai prestiti di due musei di Copenaghen ed a quello etrusco di Valle Giulia di Roma. La pubblicazione, conclude Foschi, è stata occasione di "confronto scientifico tra studiosi ed esperti", come dimostrano le diverse posizioni "sulla datazione proprio di alcune sculture provenienti da Villa Ruffi".

Antonio Montanari

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