Diario italiano
Il Rimino 211, anno XV
Luglio 2013

Fuorisacco, 30.07.2013.  Il mio 1943

Il mio 1943 è quello di un bambino di pochi mesi (sono nato alla fine dell'agosto precedente), che ne ha avuto contezza attraverso i racconti di famiglia.
Diceva mia madre Maddalena Nozzoli che gentilmente a casa nostra, in Palazzo Lettimi, posto al centro della città a due passi dal Tempio di Sigismondo Malatesti, in quel gennaio arrivò la polizia politica a perquisire l'abitazione, in relazione all'arresto di suo fratello Guido, preso a Bologna, dove svolgeva servizio militare.
L'imputazione era di attività sovversiva mediante la distribuzione di volantini intitolati "Non credere, non obbedire, non combattere". Aveva fatto la spia un amico o conoscente, di cui ho saputo soltanto che Guido una volta lo incontrò a Roma in un bar, lo guardò fisso in volto, e quello si mise a tremare rovesciandosi addosso il caffellatte che stava sorseggiando. Parole dello stesso Guido.
(L'espressione "ho avuto contezza", era un modo tipico di esprimersi dello zio, non una stravaganza mia.)
Tra i capi d'imputazione, oltre al reato di "attività politica contraria al regime", c'era pure quello di essere detentore di libri proibiti dal regime, come il "Tallone di ferro" di London o "La madre" di Gor'kij, libri che peraltro "venivano venduti anche sulle bancarelle". Lo raccontò lui stesso in una manifestazione intitolata "Autobiografia di una generazione", i cui atti con lo stesso titolo sono stati poi pubblicati a stampa (1983).
Talora, quando compro qualche libro alquanto compromettente, come quelli un po' scottanti di Storia passata o recente, mi viene da pensare a quell'imputazione, al fatto che potremmo anche noi essere accusati di leggere testi non graditi al Potere politico.

Fonte di questa pagina: un mio articolo del settimanale "il Ponte" (09.12.1990), ed il volume "I giorni dell'ira".

Antonio Montanari
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Fuorisacco, 24.07.2013.  Rimini, luglio 1943

Il 18 luglio l'ultima sfilata dei giovani fascisti percorre le vie di Rimini, con inni e discorsi. La banda della GIL intona gli inni della patria e della rivoluzione. La solita musica. Che stava per cambiare. I primi manifesti antifascisti apparsi nel giugno '43 nelle sale d'aspetto delle stazioni ferroviarie fra Rimini e Imola, sono nati nelle riunioni della parrocchia di San Nicolò fra Ercole Tiboni, Renato Zangheri e don Angelo Campana, insegnante di Religione al liceo classico. Tiboni diventerà socialista, Zangheri comunista. Oggetto degli incontri, ha ricordato Vincenzo Cananzi, erano temi vari: "dal significato della democrazia, al valore dell'economia di mercato, dai rapporti fede e politica alla liceità della ribellione ai regimi totalitari, dalle differenze ideologiche tra i vari partiti politici ai mutamenti da introdurre nell'economia al termine della guerra".

"Qualcosa allora aveva cominciato a muoversi nel sottosuolo della città, sia pure impercettibilmente", ha scritto Faenza raccontando il periodo tra la fine del '42 e l'inizio del '43: "Alcuni giovani, toccati dalla resistenza armata russa e dalla sua capacità controffensiva a Stalingrado, avevano cercato contatti con elementi antifascisti. Altri giovani tra cui lo Zangheri, allora attento lettore di scritti tomistici, si erano invece interessati agli incontri di studio sulla dottrina sociale della Chiesa e sul pensiero di don Sturzo, presso la Fuci di via Bonsi, a cui era presente l'ex popolare Giuseppe Babbi e qualche volta Benigno Zaccagnini".

A Rimini "c'erano poi i ragazzi sfollati dalle città del Nord. Un centinaio circa, disseminati per le varie scuole e nei due licei. Costoro avevano portato con sé, nelle classi, un'atmosfera diversa, il clima del dramma delle loro città che poteva per essi volgersi in tragedia, ma che intanto imponeva agli altri, anche ai meno sensibili, una pausa di riflessione, scuotendoli da una sonnolenta atmosfera provinciale".

Zangheri, che nella primavera del '43 organizza la lettura di un dattiloscritto che riproduce la vita di Gramsci scritta da Togliatti, a diciassette anni nel 1942 ha collaborato al periodico studentesco fascista riminese Testa di Ponte scrivendo contro "i vigliacchi di pensiero e dell'azione". Ma ha pure polemizzato con Glauco Jotti portavoce di quegli squadristi a cui prudevano le mani e stavano in attesa di un semplice ordine per usare il manganello: "Assaltiamo per ora noi stessi […] perché ognuno ha le sue colpe, e se qualcosa vi è ancora di lercio nella nostra coscienza, togliamolo".

A Testa di Ponte ha collaborato anche Sergio Zavoli: "Oggi più di ieri abbiamo bisogno di scuotere i famosi "montoni belanti", "pecore rognose"… Attorno a te c'è ancora troppa gente che non sa e non è degna di vivere questo grande momento… Deve essere dato a tutti il privilegio di ‘vivere' e ‘vincere'. Con ogni mezzo". In un altro suo articolo si legge: "Io non sono psicologo: pure con la fiducia nelle nostre idee e in quelle delle generazioni capaci di comprenderci, arriveremo!".

La tragedia della guerra, con la constatazione di quanto fosse stato illusorio il sogno di un conflitto rapido e con la scoperta di un'impreparazione militare che andava a scontrarsi con i miti del guerriero fascista, costringe ad una scelta i ragazzi allevati al canto di Giovinezza. Sono studenti, operai, contadini. Le documentazioni storiche limitano spesso il discorso a quel gruppo di giovani, quasi sempre intellettuali, che hanno potuto e saputo riproporre le vicende della guerra, attraverso scritti ed interventi. Per gli altri basta riandare alle cronache dolorose di quei mesi tra '43 e '44, ed allora ritroviamo accanto ad un professore di scuola media come il santarcangiolese Rino Molari, il ferroviere di Rimini Walter Ghelfi, entrambi fucilati a Fossoli nel luglio '44 assieme ad Edo Bertaccini di Coriano, capitano dell'ottava brigata Garibaldi.

La contestazione, tra serietà di un impegno politico che s'affacciava pallido nell'ansietà giovanile e goliardate che avevano mosso alcuni nelle occasioni ufficiali del regime, diventa opposizione, sacrificio personale, rischio della lotta. È la guerra. La guerra civile. Compagni delle stesse classi e nelle stesse adunate si ritrovano nemici su barricate opposte. Le strade si sono divise.

[Pagina tratta dal cap. II de "I giorni dell'ira. Settembre 1943 - settembre 1944 a Rimini e a San Marino".]

Alle 22.45 del 25 luglio 1943 l'Eiar trasmette la notizia della caduta di Mussolini. Il duce è stato arrestato alle 17 all'uscita da un breve colloquio con Vittorio Emanuele III a Villa Savoia sulla via Salaria. Fatto salire dai regi carabinieri a bordo di un'ambulanza, è trasferito a Ponza, poi tradotto alla Maddalena ed a Campo Imperatore sul Gran Sasso. Quel pomeriggio tra i soldati ignari trasportati all'improvviso dalla Cecchignola a presidiare l'immenso parco di Villa Savoia, c'era il romagnolo Gino Pilandri. La mattina dopo, ha ricordato Pilandri a Bruno Ghigi, il re "piccolo, traballante, sorretto da due ufficiali perché non scivolasse nell'erba", andò a distribuire tavolette di cioccolata ai militari rimasti in servizio per tutta l che "non sapeva darsi pace", ben noto in città.

La stessa mattina alcuni sammarinesi s'incontrano a Rimini nello studio del dentista dottor Alvaro Casali, allo scopo di organizzare una manifestazione per indurre il governo di San Marino alle dimissioni. Tra 27 e 28 luglio sono arrestati alcuni esponenti del fascismo riminese: Giuffrida Platania, Perindo Buratti, Eugenio Lazzarotto, Giuseppe Betti e Valerio Lancia (che era stato anche il federale della città). Li libereranno i tedeschi il 13 settembre. Racconterà Buratti: "Il 27 o 28 luglio del '43 andai a Roma. Mi accompagnai col capitano dei carabinieri Bracco che da Rimini era stato trasferito a Roma… Quando, dopo una decina di giorni, tornai, il mio amico e fascista Motta, commissario di PS mandò un agente a casa mia -abitavo in piazza Malatesta- a vedere se c'ero. E poiché c'ero mi mandò a dire che andassi da lui. Non temessi: era un amico e un fascista. E mi mise in galera. Per protezione, mi disse".

Qualche altro personaggio in vista cerca raccomandazioni per il futuro, presso gli antifascisti. È il caso dell'avv. Salvatore Corrias, dell'Istituto di Cultura fascista, che va a trovare il socialista Mario Macina, padre di quell'Ennio picchiato quattro anni prima dal pugile Benito Totti per aver denigrato il passo romano con movenze frivole. Corrias è il primo a fare discorsi antifascisti in piazza.

Otto settembre, tutti a casa. Qualcuno organizza la resistenza ai nazifascisti, come Carlo Capanna, uno studente riminese dell'Accademia aeronautica di Forlì, che se ne scappa a Meldola con un fucile, una pistola ed un grosso pacco di caricatori per il fucile. Il 10 settembre, giorno dell'occupazione tedesca di Roma, a Rimini due autocarri-radio dei nazisti s'installano in piazza Giulio Cesare. L'11 una pattuglia di motociclisti germanici giunge sul piazzale della nostra stazione ferroviaria. Il 12 alcuni reparti nazisti presidiano i punti nevralgici della città. I Comandi tedeschi occupano i migliori alberghi.

Lo stesso giorno la prefettura di Forlì pubblica un bando del Feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante in capo tedesco in Italia, che segna la resa italiana ai nazisti: "Il territorio dell'Italia a me sottoposta è dichiarato territorio di guerra. In esso sono valide le leggi tedesche di guerra". Soldati, ufficiali e comandanti italiani che opporranno resistenza agli ordini emanati dai tedeschi verranno trattati "come FRANCOTIRATORI". Sui proclami dei nazisti, nottetempo sono apposte strisce con "A morte i tedeschi e i fascisti", stampate a Morciano dalla tipografia di Luigi Cavalli.

Mussolini il 12 settembre è liberato a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, da un commando di paracadutisti tedeschi che lo conduce in Germania. La notizia mette in agitazione la Milizia riminese: un suo reparto sfila velocemente per il corso d'Augusto. Il 18 Mussolini parla da Radio Monaco: "Sono sicuro che la riconoscerete: è la voce che vi ha chiamato a raccolta nei momenti difficili". È una voce stanca che aveva perso i toni abituali. Nasce la repubblica sociale italiana, la famigerata "repubblichina" di Salò. L'Italia è divisa in due. Al Nord ed al Centro, tedeschi e fascisti. Al Sud, il regno che ha per capitale Brindisi (e Salerno dall'11 febbraio 1944).

"Il fascismo della Repubblica sociale non fu un fenomeno marginale e neppure l'ultima impennata di un regime destinato a scomparire." [L. Klinkhammer]

I tedeschi fanno scuola ai ‘nuovi' fascisti di Salò: dal berretto nero (copiato da quello delle SS tedesche), fino alla ferocia dell'"occhio per occhio, pietà l'è morta", ed agli atteggiamenti contro gli ebrei: "Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica". Rispuntano i ras del terrorismo ad ogni costo. I tedeschi trattano i repubblichini con distacco. Non si fidano. E la gente? "Nessun popolo gradisce la presenza nei propri territori di forze armate straniere emananti decreti e ordinanze e esercenti atti di imperio": lo sostiene Mussolini sul Corriere della Sera.

La sera del 12 settembre, a Rimini, i repubblichini Paolo Tacchi, Perindo Buratti e Gualtiero Frontali s'incontrano nello studio di quest'ultimo in via Bonsi con un gruppo di antifascisti cittadini, in vista di un patto di non aggressione per evitare massacri "tra gli italiani". Racconterà Buratti: "Ci riunimmo per salvare Rimini dai tedeschi al di sopra delle inimicizie di parte, animati solo da amor di patria". Tacchi non ha mai parlato di quell'incontro, il cui spirito però lo si può dedurre da parole che lui stesso scrisse a proposito della costituzione del fascio repubblichino: "Difesa morale e materiale dell'Italia" soprattutto nei confronti dei tedeschi.

Il comunista Decio Mercanti ricorda che la riunione "venne indetta nell'intento di gettare le basi per la costituzione di un Comitato di Concordia tra fascisti e antifascisti", che "avrebbe dovuto portare alla pacificazione fra le due parti per impedire delle rappresaglie". Nei repubblichini forse agiva il ricordo di un'analoga iniziativa del 2 agosto 1921, quando Mussolini cercò invano di eliminare dal suo partito le punte estremistiche ed eversive dello squadrismo agrario, e propose un patto di pacificazione col partito socialista e con i sindacati, che durò soltanto fino a novembre.

L'atteggiamento conciliatorio dei repubblichini riminesi si ritrova anche in altre città. A Ferrara il federale Igino Ghisellini "propone un accordo con i partiti antifascisti" e "concorda una tregua tra le parti". La sua è una "posizione tollerante" che si scontra con la linea dura di Pavolini, Farinacci, Ricci e Mezzasoma. A rimetterci è lo stesso Ghisellini: egli avrebbe voluto portare al congresso del pfr a Verona (14 novembre '43) il suo progetto di pacificazione nazionale, di accordo con i partiti antifascisti e di tolleranza per i protagonisti del colpo di Stato del 25 luglio. Ma proprio quel 14 novembre Ghisellini è ucciso in modo misterioso. Viaggia in auto. Il suo corpo, trapassato da sei colpi di rivoltella, è trovato senza stivali e senza portafogli nella cunetta della strada provinciale che porta al paesino dov'era sfollato. L'assassinio è attribuito ai partigiani, anche se i carabinieri dimostrano che il federale è stato ucciso da qualcuno che viaggiava con lui. In seguito si diffonde la voce che Ghisellini è stato ammazzato dai suoi. Lo stesso 14 novembre avviene la vendetta nella città di Ghisellini, a Ferrara, con i tredici martiri del Castello.

Pagina tratta dal cap. II de "I giorni dell'ira. Settembre 1943 - settembre 1944 a Rimini e a San Marino".

Il 25 luglio a San Marino.
Quando la sera del 25 luglio 1943 alle 22.45 la Radio italiana annunciò la caduta di Mussolini, all'albergo Titano (noto covo dei fascisti sammarinesi), si svolgeva la solita partita a poker dei capi locali. Il segretario di Stato Giuliano Gozi "rimase tranquillissimo", mentre suo fratello Manlio (segretario del pfs) "fu colto da emozione".
Ricorda Federico Bigi che da Roma arrivò una telefonata del console sammarinese: Badoglio è nostro amico, non c'è nulla da temere. "La serata si chiuse con questo commento umoristico di Giuliano Gozi: 'Allora vorrà dire che a Palazzo al posto del duce metteremo il ritratto del maresciallo Badoglio'".
C'era poco da ridere, per la verità. Anche San Marino stava per cambiare aria. Ma non senza traumi. Anzi, la Repubblica dovrà vivere momenti assai dolorosi.
"L'ora della resa dei conti era giunta anche per questi parodianti buffoni, e vani risultarono gli espedienti posti in atto il giorno 26 luglio, colla pubblicazione di un manifesto della Reggenza del tempo, in cui alle suadenti e fraterne raccomandazioni di calma e disciplina, si aggiungevano minacce di applicare con rigore le leggi contro coloro che intendessero turbare l'ordine pubblico. Non mancava il pistolotto in elogio al Maresciallo Badoglio che lo si considerava un caldo amico della Repubblica. Questa ostentata premessa che mascherava una latente paura, non servì che a prolungare di poche ore la vita dell'infausto regime": è una testimonianza del dottor Alvaro Casali.
Gli antifascisti locali si riunirono subito a Rimini, il pomeriggio del 26, nell'ambulatorio dello stesso dott. Casali, un socialista che nel '40 era stato costretto ad emigrare in Francia, da dove era tornato dopo l'occupazione tedesca, aprendo due studi, uno a Borgo ed uno a Rimini.
Da quell'incontro, nasce il progetto di una manifestazione popolare che si tiene il 28 luglio al Teatro del Borgo, alla presenza di una folla strabocchevole.
La vedova del dott. Casali, Antonia Amadei, ricorda che da Borgomaggiore gli antifascisti in corteo salirono al Palazzo della Reggenza, "per chiedere le dimissioni del Governo e lo scioglimento del Consiglio fascista".
Il giorno prima, 27 luglio, era stato sciolto il partito fascista sammarinese. Nella riunione del 26 a Rimini, era nato il "Comitato per la libertà" che il 27 tiene una seconda riunione "nella quale si decise di rompere ogni indugio e di passar la sera stessa all'azione, soprattutto perché nella stessa mattina i fascisti di San Marino avevano assunto un atteggiamento di sfida ed avevano promesso, siccome il loro vecchio sistema, bastonate e piombo ai loro oppositori", si legge in un numero unico del Comitato stesso, edito il 3 settembre, con il titolo "28 luglio".
"La notte non si dormì", prosegue il foglio: "Giovani vibranti d'entusiasmo e di fede s'irradiarono per ogni frazione della Repubblica, chiamando a raccolta il popolo alla riscossa...". All'alba del 28, "una folla, forse non mai adunata nel nostro paese", invase "le anguste vie del Borgo, raggiante di sole e di gioia".
Campane a festa.
Il comizio di Borgo fu presieduto da Francesco Balsimelli che poi guidò il corteo assieme all'avv. Teodoro Lonfernini e ad Alvaro Casali.
"Si svolsero lunghe trattative dei dimostranti con i Capitani Reggenti che infine decretarono lo scioglimento del governo. A mezzogiorno fu costituito un governo provvisorio di venti membri, che nel pomeriggio fu poi allargato a trenta. Tra i quali mi ritrovai anch'io, ventitrenne", spiega Federico Bigi, noto esponente democristiano.
Suonarono a festa tutte le campane. Alla testa del corteo c'erano le bande musicali, racconta una cronaca del tempo, dove si legge anche che i fascisti sammarinesi si erano illusi di tenere il potere pure dopo il crollo di Mussolini.
Chi erano gli uomini del fascio sul Titano? "Praticamente... un unico personaggio con i suoi famigliari riassumeva tutti i poteri effettivi. Si tratta di Giuliano Gozi, al quale non si perdona d'esser stato accentratore assolutista, despota, segretario al Ministero degli Interni; egli assunse anche quello degli Esteri, vale a dire l'intero Gabinetto sammarinese che si compone appunto di due soli Ministri", prosegue quella cronaca.
Come un dittatore, "S.E. Gozi nominò vice cancelliere un suo cugino, Enrichetto Gozi, e Segretario del partito fascista sammarinese il fratello Manlio".
[Pagina tratta dal cap. II de "28 luglio 1943, San Marino volta pagina. I giorni dell'ira, 4. Settimanale "il Ponte", Rimini, 04.03.1990.]
Antonio Montanari




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