Politica. Articoli vari del mese di Novembre 2007, blog de "La Stampa"


30/11/2007
Diabolico Bacone
Il papa è partito da lontano nella sua enciclica "Spe salvi" (Salvati dalla speranza), pubblicata stamani. È partito da Francesco Bacone (1561-1626). Ed è arrivato a cancellare in un sol colpo tutta la storia del pensiero moderno: «Francesco Bacone e gli aderenti alla corrente di pensiero dell'età moderna a lui ispirata, nel ritenere che l'uomo sarebbe stato redento mediante la scienza, sbagliavano. Con una tale attesa si chiede troppo alla scienza; questa specie di speranza è fallace. La scienza può contribuire molto all'umanizzazione del mondo e dell'umanità. Essa però può anche distruggere l'uomo e il mondo, se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa. (...) Non è la scienza che redime l'uomo. L'uomo viene redento mediante l'amore».
Giustissima la conclusione, la storia della bomba atomica è lì a raccontare che cosa può fare l'uomo con un prodotto della scienza. Ma non è la scienza in sé ad essere negativa, è l'uomo che la rende tale. E proprio per questa conclusione, non possiamo non ricordarci dei roghi dell'inquisizione. Il tema è vasto e noioso, soltanto due battute. È esistita anche una corrente cristiana dell'illuminisno. E senza l'illuminista Montesquieu non ci sarebbe l'idea moderna di Stato, saremmo ancora nel medioevo.
Era profondamente umana la distinzione giovannea fra errore ed errante. La storia delle popolazioni affamate e sottoposte a violenze ed umiliazioni per cui alla fine sognavano il riscatto dalla sofferenza subìta e dalla povertà patita, è cosa ben diversa dal «dio che ha fallito», del comunismo, del marxismo, delle rivoluzioni. Tutto questo sembra essersi perduto nel panorama prospettato dal papa.
La parola povertà c'è una sola volta nell'enciclica: nell'espressione «povertà di Dio». C'è la frase sulla «fossa della dimenticanza dell'altro» che rimanda alla carità. C'è poi un passaggio da meditare anche sul piano politico: «...se, in definitiva, il mio benessere, la mia incolumità è più importante della verità e della giustizia, allora vige il dominio del più forte; allora regnano la violenza e la menzogna. La verità e la giustizia devono stare al di sopra della mia comodità ed incolumità fisica, altrimenti la mia stessa vita diventa menzogna».
Questo post nasce da una ricerca veloce su alcuni punti del testo pontificio, quindi è estremamente superficiale. Ciò non toglie che la sua condanna del pensiero moderno non faccia immediatamente impressione. E spaventi anche un po', pure sotto il profilo squisitamente politico sul quale può avere ricadute molto gravi.

29/11/2007
Otto milioni di biro
Rimandano agli infausti otto milioni di baionette che costarono caro all'Italia, gli otto milioni di biro che Silvio Berlusconi invoca per farsi eleggere dal "suo" popolo a leader per le prossime elezioni, per il prossimo governo, per il sicuro viaggio alle Bahamas che promette a tutti i suoi sostenitori. Nella speranza di ricevere da loro una donazione simile a quella del salvadanaio di 700 euro che un signore in buona fede ed in forte speranza gli ha consegnato. Ignorando che una goccia d'acqua nel mare non fa nulla, mentre serve a dissetare chi ha sete.
Ma sappiamo come va il mondo. Uno dice a me gli occhi, e gli altri gli danno anche il portafoglio e corrono a casa a prendere il salvadanaio. Poi magari dopo qualche tempo, si battono una mano in fronte, e si rivolgono gratuitamente delle offese meritate.
Bravo Cavaliere, ha ragione quando afferma che in Italia nessuno si può paragonare alla sua storia personale, al suo successo: «Io non ho mai fallito in un mio sogno, e se me lo pongo lo posso fare».
Bravo. Bravissimo. Come il Barbiere di Siviglia. Se mi consente, dico che se avessi anch'io tutti i suoi soldi non sbaglierei un colpo. Da noi dicono che i soldi fanno andare l'acqua all'insù. Per noi è già fatica farla andare giù, l'acqua, dopo aver dato il meglio di noi stessi nei cosiddetti luoghi di decenza.

28/11/2007
Italia in cerca d'autore
Il titolo di questo post al commento inviato da Marcello Forcini (che ringrazio assieme a Gian Contardo Colombari per un altro suo interessante intervento inserito nel mio blog).
Ieri sera era andato a letto contento, dopo un'ora di ascolto di «Ballarò». Ministri ed industriali ci avevano spiegato che le raccomandazioni in Italia non esistono.
Soltanto quel guastafeste di Diliberto, aveva messo il coltello in una piaga purulenta, il secondo comma dell'art. 3 della nostra Costituzione che esattamente recita: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Stamattina il risveglio ha cancellato le illusioni di ministri ed industriali, con l'articolo di Michele Ainis sulla «Stampa» che comincia così: «In Italia farsi largo sulla base del talento è diventata un'impresa da alpinisti. Sulla competenza trionfa per lo più l'appartenenza, la tessera di partito, la spintarella di cricche e camarille».
Bastano queste parole per chiudere non il discorso (ovviamente), ma la porta alla speranza. Dappertutto possiamo incontrare quel personaggio che Ainis riprende da uno scritto di Francesco Merlo: «Nel comune di Catania c'era un ragazzo timido e silente, che stava lì per esclusivi meriti parentali. Chi era? Il "muto agevolato"».
Per ogni «muto agevolato», ci sono tanti «evitati speciali» come li chiamo io.
Perché la raccomandazione, quale teoria e prassi dell'assunzione, viaggia sempre su due binari. In uno ci sono quelli da mandare avanti a forza di calci nel culo per fargli fare carriera. E sull'altro quelli da stoppare con altri calci ma nelle più dolorose parti anteriori del corpo, dal viso ai ginocchi, sulle quali viaggiava il mitico «oselin de la comare» di Cochi e Renato, però con diversi intendimenti.
In quest'Italia «in cerca d'autore» (di un autore che sappia scrivere un copione decente alla luce del sole), dove (come è stato spiegato nella prima ora di «Ballarò») nessuno raccomanda nessuno nei ministeri, nelle regioni, nelle province, nei comuni, in quest'Italia avvengono tuttavia i fatti "miracolosi" di cui parla Ainis: «l'appartenenza, la tessera di partito, la spintarella di cricche e camarille».
Quella ragazza che ha parlato della sua lettera inviata al presidente della Repubblica, chiedendo una raccomandazione dopo tre anni di infruttuosa ricerca di un posto, è apparsa nella semplice prospettiva degli «esclusi». Di chi non appartiene a nessun clan, partito o famiglia. Mi si dimostri il contrario, si smentisca Ainis, signori dei ministeri e dell'industria.
Le storie opposte a quella della ragazza che ha scritto a Napolitano, ovvero le storie di carriere garantite, fulminanti e protette, sono note, ma non si possono raccontare. Dare del raccomandato ad uno, temo possa esser considerato una grave offesa che potrebbe costare cara in sede giudiziaria. Come si dice, mazziati e cornuti.

27/11/2007
Modelli e misteri
A proposito del «modello Sarkozy» (vedi post del 25 scorso) sugggerito per l'Italia da Mario Monti in un editoriale del «Corriere della Sera» (25.11), ieri c'è stata una diretta risposta su «Repubblica» in un fondo di Bernardo Valli.
La riassumo con una citazione che chiude il discorso laddove gli altri non lo aprono: «Il decisionismo» di Sarkozy sarebbe impossibile nella Repubblica italiana perché Sarkozy «è un prodotto della Quinta Repubblica, vale a dire della monarchia repubblicana creata da de Gaulle mezzo secolo fa, e ritoccata dallo stesso generale quattro anni dopo, nel 1962, con l'aggiunta dell'elezione a suffragio universale del presidente».
Noi italiani siamo così fantasiosi che abbiamo etichettato una fase storica come «seconda repubblica», senza che quella stessa fase ne avesse le caratteristiche e le premesse necessarie.
Nessuna modifica costituzionale ha infatti sancito il passaggio dalla prima alla seconda.
Non paghi di tanti eccessi di retorica nel parlare politico, adesso stiamo addirittura coniando la definizione di «terza repubblica» forse per onorare Veltroni, non certo Prodi. Che dal sindaco di Roma e compagnia cantando (anche tra l'opposizione), verrebbe lasciato sotto le macerie da rimuovere in fretta della seconda repubblica...
Andreatta Per spiegare un po' di storia italiana passata e recente, richiamo due articoli apparsi sulle pagine bolognesi di «Repubblica». Filippo Andreatta, una delle teste pensanti del gruppo prodiano, dichiara in un'intervista a Luciano Nigro, partendo dalla situazione locale (in Emilia-Romagna): «... il Pd sta fallendo: si sta rivelando la somma di due forze e dei loro difetti».
E poi: «Gli ex della Margherita si sentiranno lacerati tra lo strapotere dei Ds e le tentazioni centriste».
Apro una parentesi prima di passare alla seconda citazione. Sull'importanza politica nazionale del «caso Bologna» (critiche a Cofferati e nostalgia di Guazzaloca), ha parlato sulla «Stampa» del 24.11 Francesco Ramella, nel pezzo intitolato «Antipolitica nelle terre rosse».
Un passo è da ricordare a futura memoria: «...i segnali di difficoltà del centro-sinistra, in queste zone, non sono certo circoscritti al capoluogo bolognese. Le ultime amministrative di maggio, ad esempio, pur confermando una netta prevalenza del centro-sinistra, hanno fatto anche affiorare diversi cedimenti elettorali. Sia sul fronte delle astensioni, che su quello dei comportamenti di voto, dove si è registrato un consistente calo di consensi per le liste dell'Ulivo».
Ramella sottolinea la speranza di «forte rinnovamento» posta nel Pd da molti elettori di centro-sinistra. Quanto sta succedendo a Bologna dimostra l'esistenza di sintomi di malessere, per cui «è bene che la nuova dirigenza del partito democratico non deluda le aspettative mobilitate con le primarie».
Infine eccoci alla seconda citazione da «Repubblica» di Bologna di stamani.
Si tratta di un articolo che recensisce il libro «Uno bianca e trame nere» di Antonella Beccaria (ed. Stampa Alternativa).
Lo ha scritto una agente di Polizia, Simona Mammano: «Una (questione irrisolta) per tutte: come è stato possibile che un commando di assassini potesse operare indisturbato per così tanto tempo?».
Simona Mammano aggiunge: «Questa, dunque, è una storia scandita da errori, valutazioni sbagliate, depistaggi palesi e false testimonianze».
Una storia che riguarda anche la politica della nostra Repubblica. Prima, seconda o terza, non fa differenze.
Beccaria. Il libro «Uno bianca e trame nere» può essere scaricato dal blog di Antonella Beccaria, dal quale riprendo le due foto riprodotte in alto e qui a sinistra (l'autrice del volume).

26/11/2007
Cesa, anzi Rutelli
Ringrazio Gian Contardo Colombari per l'invito a commentare le dichiarazioni dell'on. Cesa pubblicate sui quotidiani di stamane.
Il segretario dell'Udc ha detto: «Consiglierei a Berlusconi di fare uno sforzo di umiltà. Ciascuno di noi può aver commesso degli errori, ma le principali responsabilità sono le sue perchè troppo spesso ha anteposto i propri interessi privati a quelli generali del Paese».
Non posso far altro che ripetere con Gian Contardo: ma lor signori dove erano, dormivano profondamente in Consiglio dei ministri o leggevano i fumetti?
La cosa più curiosa è che dobbiamo disilludere l'on. Cesa, nel caso avesse pensato d'aver raggiunto un risultato di originalità con le parole riportate.
La stessa frase, più o meno uguale, infatti è stata pronunciata all'inizio di ottobre dall'on. Francesco Rutelli in vista delle cosiddette primarie per il Pd: la nostra classe dirigente «con l'alibi artificiale della voragine democratica ha istituito una vera e propria "casta" che ha anteposto per troppo tempo gli interessi e le beghe personali, alle reali necessità del Paese».
Se Rutelli aveva avuto la delicatezza di fare di tutta un'erba un fascio (niente allusioni, per carità), chiamando in causa l'intera «classe dirigente» italiana nel suo complesso, il bravo Cesa ha pronunciato nome e cognome, trovando l'imputato ideale nel cav. Silvio Berlusconi.
Che oggi è messo sotto accusa da tutti. Forse per questo merita di essere difeso anche da chi, come il sottoscritto, non ha mai avuto né vicinanza, né simpatia per la sua parte in commedia. Si faccia sentire: e per prima cosa, parlando da re a re, si unisca alla pernacchia di Luciana Littizzetto agli eredi di Casa Savoia.
Dopo aver inserito questo post, leggo un invito di Demata, che segnalo linkando il suo testo: riguarda una notizia drammatica che lui ha ripreso dalla BBC e che i giornali nostrani non hanno dato, «Una donna di 19 anni è stata condannata a 6 mesi di carcere e 200 frustate, dopo essere stata stuprata da un almeno 5 uomini».

25/11/2007
Pasticci e bisticci
Il «modello Sarkozy» è proposto per l'Italia da Mario Monti in un editoriale di oggi sul «Corriere della Sera». Se la Francia potrebbe suggerire un progetto politico per risolvere tutti i nostri problemi, è alla Germania che si guarda per il sistema elettorale, con una spruzzatina di tipo spagnolo. Ha riassunto efficacemente Michele Ainis il 21 novembre sulla «Stampa»: «Pasticci forieri di bisticci». Per cui «se non hai tre lauree in tasca, non ci capisci un fico secco».
Sembra che in Italia, tolte le auto, le scarpe ed i vestiti, ora non sappiamo più fare nulla. Non siamo internazionalisti per convinzione. Ma per mancanza di idee. Per quindici anni hanno spiegato che col proporzionale l'Italia era andata in malora, e che il bipolarismo l'aveva salvata. Signori, avevamo compreso male. Forse. Adesso si torna al proporzionale. Per fare che cosa, non lo sapremo mai. Forse per far passare altri quindici anni. Dopo di che, diremo da capo che occorre passare al bipolarismo. Fate vobis. Tanto noi cittadini siamo cortesemente esclusi dalla partecipazione.
Oggi Lucia Annunziata scrivendo dei «fratelli coltelli» Silvio e Gianfranco, ovvero Berlusconi e Fini, ha ripreso da un saggio di Angelo Melloni una citazione: «l'anomalia italiana è che si sia confusa la destra con Silvio Berlusconi». Ma la storia è fatta di anomalie, non di fattori logici. Era il buon Hegel a dire, in un passaggio (divenuto famoso, ma secondario di un suo testo), che «ciò che è razionale è reale». Provate a dirlo a chi ha vissuto i gulag ed i lager.
Piero Ottone il 21 novembre ha pubblicato su «Repubblica» una «Lettera a Berlusconi» da cui cito il finale: «Pensi solo alla tua persona, al tuo successo, alle tue vendette. [...] Confermando così che la tua avventura è stata, per il nostro paese, un immane disastro».
Oggi re Silvio vorrebbe solo due partiti, insomma come Rai e Mediaset. Ovvero intercambiabili ed alla bisogna vasi comunicanti. Con lo stesso liquore. Stiamo attenti a non scontentarlo troppo: potrebbe chiedere i danni, come i signori Savoia. Ai quali potremmo mandare le cartoline paesaggistiche dell'Italia bombardata: il nonno Sciaboletta non ne ha avuto nessuna colpa?
Ieri su «Repubblica», Salvatore Borsellino ha ricordato i poliziotti della scorta che morirono con suo fratello Paolo, proteggendone il corpo da una devastazione che colpì invece i loro. È una lettera molto dura che andrebbe studiata nelle scuole. Un solo particolare. Lo «Stato che mi vergogno di chiamare con questo nome» ai genitori di Emanuela Loi, uccisa con i colleghi in quell'attentato, ha richiesto il costo del trasporto della sua bara da Palermo a Cagliari. Modello italiano?
Ieri al corteo delle donne, alcune ministre e deputate sono state contestate da poche ragazze. Per quasi ognuna di loro, l'on. Melandri ha trovato un aggettivo: «Arrabbiate, violente, sciagurate, cretine». Poi ha tirato un sospiro di sollievo, aggiungendo: «E poche».

Certe disperazioni
Per puro caso nel post di ieri, «Certe nonne», ho tirato in ballo la virtù della speranza.
È di oggi l'annuncio che il 30 novembre sarà pubblicata la seconda enciclica di Benedetto XVI, intitolata «Salvi grazie alla speranza».
Coincidenza fortunata, tra il post e la notizia.
Il tema della speranza ha però un risvolto tutto umano che non dipende dai teologi soltanto o da un messaggio papale.
La speranza deve esser anche controparte della vita sociale di ogni giorno. Ovvero il frutto di una situazione nella quale ogni cittadino possa avere fiducia non soltanto in se stesso, ma anche nelle forze economiche e politiche con le quali viene a contatto nella sua esperienza giornaliera, direi quasi di momento in momento.
È molto facile promettere una salvezza ultraterrena, quando tutto può contribuire a rendere infernale il tempo presente.
Una notizia proveniente da Pesaro dà la dimensione delle tragedie in cui la speranza non ha più posto, e lo cede alla disperazione. Forse covata lungamente nel silenzio di un colloquio con la propria coscienza.
La morte di una figlia (22 anni) gravemente malata, per mano di madre (50 anni), non è un gesto folle.
La gente, i vicini hanno detto ai tg che la madre sembrava tranquilla. La maschera che il dolore impone nella vita, a volte crolla all'improvviso, non lascia tempo a niente, arma una mano di un amore che distrugge la propria creatura, con la solenne, tremenda, intima convinzione che sia un gesto grande come lo era stato il mettere al mondo quella stessa creatura.
Ogni volta che questi drammi arrivano alla cronaca, bisognerebbe chiedersi: ma che cosa è stato fatto dalle Istituzioni, dalla Società, dallo Stato, dalla Politica per aiutare quelle madri, sollevare con un mano non caritatevole (nel senso che dipende da una scelta individuale e casuale d'aiuto), ma con un gesto soccorrevole, come costante e continua presenza vicino a chi soffre assistendo un malato, e soffrendo ben più del malato stesso.
Signori della Politica, anche questa è la vita: nel dolore e nell'angoscia di una madre che dopo 18 anni di malattia della figlia, l'ha liberata dalla sofferenza e poi ha rivolto il coltello contro di sé.

22/11/2007
Certe nonne
Edmondo Berselli nel suo ultimo libro, «Adulti con riserva», fa una gustosa ricostruzione autobiografica ed un brillante affresco dell'Italia nei primi anni Sessanta.
Ci sono due passi che desidero riprendere, ricollegandomi al post di ieri, «Stato e Chiesa».
Eletto papa Montini, la nonna materna di Berselli, «vecchia socialista timorata di Dio, andò apposta a confessarsi dal parroco in persona per confidare che la addolorava molto, il signor parroco non aveva idea di quanto le dispiacesse, ma questo papa non le piaceva proprio, e non sapeva che farci» (pag. 52).
Poche righe dopo, nella pagina successiva, Berselli parla in prima persona di un mese mariano e di un frate predicatore che dal pulpito tuonava contro le tentazioni moderne offerte ai giovani. Gote accese ed occhi infiammati il frate si lancia «in un'intemerata contro i peccatori moderni, i nuovi eretici», individuando la causa di tanto scandalo nella «fotografia di quello sgorbio ermafrodito e rosso... Rita Pavone!» posta al luogo dell'immagine della Vergine nelle camerette dei ragazzi, sopra i loro letti.
Ecco. Davanti ad episodi come questi, possiamo immaginarci le reazioni dei teologi ufficiali, cioè quei tipi che «giudicano e mandano» all'Inferno un po' come Giuliano Ferrara dai suoi pulpiti cartacei e televisivi.
Una severa punizione corporale alla nonna timorata di Dio ma socialista, alla quale non piaceva Paolo VI succeduto a quel buontempone di papa Roncalli. Il rogo per le foto scandalose della cantante tentatrice e corruttrice, secondo il frate predicatore.
Berselli scherza. Ma non troppo. Lo dimostra la perfetta ricostruzione storica che sulla «Stampa» di stamane fa Barbara Spinelli, nella seconda puntata della sua inchiesta sulla «Chiesa in Italia, oggi».
Non mi permetto di riassumere, cito un passo, a proposito del pontefice attuale: «Tanta inflessibilità non nasce tuttavia solo da sicurezza, come tutte le inflessibilità. È una forza che impressiona e trascina ma scaturisce da un pessimismo che in Benedetto XVI è profondo, e sul quale più volte viene richiamata la mia attenzione. I miei interlocutori mi parlano di vere angosce (alcuni usano la parola ossessioni) che non riguardano solo l'Italia».
Una postilla, che non vuole essere irriguardosa ed è senza alcuna pretesa da parte mia, magari intendetela soltanto quale riempitivo per arrivare alla conclusione...
Se le «angosce» fanno parte integrante della metafisica, le ossessioni sono un altro paio di maniche. Il teologo può essere angosciato? Ma direi proprio di no, sennò la speranza che virtù teologale è? Tanto meno può essere ossessionato, perché si finisce con l'accennare ad una patologia che contraddice il presupposto metafisico della teologia stessa (vedi la speranza di cui sopra).
Ed allora? Se la preoccupazione 'romana' è molto terra-terra («La Chiesa e le tentazioni del dopo-Dc», riassume il titolo dell'inchiesta di oggi), cioè riguarda come fare a raggiungere certi scopi che era più facile conseguire con lo Scudo crociato, non vedo motivi di preoccupazione alcuna.
Tra baciapile d'antico e nuovo stampo, teo-con in cui la fede è soltanto un trucco ridicolo per prender voti, con una opposizione che non c'è, con un giro di giochi di prestigio (e non nel senso morale di prestigio...) in cui nessuno sa più chi è, Roma non ha nulla da temere.
Hanno sfottuto Prodi perché si era definito «cattolico adulto». Oggi Spinelli spiega che «la parola era stata usata già nel '65, ai tempi del Concilio Vaticano II».
A molti degli atei devoti e dei sepolcri imbiancati che pretendono di dettare le leggi in nome del Vaticano, bisognerebbe dire che è meglio essere cattolici adulti che adulteri, dato che essi (gli adulteri) vogliono imporre agli altri una morale che poi loro stessi non rispettano. [22.XI.2207]
Una seconda postilla [23.XI.2007] per farvi proseguire il discorso sulla speranza, in relazione ad un drammatico fatto di cronaca: andate al post del 23.XI, Certe disperazioni.
«Una notizia proveniente da Pesaro dà la dimensione delle tragedie in cui la speranza non ha più posto, e lo cede alla disperazione. Forse covata lungamente nel silenzio di un colloquio con la propria coscienza». Il testo prosegue qui.

21/11/2007
Stato e Chiesa
Sulla Stampa di oggi è ospitata un'interessante lettera di un lettore, Gianfranco Dugo di Treviso, il quale parla delle «contraddizioni dei teologi cattolici». E segnala come i teologi del Vaticano siano impegnatissimi a dimostrare che l'embrione non vada manipolato.
Il punto centrale della lettera ricorda come altri teologi vaticani non si fossero opposti 70 anni fa alle guerre coloniali fasciste, e avessero ritenute giuste le aggressioni a Paesi inermi. Poi, dopo alcune righe, Gianfranco Dugo scrive: «Oggi nessun teologo approverebbe in nome di Cristo quella che venne chiamata la Santa Inquisizione e la schiavitù».
Concordo. La conclusione di Gianfranco Dugo è in questa domanda: «Se la teologia è così contraddittoria perché darle tanta importanza?».
Nella domanda si trova la risposta, ovviamente. La teologia si giustifica da sola, non abbisogna di pareri altrui, e da sola si attribuisce un'importanza che essa impone meno brutalmente di un tempo, ma non sempre con quello spirito chiamato di carità cristiana. Occorre per questo considerare attentamente il corso della teologia per evitare che essa possa scardinare subdolamente i fondamenti dello Stato laico.
Oggi Corrado Augias ha ospitato in una trasmissione dedicata al tema «I rapporti tra Stato e Chiesa» la biologa Carla Castellacci e lo storico Francesco Traniello. Si è parlato di scienza, di diritto e in fin dei conti anche di teologia. Potete vedere il filmato sul sito Rai. Non sto quindi a riassumere. Dico soltanto che la questione dell'accanimento terapeutico e della libera scelta di ognuno, non può essere trasformata da teologi faciloni in atto favorevole all'eutanasia.
Circa l'aggettivo faciloni, applicato ai teologi di oggi, preciso che anche in passato, nelle sentenze dell'indice dei libri proibiti od in quelle di condanna al rogo, non è che i teologi non lo siano stati altrettanto. A loro interessava purtroppo soltanto sostenere il potere politico (di un papa o di un re, non fa differenza). I teologi sono sempre stati funzionali a quel potere. La terra girava intorno al sole, ma loro volevano fermarla. Per questo un papa del XX secolo ha chiesto scusa degli errori commessi in passato dalla Chiesa.


18/11/2007
Antonio Rosmini
Caro Antonio Rosmini,
adesso che siete stato proclamato beato, non possiamo più ricorrere a voi come esempio di contestatore e di teorico di quella «Chiesa dei poveri» che ha avuto un momento di gloria qualche decennio fa, senza che mai fosse fatto il vostro nome nelle pubbliche piazze.
Vi hanno inserito nel «sistema» (altra parola d'annata, se non pure dannata). Vi hanno messo tra gli insindacabili, voi che siete stato a modo vostro e per i tempi vostri un eccelso bastian contrario, sino al punto di meritare ben due condanne ufficiali da parte di Roma.
Aveva destato scandalo il vostro libro intitolato «Le cinque piaghe della Chiesa». Uno slogan per i posteri, quando telegraficamente (come si diceva una volta) si voleva riassumere una situazione che non piaceva o (altra espressione antica) «gridava vendetta al cospetto di Dio».
Adesso che «Le cinque piaghe della Chiesa» escono in edicola assieme al settimanale cattolico per antonomasia, come se si trattasse di un libro ultraortodosso alla Vittorio Messori, addio contestazione, addio ricordi di polemiche.
Quel «lo diceva Rosmini» che suonava elogio dell'eresia pura, adesso corre il rischio di diventare uno spunto per le dotte conversazioni di Giuliano Ferrara. Prima o poi, vedrete, anche voi sarete arruolato fra i suoi autori preferiti, per quel gusto che lo scrittore del «Foglio» ha nell'apparire paradossale e nello stesso tempo convincersi di avere sempre ragione.
Vi troverete in buona compagnia: vi faranno oggetto di dibattiti televisivi, e voglio vedere come se la caveranno le soubrette che discettano di tutto e di tutti. Forse sarà necessario spiegar loro che non è il caso di scomodare la loro intelligenza per arrivare sino a voi.
A loro non dovremmo raccontare che, dagli atti ecclesiastici della causa di beatificazione, risulta una frase vostra detta alla cognata, di ritorno da un pranzo: «Sono avvelenato». Non bisognerà dirlo neppure a Bruno Vespa, altrimenti correremo il rischio di avere tante puntate della sua trasmissione dal titolo: «Chi uccise Antonio Rosmini?». Dopo Cogne, Garlasco, Perugia, ci mancava pure il vostro pranzo in casa dei nobili Bossi-Fedrigotti, finito con un'acidità di stomaco che voi consideraste un attentato alla vostra vita.
Lo sappiamo. Ci sono ancora in giro testimoni della vostra epoca, pronti a dire a Bruno Vespa, che si trattò soltanto di un errore involontario del cuoco. Vi risparmiamo le spiegazioni. Voi di lassù le conoscete già. Aiutateci a non farle conoscere anche a noi.


16/11/2007
Silvio, un re sFINIto
Atto primo. Giancarlo Fini volta pagina nei rapporti con Berlusconi. Glielo manda a dire con una lettera aperta al direttore del Corriere della Sera di stamani.
AN vuole cambiare strategia ed in fretta. In altre parole, basta con tutte quelle storielle di re Silvio che promette ogni ora di fare cadere il governo Prodi, e poi alla fine non ci riesce mai.
Atto secondo. Il Cavaliere risponde a Fini: «Sono l'unico a combattere contro questa maggioranza».
Sembra di ascoltare il giovane Leopardi che nella canzone «All'Italia» si guardava allo specchio e, probabilmente sul cavallo a dondolo e con in mano una spada di cartone, prorompeva nel grido fatale: «Nessun pugna per te? non ti difende / Nessun de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo / Combatterò, procomberò sol io. / Dammi, o ciel, che sia foco / Agl'italici petti il sangue mio».
C'è una piccola differenza. Il Cavaliere ha 71 anni e per dire queste cose si mette davanti alle luci delle telecamere, non agli specchi in una stanza buia. Di uguale, c'è la destinataria delle sue parole. Come per Giacomo, anche per Silvio è l'Italia. Allora (1818) un sogno da realizzare. Ora un progetto a cui nessuno crede più, tra gli alleati di Berlusconi.
A proposito di grida fatali con annessi gesti eroici. Al post della spada di cartone, il senatore di Forza Italia Maurizio Sacconi è arrivato a togliersi una scarpa per sbatterla con forza, ripetutamente, sul suo scranno. Merita la memoria presso i posteri, con un fumetto che documenti il tutto: «Dammi, o ciel, che sia foco / Agl'italici petti il sangue mio».
Il governo è sfatto, ma re Silvius I non lo sfratta. Gli amici se ne vanno, che inutile serata. La musica prodiana non è ancora finita. Questo è il tormento del Cavaliere, ed il grimaldello con cui lentamente e pacatamente, alla Veltroni-Crozza, lo hanno deposto dal trono quegli alleati d'un tempo. Lui continua ad illudersi, il leader sono e sarò io. Parole, parole, parole.
E pensare che ad Arcore credevano che fosse bastato, per far star tranquillo Fini, prenderlo per i fondelli sul suo nuovo amore. Adesso hanno fatto retromarcia. Hanno tirato le orecchie a «Striscia la notizia». Con un comunicato che resterà nella storia della tv: «La presidenza di Mediaset esprime una netta presa di distanza dagli eccessi giornalistici e satirici, anche in programmi Mediaset, che hanno colpito negli ultimi giorni la vita privata di Gianfranco Fini». Per poi respingere (giustamente) «nel modo più assoluto il sospetto di un disegno politico-editoriale orchestrato dal gruppo Fininvest ai danni del presidente di An. Avanzare sui giornali ipotesi del genere significa fare un torto all'autonomia di Silvio Berlusconi e da Silvio Berlusconi».
V'immaginate Berlusconi che ordina di colpire al cuore Fini per la sua storia d'amore? Suvvia, sono esercizi di bassa dietrologia. Per ora. In futuro non si sa. Le donne prima o poi raccontano.
Oggi si è confessata Sandra Milo: «Con Bettino l'amore aveva più gusto».
Due domande alla signora: lo aveva confessato a Bruno Vespa? Adesso come cambierà la storiografia sul socialismo italiano?
Il sospetto è che la signora Milo abbia voluto soltanto mettere giustamente in luce i propri pregi e sottolineare i difetti delle colleghe in arte contemporanee: «Vogliamo mettere il livello delle amanti di allora?».
Purtroppo scienza e storia di oggi non possono beneficiare del conforto «delle amanti di allora». Com'è triste la vita.

15/11/2007
"Io bloggo per il Darfur"
Riprendo dal blog cattivamaestra.
"Io bloggo per il Darfur" è la nuova campagna di sensibilizzazione promossa da Italian Blogs for Darfur per riportare l'attenzione su una tragedia troppo spesso dimenticata, quella di due milioni e mezzo di rifugiati e di oltre trecentomila morti innocenti.
L'iniziativa è aperta a fotografi e creativi, non necessariamente professionisti, desiderosi di comunicare il loro impegno per il Darfur. Chi ha un blog, o uno spazio online su uno dei tanti social network, è invitato a scattare una fotografia o creare un'immagine che esprima il "volto" di chi ha a cuore le popolazioni del Darfur, sconvolte ormai da anni da un conflitto violento e sanguinoso.

14/11/2007
I Mille di Cossiga
In un'intervista ad Aldo Cazzullo, pubblicata stamani nel «Corriere della Sera», il presidente Francesco Cossiga torna sull'uccisione di Aldo Moro.
Ad un mese esatto dalla presentazione (sullo stesso quotidiano) di un libro che Giovanni Moro, figlio dello statista assassinato dalle Brigate Rosse, ha scritto per Einaudi, intitolandolo «Anni Settanta». (Ne ho parlato qui il 14 ottobre.)
Due punti soprattutto sono importanti nel libro di Giovanni Moro.
Il primo, riguarda la presunta minaccia da parte di una delle vedove di via Fani, di darsi fuoco in caso di trattative per la liberazione di Moro.
Giovanni Moro scrive che la notizia è falsa. Ed accusa di aver mentito «spudoratamente» il presidente del Consiglio del tempo, Giulio Andreotti (pagine 105-106).
Il secondo punto, tocca il Vaticano che, postosi «sulla stessa lunghezza d'onda» del governo italiano, «mostrò come minimo di non comprendere i termini della questione» (pagina 107).
Cossiga replica a Giovanni Moro, senza nominarlo, sul primo punto: «Andreotti non dice bugie».
Il discorso poi ha un'impennata che passa dal pubblico al privato dei protagonisti: il cerotto sulla testa di Aldo Moro nascondeva non una ferita subìta da parte dei terroristi, ma un colpo preso la sera prima «frapponendosi in un litigio» in famiglia.
Si resta sconcertati ed amareggiati nel veder ridurre a questi discorsi pettegoli, ed insignificanti sul piano storico, un tema che anche a tanti anni di distanza resta il più drammatico passaggio della storia italiana recente.
Un anno fa, il 26 novembre, all'annuncio (poi senza effetto) di Cossiga delle sue dimissioni da senatore, gli avevo augurato di tenerci «allegri, tanto di cose serie nessuno sembra oggi aver voglia».
Purtroppo il senatore Cossiga oggi ci rattrista con le rivelazioni che sono annunciate sin dal titolo dell'intervista: «Il caso Moro e i comunisti. In mille sapevano dov'era».
Forse per Cossiga voleva essere una chiamata in causa per correità dei capi dell'allora Pci. Ma finisce per essere la confessione d'impotenza per non dire altro, di chi doveva sapere per compito istituzionale, ammesso che risponda al vero la tesi (o l'ipotesi) di Cossiga.
Soltanto una cosa appare strana nel suo annuncio: come mai, se mille comunisti sapevano, nessuno delle migliaia di agenti dei cosiddetti «servizi» che hanno sempre controllato i politici di governo e di opposizione, ha appreso che «quelli» sapevano?

13/11/2007
Cronache nere
Siamo tutti angosciati per quello che è successo domenica scorsa. Nei blog della nostra comunità se n'è parlato con una partecipazione che indica qualcosa. Non siamo insensibili al mondo che ci circonda. E che ci fa paura per molti motivi. Per il povero ragazzo ucciso nelle circostanze "misteriose" che conosciamo, ad esempio. Un episodio che non doveva accadere. Non si spara attraverso un'autostrada, non sapendo che cosa succeda esattamente aldilà di essa, in una piazzola di sosta troppo distante per distinguere le cose.
Ho scritto ieri che il fatto di Arezzo non ha nulla a che vedere con lo sport. Intendevo dire che l'uccisione di quel ragazzo non poteva essere presa a pretesto per tentare un'insurrezione come c'è stata poi a Roma. Chiedo scusa se non mi sono spiegato bene. Credevo di averlo fatto, aggiungendo che allo stesso modo pure la violenza scatenatasi poi, non aveva nulla a che fare con lo sport.
Ieri pomeriggio Irene ha osservato nel suo blog che viviamo in un vuoto dove «tutto freneticamente inghiottisce tutto». Lo ha scritto anche a commento del mio post.
Poco dopo Gianna, allargando il discorso ad altre notizie di cronaca nera, introduceva una nota metafisica: «Non ditemi che sono prove inviateci da lassù per provare la nostra tempra di madri e di padri o peggio per scontare i nostri peccati. Per il Grande Distratto è un incidente di percorso e spero che trovi al più presto un rimedio».
Cito questi due passi di Irene e Gianna perché sono sintonizzati sul tema del nostro essere qui ed ora, con sfumature che intrigano con dolcezza d'intenti e costringono fermamente a riflettere.
Il contesto della vicenda di Arezzo dà ragione al commento di Fino: «Quella gente (juventini e laziali) erano là per lo sport o per meglio dire per uno pseudosport chiamato calcio».
Ieri facevo un altro discorso. Parlare male dello sport com'è in Italia da tanti anni, non è vuota retorica. Ma è amara constatazione che nulla si fa per cambiare qualcosa. Forse tutto quanto accade serve a qualcuno, lo dico da un punto di vista politico.
Sempre da questo punto di vista, dobbiamo essere certi che nessuno possa colpirci "per sbaglio" se passiamo per strada o in autostrada vicino ad un gruppo di sportivi che possono essere temuti: ma per questo fatto, nessuno è autorizzato a sparare per prevenire un reato di cui il viandante per caso non ha nessuna responsabilità.
Stamani ho letto il bell'editoriale di Massimo Gramellini in prima della «Stampa». Che all'inizio dice qualcosa sull'Italia sbagliata oggi sotto accusa, e della quale fanno parte anche i giornalisti «che invece di dare la notizia dell'assassinio di un ragazzo al casello autostradale», annunciano che è stato ucciso un tifoso.
L'Italia che vogliamo? «L'Italia che estirpa i violenti dagli stadi e dalle strade. E non protegge le caste, ma le persone. Perseguendo gli individui e non generiche categorie sociali: i tifosi, i romeni. L'Italia a viso aperto. Tollerante, giusta, decisa. Senza ferocia. Ma senza paura».
L'Italia giusta. Può essere un'utopia, ma deve essere un progetto. Gramellini ha ragione. Così come hanno ragione Irene e Gianna a chiedersi che cosa sia questo mondo in cui viviamo. La loro intelligenza avvia con tranquilla fermezza un discorso vasto, ma necessario.
Nulla è una parola che fa paura. È un tema che affascina da sempre letterati e filosofi, quindi non deve essere che apprezzato il riproporlo alla nostra attenzione. Le nostre inquietudini sul destino dell'umanità a cui accenna Gianna, sono un sentimento del tempo. Ma ogni tempo ha i suoi drammi. Grazie, amiche, di aver introdotto questo tema.
Affacciandoci alla strada, vivendo tra la gente, i vostri pensieri dovrebbero spingerci a meglio comprendere il valore dei rapporti con chi ci sta o passa vicino.
Lo diceva già Giacomo Leopardi: nella guerra comune contro la Natura, gli uomini dovrebbero offrirsi aiuto in un abbraccio «con vero amor».
Ma vedete che il sublime canto del poeta, «... su l'arida schiena / Del formidabil monte / Sterminator Vesevo», diventa immediatamente qualcosa di più, un manifesto politico con l'invito agli uomini a considerarsi «confederati» fra loro. È il vecchio discorso del «contratto sociale»...
Ma fino a che punto siamo pronti ad accogliere questi discorsi? Attenzione, perché essi sono considerati pericolosi. Pericolosissimi... Per motivi ovvi.
L'Italia «tollerante, giusta, decisa» propugnata da Gramellini, è l'unica via di scampo dal nulla, dalla paura, dalla corruzione. Ma quanti sono d'accordo oggi e qui a credere nei valori di una società «tollerante, giusta, decisa»? Siamo anche il Paese in cui si portano tranquillamente i maiali ad orinare su terreni frequentati da persone come noi che hanno però un'altra religione. E poi ci chiamiamo popolo civile.

12/11/2007
Facili le parole
Quando succedono fatti come la morte del giovane romano Gabriele Sandri, ucciso dalla pistola di un poliziotto, le parole sono sempre facili. E troppe. Si ripetono i riti consueti: il tragico errore, un fattore imponderabile (correvo, il colpo è partito da solo), le indagini saranno approfondite, non ci saranno reticenze, come ha detto ieri il ministro degli Interni Giuliano Amato.
Passano le ore, e si scopre qualcosa che fa ipotizzare al questore di Arezzo che «il reato colposo potrebbe avere evoluzioni diverse in senso peggiorativo».
Senza dilungarmi in un esame del fatto in sé (tra sparatore ed ucciso c'era perbacco di mezzo addirittura un'autostrada), e senza voler esprimere giudizi sulle indagini, dico che in generale troppo spesso prevale non la presunzione d'innocenza di qualsiasi persona, ma quella di colpevolezza.
In Italia per lungo tempo non sono stati i magistrati a provare la colpevolezza d'un imputato, ma è stato costretto l'imputato a dimostrare la propria innocenza. Non vorrei che ora si ritornasse al passato. Un'auto che va per i fatti suoi, un giovane che è ucciso, e poi dopo le ricostruzioni che «giustificano» l'accaduto.
Il fatto di Arezzo non ha nulla a che vedere con lo sport, così come la violenza scatenatasi poi (vedere l'articolo di Beccantini).
Niente parole inutili, signori del governo e del Parlamento, ma fatti precisi. Mirando senza colpo ferire ad uno scopo: rendere tranquilla la vita di qualsiasi persona. Non date la colpa ai teppisti degli stadi. Tutti sanno chi sono. Ma loro possono continuare ad agire bellamente, senza pagare mai il conto delle malefatte.
Personalmente sono convinto che molti di quegli «ultras» abbiano un sogno politico. Non dico progetto, perché la parola presuppone una razionalità in loro soffocata dall'odio espresso con una rivolta che non ha nessuna giustificazione morale, ma che comunque tentano ogni tanto di mettere in atto.

11/11/2007
La famiglia è sacra (in Libia)
A proposito del post precedente sulla famiglia in Italia. Le Monde di ieri annuncia la prossima uscita di un libro di Kristiyana Valcheva, una delle cinque infermiere bulgare accusate di aver inoculato l'Aids a 426 bambini. E liberate lo scorso luglio dopo otto anni di carcere.
Kristiyana Valcheva riporta la testimonianza di un dirigente ospedaliero: la famiglia in Libia è sacra, non ci sono relazioni extraconiugali, quindi non ci si becca l'Aids...
Se sacra è la famiglia non lo è altrettanto il corpo delle prigioniere: «Au coeur des prisons fétides et sous les portraits du colonel Kadhafi, c'est leur corps de femme, leurs seins, leurs ventres, leurs sexes, qui ont été visés - très concrètement. Traitées de "putains", de "dépravées", de "chiennes chrétiennes", elles ont été désignées comme des créatures monstrueuses, des êtres de débauche».

10/11/2007
Noi libertini
Appartengo da quarant'anni alla schiera più o meno folta dei libertini.
Intendendo con il termine libertini quei monogami con tanto di certificato matrimoniale, che non partecipano ai family day e non hanno avuto altro che un legame.
Rispetto tutte le scelte di tutti su tutto. Quindi, nessuna censura su nessuno. Ma non ammiro l'eletta classe politica dei sostenitori della «famiglia cristiana» che non sanno neppure che cosa essa sia, se è vero il detto evangelico secondo cui l'albero si riconosce dai frutti che dà.
Non essendo l'uomo un albero, ovviamente può fare quello che vuole e sostenere che i frutti sono indipendenti dalla pianta. Benissimo. Ma piantatela una volta per sempre di predicare bene e non accettare i princìpi che predicate come guida dei vostri comportamenti. Non fatevi paladini della «famiglia cristiana» quando il vostro carniere ne contiene più di una.
L'on. Gianfranco Fini arriva in ritardo con gli appuntamenti della storia. La notizia della sua nuova famiglia doveva uscire prima che apparisse il libro di Bruno Vespa.
Commentando un interessante post dedicato da Giulia Volpi a Vespa, ho scritto che dalla cintola in giù, per i politici guarderei soltanto alle tasche dei pantaloni dove conservano il portafogli. Quindi non mi soffermo su vicende personali alle quali si deve quel rispetto che i politici non hanno quando legiferano sulla vita dei «semplici cittadini». Loro, i parlamentari, possono già ora lasciare la pensione in eredità ai loro conviventi.
Questo fatto non offende la morale sentimental-sessuale, ma quella "civile" o politica dell'uguaglianza fra tutti i cittadini.
Oggi si annuncia un altro testo sul tema amoroso, scritto da Filippo Ceccarelli, «Il letto e il potere. Storia sessuale d'Italia da Mussolini a Vallettopoli bis». Forse sarebbe stato più simpatico «Il potere a letto». Ceccarelli è un cronista appassionato e documentato. Ne racconterà delle belle. Ma servirà a qualcosa la rivelazione dei segreti dei talami politici?
Un altro libro è annunciato, «Impuniti. Storie di un sistema incapace, sprecone e felice» (di Antonello Caporale). Lo ricordo per agganciarmi con una notizia locale a proposito di sprechi pubblici. L'Azienda sanitaria di Rimini ha di recente ristrutturato la sua vecchia sede in pieno centro. Il Comune ora vuole demolirla per far largo al mercato ambulante. A chi ha scritto ai quotidiani locali per chiedere quanti soldi ha speso per quei lavori, l'Ausl interessata non ha risposto. Perché? Trattasi di dati pubblici, non di quegli apparenti segreti d'alcova che adesso tutti rivelano. A dimostrazione forse che parliamo inutilmente di cose non importanti, e siamo messi a tacere per quelle serie. Mah.
A proposito. Ricevo questa mail di Nicoletta Forcheri: «Gentile Antonio Montanari, semplicemente una domanda: come mai nessun quotidiano parla a titoli cubitali della fragile vittoria del movimento No Dalmolin che è riuscito ieri a bloccare la ditta ABC di Firenze che doveva cominciare i lavori di bonifica a Vicenza per la costruzione della base militare USA? E come mai se i quotidiani non ne parlano, non ne parla qualche blogger "accreditato" come lei?
Perché vede il prossimo bersaglio dei grillini sarà la stampa, e a buona ragione, perché è oramai da tanto tempo che invece d'informare disinforma, omette notizie importantissime e fa demagogia con frasi fatte come "sinistra radicale" "antipolitica" "sicurezza energetica" "accordi internazionali" "notizie confindenziali" o semplicemente "Bruxelles" e così via dicendo, tutte espressioni faziose e nelle varie fattispecie o inesatte o troppo vaghe. La stampa scritta ma anche quella televisiva sono diventate un grosso megafono dei politici e non fanno altro che ripetere come pappagalli quel che dicono, senza mai andare a verificare i fatti, tranne qualche eccezione ormai nota ai più.
Io dico ci vorrebbero dirigenti, in questo caso direttori di giornali, più coraggiosi, giornalisti più coraggiosi e cittadini più coraggiosi.
A quel punto tutti i criminali di questo paese si cagherebbero dalla paura e si smaschererebbero da soli. Tutto il resto è reato di omissione di soccorso a persona in pericolo, solo che in questo caso la persona siamo tutti noi, ed è il nostro paese intero non solo in pericolo ma già mezzo morto ammazzato».
Ho risposto: «Argomento interessante, pubblico la lettera. Sinceramente, non riesco a stare su tutte le notizie italiane. Grazie per l'"accreditato", ma nell'informazione da soli si fa poco se non si ha l'aiuto preziosissimo con le 'dritte' come la sua. Mi tenga informato.
Nicoletta Forcheri è autrice di questo testo: «La Toscana come il Texas».

09/11/2007
Storie italiane
«Quest'uomo lo hanno ucciso...». Un cardinale emiliano, Ersilio Tonini, dice ieri sera nella trasmissione televisiva di Michele Santoro queste parole, riferendosi all'«editto bulgaro» che nell'aprile del 2002 colpì Enzo Biagi: «Lo hanno ucciso. È stato un ostracismo. Enzo Biagi dava fastidio, non era utile ed è stato cacciato».
Di un altro uomo di Chiesa, leggiamo su «Repubblica» di stamani. Monsignor Giancarlo Maria Bregantini, vescovo di Locri da 13 anni, è stato nominato a Campobasso. Dice il titolo: «Trasferito per salvargli la vita».

08/11/2007
L'«evitato speciale»
Carissima signora Bice Biagi.
Lei stamani, all'ultimo saluto pubblico a Suo padre ha detto: «Certo che c'è stato (l'editto bulgaro). C'è qualcuno che ogni tanto ha delle botte di amnesia. Lui invece non ha mai perso la memoria, né lui né noi».
È vero, ci sono in giro botte di amnesia terribili. È un drammatico gioco dei bussolotti. Il cavalier Berlusconi, allora disse: «Credo sia un preciso dovere della nuova dirigenza (della Rai) non permettere che questo avvenga».
Il «questo» che non doveva succedere più, era l'uso «criminoso» della tv di Stato, di cui era accusato Suo padre.
Adesso il cavalier Berlusconi nega. Secondo lui non aveva mai detto che Biagi, Luttazzi e Santoro «non dovevano fare televisione». Aveva espresso un auspicio. Ha trovato immediatamente un'obbedienza cieca ed assoluta.
L'editto c'è stato, eccome. Nella formula subdola che oggi permette al suo autore di negarlo.
Mi scusi se in aggiunta parlo di fatterelli personali. A me è successo qualcosa di simile a partire dal 2001, per merito di certe dame seguaci del verbo proveniente da Arcore. Il 14 novembre di quell'anno tenni in un'associazione cattolica una conferenza intitolata: "«La guerra non cambia niente». Dolori nella Storia e desiderio della Verità nel '900 letterario italiano".
Avevo preso la citazione del titolo da quell'«Esame di coscienza di un letterato» di Renato Serra, che mi sarebbe servito per esprimere il mio debol parere sulle circostanze di quei giorni, legate alle vicende dell'11 settembre, ed alla minaccia di una guerra globale.
Con la cautela necessaria non per opportunismo ma per realismo, mi schierai contro le guerre di esportazione della democrazia.
Apriti cielo... Da quella volta non fui più invitato da quell'associazione culturale cattolica.
Poi sono successe altre cose, legate ad esempio ad un altro tabu della destra cattolica riminese che ha tanto potere curiale: quello della falsa sommossa antigiacobina e filopapale dei marinari riminesi nel 1799. Pochissime righe apparse sul settimanale diocesano, e riprese da una storia ottocentesca, ebbero la piccata risposta di un'intera pagina sul settimanale stesso con tutta una serie di notizie non rispondenti al vero.
Poi ha dato fastidio qualche mio studio storico sulla condanna all'indice di un medico riminese del 1700 per speciale intercessione del vescovo della città.
Lentamente da quel novembre 2001 mi si è stretta attorno una cerchia di isolamento sanitario da «evitato speciale» per cui nel giornale a cui collaboravo, prima mi è stata tolta la sezione culturale, poi non mi hanno commissionato più le recensioni dei testi storici. Per cui ho preferito abbandonare dopo quasi 25 anni di lavoro, per non avere altre beghe.
Nessuno ha firmato editti, nessuna "sa" niente di quanto accaduto. Però le cose sono avvenute.
È vero, ci sono in giro botte di amnesia terribili. Quando parlavo di queste vicende mie con le persone che sanno, alla fine ero considerato come un visionario.
Il fatto drammatico è che il sire di Arcore ha fatto scuola anche su chi non ne condivide le idee. Oppure è soltanto l'ipocrisia umana che cresce in ogni terreno.

Piccola posta
Ricevo e pubblico integralmente:
«Egregio signore
sinceramente non se ne può più di sentire sempre considerazioni sui poveretti che vivono in miseria ammazzando e rubando, tutti Voi, giornalisti e politici vi state sprecando a dirle... Ho una domanda me la permette? è questa: Lei crede di aver il diritto di divulgare la sua opinione? Io credo di no perchè Voialtri non soffrite per la mancanza di sicurezza nel Paese. Mio figlio è stato lasciato più morto che vivo sulla strada da certi egiziani; il giovane ritorna alla 2 di notte dal lavoro, non ha sempre i soldi per andare in taxi ed è stato assaltato. Adesso io domando: Lei, Amato, Ferrero, Giordano, il sindaco quello mezzo prete, quando andate a casa come ci andate? mi dica sinceramente, rischiate la pelle? Non credo ed allora avete il diritto di opinare? Il papa ha il diritto di opinare? Tutti parlano dei poveretti rom etc; a me non danno pena, si però mi da pena mio figlio o i tanti che rischiano la vita o l' hanno persa. Un poco di decenza non vi farebbe male.
MA NOI SIAMO STATI EMIGRANTI una considerazione: gli italiani, incluso me, andavamo principalmente in paesi che anche oggi sarebbero capaci di ricevere un altro 100% di aumento della popolazione.
Crede lei che ai tempi dei nostri Al Capone etc c'erano forse tipi Ferrero o Giordano in quei paesi? O non c'erano forse persone che li facevano sputare sangue? Ai delinquenti ed ai non.
Le ultime parole famose, dette da Veltroni a Ballarò: Se no veramente la gente crede che si può fare quello che si vuole. Ma se solo 5 minuti prima il prefetto di Roma aveva detto: ....incarcerati il sabato e fuori il lunedì. In mezzo a tanti drammi qualcuno che fa ridere forse va bene.
Io poi dico una cosa: visto che ci sono migliaia di imprese in Romania, perchè non toglierne un centinaio o tagliare aiuti ad ogni crimine che fanno in Italia? e così anche in altri paesi?
A proposito di emigrazione ancora una domanda: è mai stato a Prato? Città invasa dai cinesi ha mai domandato ai pratesi se stanno meglio adesso o prima? Io non lo so però spero di farmi un viaggio a Prato per vedere quella che per secoli era una città fondata sulla industria tessile.
In tutta la mia vita sono stato educato ad una educazione di sinistra però in futuro, per quanto mi faccia schifo, appoggerò Calderoli.
Spero abbia letto tutta la lettera.
Saluti Gargiulo
[email protected]

Rispondo.
Sì, ho letto la lettera, la ringrazio della cortesia per avermela inviata, pur non conoscendoci.
Mi chiede: «Lei crede di aver il diritto di divulgare la sua opinione?».
Dietro la sua domanda c'è una visione che non condivido.
Il diritto di parola è di tutti, non soltanto dei giornalisti.
Qui sopra poi sono semplicemente un blogger-lettore, quindi si figuri che ruolo, per cui potrei dirle che ha sbagliato completamente indirizzo.
Non credo che il silenzio di qualcuno possa risolvere le cose.
La sua educazione di sinistra che finisce in un abbraccio a Calderoli, non mi stupisce. Conosco bene quella educazione per averla sempre rifiutata da giovane e da adulto. Per cui non provo né commiserazione né sdegno davanti al suo annuncio. A volte, le cose si ripetono. A noi sta capirne la differenza. Se si resta lucidi pur nell'affannarsi doloroso della vita.

Altra risposta. Ad un commento relativo ad un post dello scorso anno («Ma non ho capito bene il senso del suo post. Da che parte sta? Le categorie sono sempre solo tre: 1) belle promesse, 2) soliti stronzi, 3) venerabili maestri. L'ideale sarebbe passare da bella promessa a venerabile maestro. Sgarbi, solito stronzo non sarà venerabile maestro mai perché troppo sputtanato».)
Questo il testo che ho inserito:

Non ho l'età per essere una bella promessa. Non sono un venerato maestro. Preferirei non essere considerato uno stronzo, né solito né insolito.
Faccia lei. Mi metta dove vuole. Sto dalla parte del libero arbitrio, del giudizio espresso con la cautela che non deriva da paura ma dalla consapevolezza che allargando i discorsi si possono spesso prendere lucciole per lanterne.
Trinciare giudizi o intonare romanze come nelle opere liriche dell'Ottocento facevano i tenori con voce tonante per far venir giù i teatri, non fa per me.
A volte verrebbe da invidiare quelli che sono troppo sicuri di loro stessi. Ma mi ricordo una vecchia battuta del buon Guido Clericetti: «A quelli che sono troppo pieni di sé, auguriamo che funzioni bene l'intestino».
Piuttosto, aggiungo una nota sopra una strana coincidenza: ieri sera ho acquistato l'ultimo volume di Berselli, e mi ripromettevo di cercare nel blog quanto avevo scritto l'anno scorso sul volume precedente (2.11.2006)... Oggi arriva il suo commento che apre al post in oggetto, e mi risparmia la fatica di quella ricerca. Grazie di cuore.

06/11/2007
Enzo Biagi, l'etica della memoria
Il cronista galantuomo Enzo Biagi con la sua lunga esperienza, ha lasciato un rigoroso insegnamento sulla necessità della lettura dei fatti e dell'interpretazione della storia.
La memoria ha una sua etica non perché conoscere gli errori ed i drammi del passato significhi evitare di ripeterli in futuro. Magari fosse così.
Non si sa bene che cosa sia la storia: se caso, provvidenza, inconsapevole ed irrazionale procedere di eventi.
Le cose succedono sempre da sole, nel bene e nel male. Ignorarle significa soltanto condividere gli orrori compiuti da chi se ne è macchiato. Conoscerle è già un mezzo per rifiutarli. Per suggerire qualcosa che potrebbe servire a tutti noi, nelle nostre scelte presenti e future. Il passato non si cancella mai.
Enzo Biagi ha vissuto il secolo che, non so perché, qualcuno ha definito breve. Sono stati decenni invece lunghi e pieni di tragedie.
Due guerre mondiali, il razzismo dall'inizio alla fine, poi la shoà nel mezzo, con quel popolo trascinato nelle camere a gas chissà per quale colpa dei loro padri o per quale follia dei loro contemporanei.
Di queste cose lui ha sempre parlato, in interviste ai protagonisti, articoli, volumi. È stato un pedagogista della notizia, sapendo che in ogni rigo di giornale o di libro si condensano drammi che possono essere ricordati attraverso un volto, una canzone o un film.
Le storie di Biagi sono state per molti italiani l'unico veicolo di formazione culturale ed intellettuale. Sapeva scrivere, nel senso che sapeva come farsi leggere. Quindi uno stile asciutto, nervoso. Perché il modo di comporre una frase è anch'esso espressione di una concezione morale. Non soltanto letteraria.
Scrivere per tutti, raccontando cose di tutti, è stata per lui una bella lezione di democrazia vissuta non come proclama retorico ma testimonianza concreta ed immediata.
Nel giorno della sua scomparsa, ci piace ricordarlo con il suo ironico interloquire, con il continuo ricordo delle sue umili origini e di sua madre che lo svergogna in classe perché ha detto una bugia alla maestra, con quella sua battuta (felice come un capolavoro filosofico) sulla signora che ammetteva: sì mia figlia è incinta, ma soltanto un pò.

05/11/2007
Il ribelle don Benzi
Adesso che è scomparso, tutta la gerarchia ecclesiastica plaude all'opera infaticabile di don Oreste Benzi, e lo rimpiange. Ma ci sono stati tempi in cui la sua «tonaca lisa» (come recita il titolo della biografia scritta da Valerio Lessi), dava molto fastidio a quella stessa gerarchia, dal centro romano alla periferia riminese. Nella quale egli era nato ed ha vissuto tutta la sua esperienza sacerdotale ed umana poi rilanciata nel mondo.
Non era un prete accomodante. Anzi. Convinto di essere sempre dalla parte giusta, perché così lo ispirava il Vangelo, non ha mai cessato di dare battaglia ai potenti, in un Paese in cui l'inginocchiarsi ai potenti è un'abitudine derivata da un passato fatto della devozione ai signori feudali più forte di quella alla Chiesa.
Frutto di questa mancanza di laicità, l'Italia ha visto sempre proiettarsi sulle sue vicende politiche le ombre di un integralismo spesso legato ad interessi di bottega ed a sotterfugi di comodo.
Nel suo integralismo evangelico, don Oreste è stato lontano da questa mentalità. Lontano dagli affari palesi o mascherati. Talmente aperto e chiaro nei suoi discorsi da non lasciare spazio appunto a quei sotterfugi di comodo che vediamo spesso insinuarsi nelle vicende politiche.
Ha sempre parlato ed agito apertamente, talora infastidendo anche i più ben disposti verso di lui per un tono che non ammetteva repliche, ma con il sorriso che cancellava ogni divisione. Come è stato detto, non nutriva antipatie, non conservava rancori. E questo perché rifuggiva da ogni diplomazia nei rapporti con i signori del potere, ai quali dovette sembrare un po' come quel padre Cristoforo manzoniano che alzava la voce in casa di don Rodrigo: «Verrà un giorno...»".
E come il frate seicentesco, questo prete del ventesimo secolo sapeva che «Dio ha sempre gli occhi sopra» i poveri. Gli «ultimi» di cui parla il Vangelo, sono stati al centro dell'azione di don Benzi sino alla vigilia della sua scomparsa.
Un bel ritratto di questo prete, scomodo per la gerarchia ma amato non per quello che diceva soltanto ma per quello che ha concretamente realizzato nell'utopico progetto evangelico, è stato tracciato dallo storico bolognese Alberto Meloni: don Benzi è stato espressione di quel modello emiliano-romagnolo, «dove il cattolico la rispettabilità se la guadagnava non in biblioteca, ma sul campo, contrapponendo radicalismo a radicalismo».
Ritratto che tuttavia richiederebbe un'appendice inevitabile: sul rapporto fra il radicalismo di una fede e la laicità dello Stato.

03/11/2007
Auguri, Enzo Biagi
Da un vecchio lettore, un augurio sincero a quel grande maestro di giornalismo che risponde al nome di Enzo Biagi, con un semplice rinvio a quanto avevo scritto su di lui lo scorso 11 dicembre in questo stesso blog.
La conclusione del mio breve testo del 2006, giustifica l'inserimento del post odierno nella categoria di «politica ed attualità».
Parlavo allora della necessità di una vera informazione democratica per la vita del nostro Paese.
Ai lettori di oggi (se ce ne saranno), chiedo: in undici mesi l'informazione italiana è migliorata o peggiorata? Quale bilancio proponete?
Enzo Biagi, cronista
Ben tornato in tivù, dunque, caro Enzo Biagi. Con l'augurio semplice semplice che la gente capisca che i cronisti non sono funzionari di partito o di governo, che sono lecite le critiche al potere e le domande ai padroni del vapore, di tutti i vapori, dal sindaco del più piccolo comune al presidente del consiglio o ad un amministratore delegato.
Con la speranza che i giornalisti combattenti per la libertà dell'Occidente non si mascherino più da spie, almeno quando non è carnevale. Ma il dramma nazionale è che da noi ci sono sempre state troppe quaresime e di conseguenza e per reazione ci sono state pure sempre fin troppe sfilate in maschera.
Per un giornalista, l'importante è raccontare e spiegare (come diceva Indro Montanelli) quello che non si è capìto, non vestire i panni di uno 007 che cerca gloria postuma non nella penna ma nei dossier riservati.
Il mondo è pieno di imbecilli. Quelli che incartano le loro fissazioni in un giornale, come se si trattasse di un caspo d'insalata al mercato, alla fine risultato figure patetiche: si credono furbi ed intelligenti, non riescono ad oltrepassare il confine della barzelletta vivente.
Biagi rappresenta la storia di un giornalismo attento ed onesto. La disattenzione è la regola di chi vuol far carriera e non vuole grattacapi. Quanti grattacapi possa procurare il lavoro del cronista, dipende non dagli oppositori di regime ma dalla demenza di chi (ad ogni livello ed in ogni ambiente) non sa difendere il lavoro dei cronisti seri, e il quotidiano granello di democrazia che quel lavoro serio porta alla mensa comune.
Ben tornato, Enzo Biagi. Ad insegnare che l'umiltà del cronista che lei ha sempre impersonato, è molto più alta delle dignità che si attribuiscono tanti, troppi fanfaroni che circolano nell'ambiente. E buon lavoro nel segno di un'informazione democratica necessaria (oggi più che mai) come l'ossigeno per la nostra vita politica.

02/11/2007
Prodi e i due Veltroni
Se avessimo voglia di scherzare, battezzeremmo Romano Prodi «servitore dei due Veltroni». Non per gratuita irriverenza, ma soltanto per usare il classico titolo goldoniano come chiave interpretativa del presente. Ma dato che i tempi sono tremendamente seri, ci chiediamo se per caso, oltre ai due «padroni» politici impersonati dal sindaco di Roma, e mutuati dalla trama della commedia settecentesca, non ci sia in ballo anche un terzo personaggio. A cui il segretario del Pd dà voce e figura sul palcoscenico della politica italiana.
Il primo Veltroni è quello che aspetta con la calma dei forti e la frenesia del cavallo purosangue in procinto di fare la sua corsa tutto da solo. Il candidato in pectore a palazzo Chigi.
Ha rinunciato ad andare in Africa, come aveva promesso, dopo aver completato l'esperienza amministrativa nella capitale.
Ha visto (forse) che i guai italici sono ben maggiori di quelli del continente dove avrebbe voluto fare una specie di missionario laico.
Per cui la sua coscienza gli ha suggerito di restare. Ad aspettare che la poltrona di capo dell'esecutivo sia tutta sua.
Il secondo Veltroni è quello che vede la città che governa, la capitale che amministra, finire nelle cronache più terribili, come se i pericoli per le donne e per la loro libertà di movimento fossero un dato nuovo, inedito ed inaspettato non soltanto alla periferia romana, ma anche nei centri di altre località, grandi o piccole, famose o no.
Il terzo Veltroni è il segretario del Pd che in certi momenti della giornata deve guardare in faccia gli altri due. E chiedere ad uno se ha fatto tutto, come sindaco, per salvaguardare l'incolumità dei suoi cittadini. Ed all'altro se è possibile studiare qualcosa, prima di occupare la poltrona di palazzo Chigi. E miracolosamente sembra che tutti i due Veltroni interrogati dal segretario del Pd in carica, si siano trovati d'accordo nel sostenete che se c'è uno che deve pensare ai guai italiani, è proprio e soltanto Romano Prodi. Che le elezioni le ha vinte ed è stato nominato dal capo dello Stato.
A teatro, ad una certa ora, le rappresentazioni finiscono, come previsto dal copione. In politica del doman non c'è certezza. Addirittura non sappiamo se ciò a cui assistiamo sia soltanto una commedia mentre i momenti sarebbero più adatti alla tragedia.
In politica, anche in politica, viene tuttavia il momento in cui c'è la resa dei conti. E chi deve stavolta pagare il conto è Romano Prodi.
Ce ne dispiace perché è una persona convinta del suo lavoro, che non usa la politica per altri scopi, che ha lanciato il grande progetto riformista dell'Ulivo, finito in un incontro tra due gerarchie direi quasi ecclesiastiche (almeno per una di esse).
A rimetterci è soltanto lo spirito dell'Ulivo, ma questo l'ho già scritto il 16 ottobre scorso.
Oggi voglio condividere la preoccupazione, anzi qualcosa di più di una preoccupazione, espressa a Bologna con "Repubblica" da uno scienziato come Carlo Flamigni: il Pd affonderà sui temi etici, perché in esso è impossibile ogni dialogo fra laici e cattolici. L'Ulivo era nato per favorire quel dialogo. Non soltanto, come sogna Veltroni, con il capo dell'opposizione e la di lui consorte.

Antonio Montanari


2605/10.02.2018