Diario italiano
Il Rimino 158, anno XI

Febbraio 2009


08/02/2009
La svolta del Colle


1. Carlo Azeglio Ciampi conferma la gravità della crisi istituzionale nella quale il capo dell'esecutivo ha fatto precipitare l'Italia.
Intervistato da Sebastiano Messina su "Repubblica", l'ex capo di Stato ha detto: il presidente della Repubblica "non può essere ridotto a un passacarte del governo".

Il problema riguarda la valutazione dei "casi straordinari di necessità e d'urgenza" previsti dalla nostra Costituzione per i decreti-legge (art. 77).
Ciampi spiega che "il Capo dello Stato emana i decreti legge, cioè li firma".
La firma, precisa, "non è affatto un atto dovuto. Il presidente della Repubblica deve essere convinto della necessità del provvedimento. Non può essere ridotto a uno spolverino, a un passacarte del governo. La sua firma deve essere un atto convinto, meditato. Non è affatto un visto. Rientra pienamente nei poteri che gli assegna la Costituzione".

2. Ciampi è un galantuomo. Le sue parole vanno accolte come una lezione utile per valutare la situazione di crisi istituzionale voluta da Berlusconi per spianarsi la strada (è storia vecchia...) verso il Quirinale.

Nell'aprile 2008, Ciampi e Napolitano furono attaccati da Berlusconi per lo stesso motivo di oggi, i decreti-legge: "Sappiamo che ogni decisione del Consiglio dei ministri dovrà passare per le forche caudine di un capo dello Stato che sta dall'altra parte. Ricordo i rapporti con Carlo Azeglio Ciampi...".

Il Quirinale allora risposte: "La presidenza della Repubblica, chiunque ne fosse il titolare, ha sempre esercitato una funzione di garanzia...".
Così si espresse Ciampi: "L'obiezione da noi mossa al testo inviatoci allora da Palazzo Chigi, prima che fosse approvato al Consiglio dei ministri, riguardava solo l'incostituzionalità del premio di maggioranza nazionale per il Senato, che era in palese contrasto con l'articolo 57 della Carta".
Ciampi, dichiarò P. F. Casini oggi, è "un galantuomo che ha fatto onore all'Italia".

3. Nel luglio 2007, Napolitano aveva invitato tutti, maggioranza ed opposizione, a "calmare i bollenti spiriti".

Successivamente, Napolitano si è sempre adoperato per le riforme condivise. Lo scorso luglio, parlando della firma del "lodo Alfano", cominciavano il post così: "Sul primo Colle d'Italia si corre una gara che mira non a distruggere ma a consolidare la Costituzione".

Aggiungevamo: "Napolitano è una persona perbene. La sua prudenza politica lo ha portato a scegliere la firma del "lodo Alfano", quando avrebbe potuto percorrere altre due strade".

4. Adesso Napolitano ha abbandonato quella linea di prudenza istituzionale che gli era apparsa necessaria in vita del traguardo delle riforme condivise.
Davanti al ripetersi di un contrasto insanabile con palazzo Chigi, Napolitano non poteva aderire ad un decreto che non riguarda questioni politiche come il "lodo Alfano", ma ben più delicate e sottili questioni giuridiche come la sorte di una persona malata.

Allora, nello scorso luglio, Carlo Federico Grosso scrisse sulla "Stampa" parole profetiche: "Di mediazione in mediazione, il quadro delle riforme compiute o in gestazione [...] è comunque desolante. Si è trasformato il presidente del Consiglio in una sorta di Principe liberato, sia pure a termine, dalle normali, doverose, responsabilità giudiziarie...".

La svolta del Colle chiarirà molte cose, almeno ci auguriamo per il bene della democrazia. Di quella democrazia nata, assieme alla Costituzione repubblicana, dalla tragedia di una guerra voluta dal fascismo, come Berlusconi sempre dimostra di non voler ricordare.

4. Casini difese Ciampi. "Rispetto" ha manifestato adesso a Napolitano. Ma nello stesso tempo ha dato il suo consenso al governo. Equilibrista, Casini aspetta il passo falso di Berlusconi per accreditarsi come candidato del Vaticano alla guida dell'Italia. Quel Vaticano, il cui stato confusionale (con "enorme caduta di credibilità") è analizzato da Barbara Spinelli nel suo editoriale sulla "Stampa", intitolato "Il potere apparente della Chiesa".

5. Di Pietro oggi scrive: "Essere descritti come uno che sta con Berlusconi, proprio nel momento in cui lui sta cercando di dare il colpo finale alla democrazia italiana, fa venire la pelle d'oca solo a pensarci". Si riferisce a quanto riportato stamani dalla "Stampa ": "Non ho mai parlato con l'asserito intervistatore".


07/02/2009
Chi comanda?


E' stato breve il passo per Berlusconi dal discorso generico ("Non mi siederò mai al tavolo con questa sinistra leninista e antidemocratica. E sulla giustizia sono pronto a cambiare la Costituzione"), alla precisa minaccia sbattuta in faccia al presidente della Repubblica: "Se non ci fosse la possibilità di ricorrere ai decreti tornerei dal popolo a chiedere il cambiamento della Costituzione e del governo".

Ciò che addolora è il terribile gioco politico fatto sopra un dramma, quello di Eluana Englaro e della sua famiglia.

Approfittando di questo dramma, Berlusconi ha cominciato a calpestare la Costituzione (*).

(*) Art. 77 .

Quando, in casi straordinari di necessità e d'urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni.

I decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti.


07/02/2009
Infezioni


"Sarà dunque possibile che, dopo quarant'anni la 'Gazzetta ecclesiastica' abbia infettato Parigi e la Francia, e che cinque o sei persone bene unite non siano consapevoli di prendere le parti della ragione?". (Voltaire ad Helvétius, 1763)

06/02/2009
Leghismi psichici (... tra Rimini e Cesena)


Non soltanto la Lega ha i suoi delicati razzismi. Il male è contagioso.
A livello governativo, il morbo si è diffuso ampiamente, se si è arrivati alla spaventosa norma sulla "Medicina anti-clandestini".
A livello "popolare", di noi gente comune ovvero non politici, basta affacciarsi fuori del proprio giardino per essere considerati con il pregiudizio che vi fa sospettosamente forestiero.

Anni fa a Ravenna parlavo con un commerciante. Mi chiese da dove provenissi. Rimini, gli risposi. Commentò in dialetto: "Ostia, sia di giù...".
Una studiosa ravennate, nell'intervallo di un convegno storico, mi chiese scusa se riteneva Rimini una "fogna".
Un ex ambasciatore, originario di Cesena, mi raccontava con raffinata eleganza di aspetti della vita riminese, con quel tanto di aristocratico disprezzo che lo aiutò nel definire "mafiosa" la mia città.

A Cesena esce un volume in cui un riminese scrive cose inesatte al limite della diffamazione contro altri riminesi. E gli amici cesenati si giustificano accusando noi riminesi di essere litigiosi.

Sono uno di quelli presi per i fondelli: è stato scritto all'incirca che un nostro libro del 2004 ricalca un testo storico ottocentesco tranne che nella copertina.
Il sottoscritto vi ha composto le vicende cittadine dal 1859 al 2004.
La "pagella" apparsa a Cesena fa semplicemente ridere. Ma quelli che hanno pubblicato il volume cesenate, ci fanno sapere ufficiosamente di non coinvolgerli nelle nostre beghe interne.

Non si accorgono che la responsabilità dell'accaduto è loro, in quanto editori ufficiali del volume di una società alla quale siamo iscritti con regolare versamento di quota.
Ovvero dovremmo pagare questa quota per farci offendere...

Tu gli spedisci le dimissioni, e non ti rispondono. Gli mandi una relazione da trasmettere ai "probi viri" e fanno finta di niente...
Allora trasmetto un fax per chiedere conferma (nessuna risposta anche stavolta). E mi firmo "Ariminensis natione, non moribus", riecheggiando il passo dantesco della lettera a Cangrande (Ep. lat. 343).

Ed aggiungo a mo' di placida beffa, tanto per dire che riminese sono sì ma non troppo, una tabella con la "composizione del DNA geografico, secondo il metodo Druger-Kazzman", così concepita:
50% di origine forlimpopolese, per il ramo materno;
25% di origine riminese,
15% di provenienza toscana e
10% di influsso dalmata per il ramo materno.

Soltanto dopo il fax, alleluja, è stata data notificazione scritta di ricevimento delle precedenti missive.

Su questi fatti ho pubblicato tempo fa in un blog appartato un testo sanamente satirico. Lo riporto qui per dimostrare che non sono litigioso come i riminesi sono considerati a Cesena. E che ho intitolato "La cultura non è un derby di calcio", in una sezione dedicata alle "patologie riminesi".

Ecco quel testo.
"Si sa com'è la vita di provincia. Monotona. Anche perché affollata da molti personaggi che non danno il meglio della loro intelligenza, nonostante si sforzino continuamente. Ed intristiscono loro e gli altri con le loro fissazioni paranoiche di considerarsi i migliori di tutti, gli unici depositari della sapienza, i soli a poter discutere di tutto, e quindi obbligati moralmente a dover dare le pagelle a tutti gli altri.

E' successo proprio ora anche a me di essere "vittima" di questa ipertrofia narcisistica di un qualche tristo cavaliere che, nel fare certi suoi discorsi "dall'alto della cattedra", ha voluto sentenziare su cose che ha dimostrato di non aver compreso, il poveretto.

Dunque. Nel 2004 esce una breve storia di Rimini in cui io scrivo la parte finale, dal 1859 al 2004.
Orbene, anche questo capitolo è accusato di essere uguale (tranne la copertina...) ad un testo classico della storiografia cittadina, uscito a metà Ottocento...

Non si tratta di libera espressione di un pensiero critico, come sostengono i responsabili dell'edizione del volume in cui sono apparse queste pagelle.
E' più semplicemente l'effetto perverso di un eccesso di fatica mentale da parte del poveretto che certi sforzi non li mai potuti digerire... Non è un problema sorto con l'età ma congenito.

Il triste motivo della difesa dell'editore è che a Rimini queste cose succedono perché è popolata di persone invidiose e litigiose.
Agli abitanti della città in cui esiste quell'editore, allora, usando lo stesso tono da derby calcistico, potremmo dire che essi sono semplicemente dei leccatori di piedi in virtù del fatto che da Rimini per pubblicare quelle estreme verità ricevono le somme necessarie.
E si sa come succede in queste cose, si principia dai piedi e si finisce leggermente sopra. De gustibus."


05/02/2009
Sergio Zavoli, il sempreverde


Auguri, Sergio Zavoli. A quasi 86 anni rappresenta un mondo ormai scomparso. Ancora in prima linea, come sempre.
Protagonista elegante della scena nella nostra radio prima e poi nella tv, sofisticato parlatore, ora politico un po’ spupazzato per sanare situazioni alle quali guardiamo tutti da osservatori smaliziati con assoluta indifferenza.
Figurarsi se alla sua veneranda età aveva bisogno di presiedere una commissione di vigilanza Rai. Ma tant’è.

Quarant’anni fa composi in un foglio locale una serie di ritratti di glorie concittadine. Per Zavoli intitolai "Una lagrima sul video". Raccontavo tra l’altro di quando arrivava sul porto, accompagnato dall’amico pittore che gli reggeva un sacchetto pieno di carote, che lui, il divo del “Processo alla tappa”, gustava e masticava con una calma olimpica. L’amico pittore se la prese a male, non so lui.
Davanti a lui da ragazzo feci una figura terribile, proprio sul porto. Mio zio Guido Nozzoli, suo amico, si era prefissato di fare di me un provetto nuotatore. Alla prima lezione scivolai sui mitici scogli, tagliandomi un polpaccio. Finì lì la mia possibile carriera sportiva, alla quale ero completamente negato. Mi bagnai poi sempre e soltanto sul "bagnasciuga" (so che si dice battigia...) lungo la spiaggia libera, conversando con l’antico amico pittore della combriccola. Che era stato tra l’altro anche mio professore, oltre che amico di famiglia.

Zavoli aveva avuto un debutto giovanile nel giornalismo, sopra il foglio fascista "Testa di Ponte".
Immaginate facilmente come, negli amarcord odierni, quel titolo venga spesso oscenamente deformato.
Due assaggi della sua prosa. «Oggi più di ieri abbiamo bisogno di scuotere i famosi “montoni belanti”, “pecore rognose”… Attorno a te c’è ancora troppa gente che non sa e non è degna di vivere questo grande momento… Deve essere dato a tutti il privilegio di ‘vivere’ e ‘vincere’. Con ogni mezzo». E poi: «Io non sono psicologo: pure con la fiducia nelle nostre idee e in quelle delle generazioni capaci di comprenderci, arriveremo!».

«Salvò quei giorni di ragazzo […] con franco pudore». Zavoli ricorda in «Romanza» (1987) il 25 luglio 1943 vissuto da suo padre che con «una dignità doverosa» fa sparire nell’orto, in una fossa profonda quasi un metro, «le apparenze» del credo fascista, «giacca, pantaloni, camicia, cravatta, cinturone, mostrine e stivali».

Nei mesi successivi «quando qualcosa di ridotto al minimo, di irrimediabile e violento tenterà di riprodurre quel potere sconfessato, sarà come se nulla del falò riacceso potesse più riguardarlo. E ciò che del regime venne dopo restò al di fuori della sua storia e si svolse senza di lui, persino contro».

A quel «falò riacceso» dai repubblichini, invece Sergio portò qualche legnetto. Che lui ha però sempre rimosso, infatti nell’autobiografica «Romanza» non ne parla. Quando all’inizio del 1943 Gino Pagliarani e Guido Nozzoli erano finiti in carcere, dichiarò nel 1983, si istruirono «dei processi agli amici di Gino. Si voleva stabilire chi stava con Gino, chi ci stava tiepidamente, chi invece con convinzione: o, peggio, chi non ci stava affatto; o, peggio ancora, chi non ne voleva sapere neanche un po’. E nascevano delle sentenze inappellabili che scavavano degli abissi, oppure cementavano delle solidarietà che durano ancora da allora. Ecco quindi profilarsi la presa di coscienza di ciò che stava avvenendo: e fu grazie ai miei due amici», Gino e Guido.

Nel 1994 Gino Pagliarani interviene a proposito dell’orazione commemorativa tenuta da Zavoli ai funerali di Federico Fellini: «Mi dicono che […] incantò la folla. Non mi stupisce. Conosce e pratica virtuosamente l’arte della retorica (fin dai temi del liceo che puntualmente mi leggeva). Gli riconosco -nonostante qualche bidone- anche la volontà e il merito di aver riparato con molte delle sue iniziative televisive certi trascorsi giovanili non di antifascista». Qualcuno a Rimini ricordava Zavoli in compagnia, con tanto di divisa e di mitra a tracolla, del capo repubblichino che catturò i Tre Martiri poi impiccati, al tempo del «falò riacceso».

Altri rammentavano la presenza di Zavoli nella vicina Coriano, aprile ’44, quando avvenne la cattura di due «disertori», Libero Pedrelli e Vittorio Giovagnoli, poi affidati al tribunale tedesco che li fece fucilare il 18 maggio ad Ancona. Il ricordo fu riacceso quando a Coriano giunse una troupe della Rai per un’inchiesta televisiva sul fascismo diretta da Zavoli. Gli operatori non furono però guidati dallo stesso Zavoli, ma da un giornalista della sede Rai di Bologna.

Potete scaricare il mio libro "Giorni dell'ira. Settembre 1943 - settembre 1944 a Rimini e a San Marino". Il volume e' leggibile pure da questa pagina.


04/02/2009
InCuria romana


Proviamo a rileggere il caso del vescovo lefebvriano Richard Williamson non alla luce degli ultimi inevitabili sviluppi (dovrà ritrattare le sue dichiarazioni negazioniste della Shoah), ma in relazione ad un episodio accaduto giusto due anni fa. Gennaio 2007, Stanislaw Wielgus è nominato dal Vaticano arcivescovo di Varsavia.

Salta poi fuori che il prelato è stato negli anni della guerra fredda un informatore della polizia segreta comunista. Il Vaticano fa marcia indietro. Wielgus è costretto ad ammettere le sue responsabilità. Ed a dimettersi. Arcivescovo di Varsavia è nominato Kazimierz Nycz.

La colpa di tutta la vicenda fu data a Wielgius, come si lesse in un sito vaticano ufficioso: «Il vescovo ha assicurato tutti, Santo Padre compreso, che non aveva collaborato con i servizi comunisti e non aveva fatto del male a nessuno» (22 gennaio 2007).

Anche Bruno Vespa aveva incolpato Wielgus per salvare l'onore del Vaticano. E per dimostrare che in Italia, alla tivù, si scambia sempre l'informazione con la predica. Di pensiero diverso fu lo stesso Wielgus. Che aveva detto al papa, sono sue parole, di essere stato coinvolto "con i servizi di sicurezza dell'epoca che operavano in uno stato totalitario e ostile nei confronti della Chiesa".

Alla fine risultò chiaro che nella Curia romana avevano agito in modo confuso. Allora ci chiedemmo: "è colpa di Benedetto XVI oppure si tratta di un tiro mancino della Curia ai suoi danni?"

Ora, per il vescovo negazionista, la domanda resta sempre valida. Con l'aggravante di una conferma autorevole: il cardinal Kasper, presidente della commissione pontificia per i rapporti con l'ebraismo, ha parlato di "errori di gestione della Curia". Quindi non è illecito sovrapporre gli "errori" del 2009 a quelli ricordati del 2007. Anzi facendo la loro somma, si ha uno quadro molto sconfortate degli uomini che circondano il papa.

Due anni fa mi chiedevo: dove la disinformazione si ferma e non si trasforma in uno strumento di pressione politica ben mirata verso scopi altrettanto ben precisi?
Mi ricollegavo alla presenza nell'estate 2006 a Rimini al Meeting ciellino della cosiddetta "fonte Betulla", ovvero il giornalista Renato Farina.

Disinformazione e pressioni politiche sono state presenti sin dall'inizio anche nel caso Williamson. Quello che gli si chiede oggi (ritrattare le sue dichiarazioni negazioniste della Shoah) andava fatto prima, molto prima di tutta la riabilitazione dei lefebvriani.

Il papa il 28 gennaio ha detto tardivamente "No al negazionismo ed al riduzionismo". La patata bollente del Concilio Vaticano II da far accettare ai lefebvriani, e la drammatica situazione di loro esponenti che negano la Shoah o sostengono esser state le camere a gas "usate per disinfettare", non potevano essere rimandate al "dopo-perdono" come è stato fatto. La colpa di chi è? Qualcuno in Curia ha ingannato il papa tacendogli particolari essenziali del "fascicolo"? Il ricordo del caso Wielgus allunga ombre inquietanti sui sacri palazzi.


03/02/2009
Guzzanti sputa il rospo


Ieri Paolo Guzzanti ha salutato Berlusconi sbattendogli la porta in faccia. Mossa prevedibile. Dopo che ad ottobre aveva denunciato che "qualcuno molto in alto aveva deciso in Forza Italia" di massacrarlo e dargli il "colpo di grazia".

Guzzanti forse allora alludeva al fatto che gli era stata tolta la scorta.

Ieri Guzzanti ha ribadito la sua condanna verso l'atteggiamento del cavaliere nei confronti di Putin. Non gli è mai piaciuto il "sostegno entusiasta, personale, amicale al signor Vladimir Putin per la criminale invasione della Georgia".

Poi ha aggiunto che in Italia la democrazia parlamentare vive una "condizione pre-agonica". E che Camera e Senato sono ridotti al ruolo di cani da slitta del governo che li costringe a correre "sotto i colpi di frusta dei voti di fiducia".

Ci rallegriamo che anche un acuto osservatore come Paolo Guzzanti si sia finalmente svegliato dal letargo in cui il mago di Arcore, con uno sbrigativo "a me gli occhi", lo aveva imbambolato e ridotto ad un ruolo che giustamente ora rifiuta.

Quando accadono questi fatti, il nostro pensiero nella modestia delle sue possibilità, non fa altro che ripetere la stessa domanda alle persone coinvolte: ma perché non lo avete capito prima, che vi stavano prendendo in giro?!

Senza questi illustri personaggi, che oramai si stanno stancando del mago di Arcore (ieri è stata la volta di Beppe Pisanu), il sistema berlusconiano non avrebbe potuto prendere il volo.

Quindi, caro Guzzanti, dopo la confessione piena, occorrerebbe adesso un vero atto di contrizione. Seguìto da una penitenza anche modesta. Per rispettare un po' quel rito religioso che piace tanto al governo attuale, anche se poi molti dei suoi uomini se ne fregano altamente della morale cattolica. Convinti come sono che la vendita delle indulgenze sia una pratica ancora in uso. Dando i soldi al Vaticano, sperano di essersi messi l'anima in salvo.

Non basta sputare il rospo come hanno fatto Pisanu e Guzzanti. Occorre impegnarli in attività socialmente utili per scontare le "colpe" politiche commesse sinora.
Sarebbe troppo comodo recriminare contro il vecchio dominus ed i passati alleati. Occorre un efficace segno di ravvedimento.

Seguite l'esempio di Maroni. Prima ha detto che se i ragazzi bruciano i clochard, è colpa di tutta la società. Poi per dimostrare che aveva colpito nel segno, ha rincarato la dose.
Ha detto: contro gli immigrati clandestini bisogna essere cattivi.

Sì, onorevole ministro, se i nostri ragazzi per divertirsi danno fuoco a qualcuno, la colpa è proprio della società che esprime ministri come lei.
Ma oramai è tanto il guasto che avete prodotto in questa società, che non basterà neppure cambiare governo.
E poi, diciamola tutta, chi ha voglia nell'opposizione di prendere il vostro posto? Fanno una vita tanto comoda nel Pd di Veltroni....


02/02/2009
Non facciamo gli indiani


Come a Rimini nel novembre scorso. Appiccano il fuoco a qualcuno, e poi dichiarano che volevano soltanto divertirsi.
Allora bruciò un barbone sopra una panchina lungo la strada, e vicino ad una chiesa.Adesso è toccato ad un indiano, nella stazione di Nettuno.

Come allora, anche adesso, stesse cronache: "sono ragazzi di buona famiglia".
Nulla da eccepire. Non facciamo risalire le colpe dei figli ai comportamenti dei padri.
Ma perbacco, potremo pure chiederci se, "politicamente", esiste una qualche responsabilità collettiva?

Nessuno ha ricette miracolistiche in tasca per tentare di risolvere il problema. Basterebbe avere la buona volontà di affrontarlo.

Oggi il presidente Napolitano ha preso atto che ci si trova dinanzi non a fatti isolati, ma a "sintomi allarmanti di tendenze diffuse". Con grande prudenza, ha accennato al "rischio di xenofobia, di razzismo, di violenza".

Il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, ritiene che non si tratti di un problema di ordine pubblico, ma di "un qualcosa che chiama in causa la società intera".
Avrebbe ragione, Maroni, se non fosse espressione di un partito che professa l'intolleranza.

Un suo predecessore (ed alleato), Beppe Pisanu, ha rilasciato oggi al "Corriere della Sera" un'intervista intitolata: "Immigrati, Silvio non subisca gli slogan leghisti". Maroni risponda a Pisanu, per favore.

Per la questione prettamente "politica", come dicevamo sopra, circa le responsabilità collettive, Maroni ha ragione. Ma non lo deve dire ai cronisti. Ne parli con i colleghi di governo.
Ci siamo riempiti bocca ed orecchie con la storiella del cinque in condotta. Ma la scuola non è tutto.

Lì i bulli sono identificabili e recuperabili. Fuori di lì, quanti vogliono "divertirsi" con poco, sono liberi di appiccare fuoco ad un barbone o ad un indiano.
Quale società i nostri politici vanagloriosi di stampo berlusconiano, hanno voluto proporre con la loro filosofia "commerciale"?
Il valore di una persona, ci è stato predicato sino alla nausea, risiede nel numero di telefonini che essa può avere in tasca. O nella capacità di sposare un uomo ricco se donna e di saper far soldi se uomo.

La vita è qualcosa di più complesso di queste mondanità allegre ma ridicole, imposte come modello di vita. Grazie alle quali facciamo gli indiani davanti ai veri, gravi problemi della società. E poi non lamentiamoci se certi giovani per divertirsi bruciano un uomo. Perché anche un barbone od un immigrato indiano sono uomini.


01/02/2009
Di Pietro, nuovo Mussolini?


Le molte buone ragioni teoriche di Piero Ostellino sul caso Di Pietro, nel suo "dubbio" settimanale del "Corriere della Sera" (31 gennaio), si scontrano con un dato di fatto ineludibile: che cosa ha veramente detto il leader dell'Idv? E sono fondate le sue osservazioni al capo dello Stato circa il "lodo Alfano"?

Ostellino sostiene che Di Pietro sta raccogliendo sostenitori "in quella stessa parte dell'opinione pubblica che, negli anni Venti, ingrossò, in buona fede, le file del fascismo".

Di Pietro è un nuovo (o soltanto aspirante) Mussolini? Ostellino dice: sì.
Vabbé. Per dimostrare la sua tesi, Ostellino richiama il primato della "Legge", ovvero del Costituzionalismo e della legge "uguale per tutti".
Ma è proprio questo che chiede anche Di Pietro: rispetto della "Legge" uguale per tutti.

Invece, Ostellino accusa Di Pietro di credere "in una società che persegua il Bene", realizzato da "uomini giusti" e inflessibili.
Nessuna simpatia politica per Di Pietro mi guida. Rivolgo alla vicenda soltanto uno sguardo sufficientemente distaccato. Ma consapevole che la formula dell'acqua non cambia se è inquinata. Però cambia la sostanza in sé. Ovvero l'acqua non è più potabile.

Dice Di Pietro: il "lodo Alfano" vìola la Costituzione. (Lo sostiene anche qualche emerito costituzionalista come Antonio Baldassarre.)
Gli risponde Ostellino: sei un fanatico, come quando usavi "la carcerazione preventiva per strappare le confessioni agli inquisiti".

In questo passaggio di Ostellino c'è una fallacia, come dicono i filosofi logici: ovvero Di Pietro se ha sbagliato allora (come magistrato), sbaglia pure adesso (da politico) perché si ritiene un "uomo giusto".

Ostellino attribuisce a Di Pietro argomenti mai ascoltati da lui: ovvero che il presidente della Repubblica si pronunci non tanto sul "vizio di costituzionalità" del "lodo Alfano", quanto per "ragioni morali".
Di Pietro parte dai princìpi della Costituzione per combattere il "lodo Alfano". Che considera una violazione di quegli stessi princìpi.

Non regge il paragone fatto da Ostellino, fra Di Pietro e Robespierre.
Ostellino è troppo colto per ignorare che i contesti storici (qui la rivoluzione francese del 1789, poco sopra quella fascista del 1922), sono un "tutto" essenziale per giudicare una parte lontana da essi, prima di fare dei paragoni fra quegli eventi ed opinioni espresse ai giorni nostri.

Il quale discorso nulla ha che fare con i fatti richiamati da Ostellino. Ovvero i paragoni non sono soltanto (come suol dirsi) antipatici, ma sono del tutto inadatti ad argomentazioni relative a periodi storici lontani da quello in cui viviamo. La storia non si ripete mai.
Figuriamoci se Di Pietro può essere raffigurato come un Mussolini od un Robespierre... Mica siamo ad un ballo in maschera...

La politica 'proposta' da Di Pietro può apparire una "regressione", come sostiene Ostellino. Può sembrare od essere, lo stesso ex pm, un "demagogo". Ma per motivi del tutto estranei alla questione del "lodo Alfano".

Proprio per salvaguardare il primato della "Legge" uguale per tutti, sarebbe utile che i liberali come Ostellino si pronunciassero sul "lodo Alfano". E', sì o no, una violazione del primato della "Legge" uguale per tutti?
Non è possibile menar il can per l'aia. Ostellino sa che ogni azione politica avviene in un quadro in cui le responsabilità sono anche di chi la provoca. O di chi non fa nulla perché essa non abbia effetto.
Perché noi dobbiamo dimenticarci di questi elementari princìpi della storiografia liberale alla quale Ostellino dovrebbe richiamarsi per restare fedele al suo credo politico?

Se Di Pietro è un demagogo, lo era sin dall'inizio o lo è diventato soltanto ora? E poi, come demagogo, di chi fa il gioco? (Chi c'è dietro di lui?) Non sarà che il "morbus arcorianus" contagia pure gli oppositori?

Di Pietro, conclude Ostellino, "incarna la reazione". Ovvero: è peggio di Berlusconi?
Chi ha inventato il "lodo Schifani" in parte riversato in quello Alfano? Berlusconi o Di Pietro?


I post precedenti di questo mese.

Anno XI, n. 158, Febbraio 2009
Date created: 01.02.2009 - Last Update: 06.02.2009, 18:32/
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