il Rimino n. 1. 10 settembre 1999
La "santa Innocenza" perduta.
Bandiera rossa sul litorale.
L'Anfiteatro. Rimini "vetrina" di Roma.
L'Anfiteatro. L' "impostura" del 1763.

Archivio 2013

La "santa Innocenza" perduta
Riaffiorati (e subito sepolti) resti dell'antica chiesa demolita nel 1919


I lavori di sistemazione di via IV Novembre hanno portato alla luce resti (che non sono stati lasciati 'a vista', come invece era stato promesso) dell'antica chiesa di sant'Innocenza: di essa, in generale, la città sa molto poco, ... se non nulla. Luigi Tonini, il grande studioso e storico di Rimini (vissuto tra 1807 e 1874), in uno scritto pubblicato soltanto nel 1975 da Ghigi editore con la cura di P. G. Pasini e con il titolo «Rimini dopo il Mille», ricorda, nel capitolo sul «Quartiere di Pomposo» (pp. 94-95), che questa chiesa parrocchiale era «dedicata ad una Santa nostra concittadina». Essa sorgeva nel lato in cui si trova il Tempio Malatestiano, di fronte alla via San Michelino in Foro, come si vede in una carta pubblicata dallo stesso Pasini (p. 84).
La chiesa è citata in documenti medievali del 996 e del 1144. Aggiunge Luigi Tonini: «Dai nostri Statuti [comunali] apprendiamo che a questa santa protettrice della città ogni anno il Comune offeriva un cero, e la sua festa era una delle solenni del paese».
C. F. Marcheselli («Pitture delle chiese di Rimino», 1754) ricorda che, secondo C. Clementini (autore di un testo apparso nel 1617 e 1627 con un titolo, «Raccolto istorico» talora deformato in un più facile «Racconto»), la chiesa di sant'Innocenza era stata edificata sopra «i fondamenti» di un antico tempio.
Nel 1745 la chiesa fu rifabbricata, come testimonia un articolo, apparso sulle «Novelle Fiorentine», di Iano Planco (l'illustre medico e studioso Giovanni Bianchi, la cui casa era lì vicino, all'inizio della via Al Tempio Malatestiano, lato monte). Per l'occasione venne alla luce una tegola romana col bollo «C[aius] Tullius Atisiani F[ilius] Faesonia»: è una cosiddetta «figulina» (od oggetto prodotto dal vasaio). Se ne parla ancora oggi (M. Biordi,«Bolli laterizi romani», in «Analisi di Roma antica, Storia e archeologia di un Museo», 1980).
Dalla «Cronaca», esistente nella Biblioteca Gambalunghiana, di Nicola Giangi (1746-1818), apprendiamo che la chiesa venne soppressa il 29 agosto 1797 durante il cosiddetto «governo francese» della nostra città. Nel 1809 essa veniva riaperta ad uso del vicino Seminario.
Nel 1893 Carlo Tonini, figlio di Luigi, in una «Guida illustrata di Rimini» (ripubblicata da Ghigi, 1995) riferisce di freschi lavori di restauro, aggiungendo: «Vi si contiene il corpo di questa Santa Martire concittadina. Nella cappella di destra è il busto del nostro G. B. Costa pittore».
Angelo Turchini, nel volume «Rimini medievale. Contributi per la storia della città» (Ghigi, 1992, pp. 115-116) ricorda la demolizione della chiesa, avvenuta nell'estate del 1919, per l'allargamento e l'abbassamento della strada (che allora era detta via Pàtara, dal nome dell'eresia medievale diffusasi anche a Rimini). La chiesa, che era un «monasterium», misurava metri 17 per 14. Inizialmente si presentava a tre navate.
Nello stesso 1919 «nel fare i fondamenti per il nuovo muro del Seminario, che fiancheggiava la via Pàtara, sono venute alla luce le fondamenta della vecchia chiesa col giro dell'abside più interno e più ristretto di quello [...] demolito»: cosi si legge in un articolo a firma di mons. Michele Rubertini sul «Bollettino» diocesano riminese di quell'anno.
Turchini precisa: «Il comune festeggiava la santa come protettrice, offrendo doni nella ricorrenza annua (16 settembre, come a Bologna o a Vicenza) da portare alla sua arca, secondo un articolo degli Statuti del 1334. L'arca lapidea riappare nel 1919, con altri materiali, come annota mons. Michele Rubertini, allora rettore del Seminario» in un manoscritto conservato nel medesimo Seminario.
L'arca nel gennaio 1933 venne donata al Museo Civico. Tra il materiale scavato, scrive infine mons. Rubertini, ci furono «blocchi di marmo non lavorati» che furono portati al Municipio (nel 1919 in restauro dopo il terremoto del 1916), «per formare la base dei pilastri del portico e delle gradinate di accesso».
I resti della chiesa non sono stati lasciati ‘a vista', come invece era stato promesso: ma sul nuovo pavimento stradale è stato 'disegnato' il luogo dell'edificio.


Bandiera rossa sul litorale.
Ricerca storica di Paolo Zaghini sul Pci riminese


L'editore Pietroneno Capitani e l'Istituto Storico della Resistenza hanno appena pubblicato la storia della Federazione comunista riminese dal 1949 al 1991, a cura di Paolo Zaghini. Il volume ha un grande merito ed un piccolo difetto. Cominciamo dal primo.
Esso ripropone vecchi saggi ed articoli, apparsi nel 1986 su "Storie e Storia", e nel 1991 nel "Messaggero" e nella "Gazzetta di Rimini", oltre a presentare elenchi sulle elezioni amministrative e sull'archivio del Pci cittadino.
Il piccolo difetto sta proprio in questo riprendere cose già note che appaiono datate soprattutto in certe parti. Se il saggio del 1986 è ormai ben consolidato, per cui non crediamo che nulla di nuovo possa aggiungersi (riguarda la nascita della Federazione comunista a Rimini e copre gli anni dal 1946 al '49), la stessa cosa non può forse dirsi per gli altri articoli stesi in un tempo ormai troppo lontano.
Possibile che dal '91 ad oggi, non siano cambiati giudizi e discorsi?
A darci ragione, a pagina 144 del suo testo, sembra essere lo stesso autore che, riferendo di una vecchia vicenda dell'83, ma allora molto clamorosa ("I chiacchierati"), scrive che "la storia complessa" di quei fatti e dei loro molti protagonisti, "è ancora tutta da scrivere". Sinceramente, fa un certo effetto leggere un testo storico e trovare un rimando al futuro per chiarire un argomento in esso trattato. Oppure ci sono cose che ancora oggi per spirito di fratellanza non si vogliono (o possono) dire?

Al Commento del 2012 su questo articolo.


Anfiteatro/Rimini "vetrina" di Roma

Rimini era la "vetrina" di Roma. Come prima città del territorio italiano, appena varcato quel confine che non si sa dove fosse (ogni fiumiciattolo può essere stato benissimo il "Rubicone degli antichi"…), essa aveva il compito di offrire l'immagine grandiosa dello Stato di cui faceva la sentinella. Era stata fondata in età repubblicana come base militare per conquistare la Valle Padana, ed era diventata un'importante roccaforte non solo militare ma pure commerciale. Questo suo ruolo spingeva il governo in epoca imperiale ed anche i suoi abitanti, a trattare la città in una maniera particolare: il primo colpo d'occhio era quello che contava (diversamente da oggi, che chi entra a Rimini dalla via Emilia resta spaventato dall'incuria del ‘paesaggio' e dalla sporcizia nelle strade).
Da questo ruolo dell'antica Ariminum come "vetrina" di Roma, è partita Maria Grazia Maioli, archeologo-direttore presso la Soprintendenza archeologica dell'Emilia Romagna, nella sua esposizione, dotta, lineare ed avvincente, per parlare di Rimini dalle origini al primo secolo dopo Cristo, in una serata speciale (intitolata "Antico Presente" ed organizzata dalla Civica Biblioteca Gambalunghiana), alla quale ha partecipato anche la prof. Eva Cantarella docente di Diritto Romano all'Università di Milano. Autrice di numerosi studi specialistici e divulgativi, la prof. Cantarella ha trattato di Pompei per illustrare anche la vita culturale e politica della società latina.
La manifestazione, svoltasi giovedì 19 agosto 1999 all'antico anfiteatro, ha avuto un grande successo: i posti a sedere si sono presto esauriti e chi è arrivato in perfetto orario ha avuto a sua disposizione soltanto i ruderi od il prato. Per il prossimo anno, ha detto nella presentazione Marcello Di Bella, direttore della Gambalunghiana, si provvederà alla costruzione di tribune che permettano lo svolgersi di manifestazioni con maggiore capienza.
L'anfiteatro, edificato nel II sec., ha spiegato Maria Grazia Maioli, ospitava in genere lo scontro dei gladiatori; e proprio una statuetta locale, raffigurante uno di quegli ‘atleti', sarà esposta in una prossima mostra dedicata a questa costruzione riminese, una delle poche esistenti nella nostra regione.
Anche questo particolare testimonia sulle caratteristiche della città, abitata da gente ricca, capace di spendere un occhio per abbellire le proprie abitazioni, come l'intarsio su lastra di vetro importato forse dalla Siria, scoperto nello scavo di piazza Ferrari e mostrato in assoluta anteprima, che aveva un valore superiore all'intera casa.
Questo scavo ha portato alla luce degli attrezzi chirurgici, perciò si è parlato di una "domus del chirurgo". Ma sarebbe più esatto chiamarla del farmacista, perché pare che nell'edificio (del II/III secolo) si vendessero anche medicine: ed allora come oggi non c'era soltanto la farmacopea ufficiale, ma si preparavano pure intrugli sottobanco da offrire a caro prezzo, come certi afrodisiaci il cui uso potrebbe gettare qualche ombra sui vitelloni nostrani dell'epoca, uomini ‘in carriera' forse stressati dai troppi affari e dal desiderio di guadagno.
Allora, al tempo dell'anfiteatro e del chirurgo o farmacista che fosse, Rimini non era una città di mare; l'acqua c'era, lì vicino dove adesso sorge la stazione, ma non c'era la spiaggia. Non luogo di villeggiatura, dunque, ma sede di coloni, alle origini la città ed il suo territorio subirono uno sfruttamento intensivo: soltanto con Augusto, essa assume quel volto austero, monumentale che oggi resta documentato dall'arco che costituiva la porta meridionale, mentre a nord sorgerà il ponte di Tiberio che completa l'immagine politica di Ariminum.
Maria Grazia Maioli ha ricordato poi che attorno all'arco sorgono due importanti siti. Nella zona a mare sembra trattarsi di un impianto termale; in quella a monte, a suo parere, doveva trovarsi una grande casa privata. Tra queste ipotesi e tanta passione, il lavoro archeologico procede per restituirci un'idea sempre più completa del passato.
La duplice conferenza dell'anfiteatro, prima manifestazione culturale dopo l'"inaugurazione" musicale di un anno fa, ha raccontato come si viveva nell'Italia di Roma, prima e dopo Cesare, e nella nostra città, tra fatiche d'ogni giorno, sogni di grandezza ed anche paure e distruzioni che i barbari provocano con il loro devastante arrivo nel III secolo: le case bruciano, e non sono più ricostruite. Sotto le fiamme cadono i tetti, qualcosa si salva per noi posteri, come nella domus di palazzo Diotallevi dove sorgerà poi una fornace.
Degli antichi splendori restano soltanto le ombre che oggetti deformati conservano ancora, proiettandole su di noi: sono gli oggetti eleganti che quella famiglia usava nei banchetti. Erano conservati in un armadio di legno. Il fuoco lo ha distrutto, ma cerniere e serrature sono rimaste sepolte ed oggi, grazie al lavoro degli studiosi della Soprintendenza e del nostro Museo, possono narrarci le loro storie segrete.


Anfiteatro/L' "impostura" dell'anfiteatro.
Uno scavo del 1763: documenti inediti all'Archivio Comunale


Due inediti documenti del 1763 (custoditi presso l'Archivio Storico Comunale di Rimini) raccontano di una sconosciuta e privata campagna di scavi nell'anfiteatro di Rimini. Il muratore Stefano Innocenti chiese ed ottenne in quel settembre "di poter aprire un muro della Città sotto la Clausura de' Padri Cappuccini", la cui chiesa risaliva ai primi del ‘600, quando vennero alla luce alcuni resti del monumento romano.
I lavori di Innocenti produssero "moltissima terra" che fu gettata in un terreno comunale dato in appalto al signor Giuseppe Antonio Fabri il quale si lamentò di non poter più seminare il fondo, coperto di quella terra "e dalli rottami".
A dicembre il muratore è invitato a concludere i lavori. Aveva infatti avuto abbastanza tempo per "fare quelle osservazioni, che bramava, ed appagare abbondantemente la propria curiosità", inoltre era "necessario impedire quei scandali sotto la Clausura […] di rigorosa esemplarità" dei Cappuccini. Scandali che derivavano dalla rottura del "volto reale, che la copriva", per cui rimaneva "aperta la communicazione dell'esterno delle mura della Città colla Clausura" medesima. I Cappuccini avevano presentato "giuste doglianze" per questa "disdicevole" situazione. Occorreva accontentarli.
Innocenti non si era mosso per proprio conto, dietro di lui c'era lo speziale Angelo Cavaglieri, il cui "genio", a suo stesso dire, era quello di studiare "le cose antiche" della città. Quando al muratore impongono di chiudere il piccolo cantiere archeologico, lo speziale si rivolge al Cardinal Legato perché ad Innocenti siano concessi altri sei mesi per indagare sul "supposto Anfiteatro", spiegando che "questa sua impresa non è di pregiudizio, né ai muri della Città, né a verun altro". Attraverso quegli scavi, aggiunge, il muratore "non tende ad altro che a liberare la Città da un'impostura, che corre su questo Anfiteatro".
Lo speziale, parlando di "impostura", riassume bene il ‘clima' dell'epoca a proposito dell'anfiteatro. Pochi anni prima, il Temanza (1741) e poi il Marcheselli (1754) avevano negato agli avanzi di quel sito archeologico ogni carattere di antichità.
Ripercorriamo brevemente la storia delle conoscenze sull'anfiteatro, con l'aiuto di Luigi Tonini. Nel 1486 un atto notarile lo cita impropriamente come "teatro antico", con fornici allora detti volgarmente "le tane". Nel 1543 si fanno scavi: si scoprono marmi ed una statua senza testa e senza gambe, giudicata di Diana. Nel 1606, erigendo il convento dei Cappuccini, si trovano "cellae, seu camerae pro balneis".
Temanza parla solo di "alcune muraglie di antico edificio […] creduto in altri tempi reliquie d'Anfiteatro".
Per dimostrare appunto che non si trattava di resti importanti, lo speziale avvia la sua personale campagna di scavi. La richiesta di proroga, secondo i Consoli di Rimini, non aveva valore perché la pratica (anche allora la burocrazia non scherzava) era stata aperta dal muratore Innocenti. Non sappiamo come sia andata a finire, questa piccola, ma forse significativa vicenda.
Gli scavi decisivi furono quelli del 1843-44 che convinsero "anche i più ritrosi", fra i quali Tonini inserisce se stesso. Altri scavi ci furono dopo il 1927, ma oggi, da quando (nell'immediato dopoguerra) parte del luogo (dove sorse l'"Asilo svizzero") è stata riempita di macerie, ci troviamo nella stessa situazione del 1844.

Antonio Montanari

Dossier Anfiteatro. 2002, un saggio di Aurigemma del 1933.

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