Politica. Articoli vari del mese di Aprile 2007, blog de "La Stampa"

30/04/2007
L'Europa e la Chiesa di Roma

Esimio prof. Pera, ho letto con grande attenzione il suo intervento apparso sulla Stampa di stamani.
Non entro nel merito delle tante questioni che lei solleva partendo dall'indimostrato assunto che l'Europa è «il vero nemico della Chiesa» di Roma.
Mi soffermo soltanto sul passaggio in cui lei scrive che la stessa Chiesa «come tanti, i più, ritiene che l'omosessualità sia un disordine morale e una a-normalità, per ragioni culturali, genetiche, fisiologiche o che altro».
Poche parole ma che contengono una serie di grandi e gravi questioni che però non si possono dibattere nel semplice luogo che è un blog.
Mi scusi se sarò forzatamente sintetico.
Anzitutto, un dogma religioso non ha bisogno della maggioranza democratica per avere valore. «Come tanti, i più», lei scrive usando un argomento che contrasta con lo spirito cristiano, con il Gesù venuto a combattere le opinioni prevalenti nel suo tempo.
Questo dogma a cui lei accenna, riguarda il concetto di natura umana. Tutto ciò che, dall'epoca medievale in avanti (dal cosiddetto aristotelico-tomismo), si contrappone all'idea di perfezione intesa non come un dato risultante dai fatti ma come un principio dichiarato a prescindere da quei fatti, è condannato dalla Chiesa. Quindi nulla di nuovo se la stessa Chiesa, ufficialmente ferma all'aristotelico-tomismo, condanna la sodomia.
Liberissima di farlo. Ma meraviglia che laicamente ci si sottometta al dogma senza discuterne il contenuto.
La natura è perfetta?
Sabato sera ho ascoltato padre Alex Zanotelli ospite di Fabio Fazio.
Nel raccontare la sua esperienza pastorale svolta non tra le confortevoli stanze delle nostre case, ma tra baracche africane abbandonate nel fango, Zanotelli ha detto due cose sconvolgenti.
Ha definito Dio come Padre e come Madre (immagine già usata da Giovanni Paolo I e censurata di recente da Benedetto XVI). Anzi come Papà e Mamma.
Poi ha ipotizzato la drammatica sofferenza di questo Papà che non può applicare la sua misericordia a salvare dal dolore terreno le sue creature proprio perché rendendole libere ha tolto a se stesso il potere d'intervenire nella nostra vita fisica.
Forse Zanotelli è un eretico. Mi auguro che nessuno pensi a trattarlo come tale, auspicandone una condanna al rogo.
Un'ultima cosa. È apparso di recente un volume del filosofo Pietro Rossi, «L'identità dell'Europa» (il Mulino).
L'autore scrive che del patrimonio culturale del nostro continente fanno parte, oltre alla democrazia liberale ed al libero mercato, anche altri tre elementi: «lo sforzo di estendere la giustizia sociale, la tolleranza reciproca delle fedi religiose, l'uso pubblico della ragione».
Sono tre prìncipi di straordinaria importanza. Soprattutto l'ultimo, quell'uso pubblico della ragione, che concilia e riassume tutti gli altri. Ma esso si contrappone al dogma religioso da qualunque fede provenga. È questo uso pubblico della ragione che mi sembra sia da lei scambiato per l'atteggiamento che si pone quale «nemico» della Chiesa di Roma.
Sarebbe interessante leggere una sua opinione su questi passi di Pietro Rossi.

28/04/2007
Economist e cilicio della Binetti

Al settimanale Economist non tornano i conti. Il Pd italiano si richiama all'esperienza politica di Clinton. Ma nel Pd c'è pure Paola Binetti che aderisce all'Opus Dei ed indossa il cilicio.
Il periodico britannico aggiunge che Clinton non avrebbe mai usato il cilicio.
A parte l'ovvia irrisione protestante che si cela dietro la critica ad una persona che si dichiara cattolica, osserviamo che neppure a noi personalmente piace il cilicio.
Nella vita c'è già abbastanza da soffrire per non doversi procurare altri dolori con artificio.
Molto probabilmente la signora Binetti ha avuto qualche dritta da Bush più che da Clinton, per le sue dichiarazioni politiche e forse anche per il cilicio.
Lasciamo ad ognuno la libertà di portare tutti i cilici che vuole, ma nel regolamento del nascente Partito democratico dovrebbe essere inserito un punto in cui, circa queste scelte, si dovrebbe precisare che sono cose che, se si fanno, però non si dicono.
Non si sa mai. Infatti ci potrebbe essere sempre qualcuno disposto ad imporle come obbligo politico: un tanto del mensile da parlamentare al partito, ed un poco delle proprie libertà intellettuali alla mortificazione spirituale mediante strumento di tortura. Per legarsi alle radici cristiane dell'Europa.

26/04/2007
Bayrou e l'omlette romana

François Bayrou si farà un partito e lo chiamerà democratico, come quello di Prodi Rutelli e Fassino. I quali si troveranno così in un bel guaio.
Per restare centrista (o come osserva argutamente Domenico Quirico, per rimanere centrale nel gioco politico francese), Bayrou userà un'etichetta che a livello italiano indica però non soltanto il centro dell'elettorato moderato europeo, ma pure quella parte di sinistra che in Francia guarda a Ségolène Royal.
Dunque l'etichetta di Bayrou turberà alla fine ancor di più gli umori italici.
Già c'era stato un equivoco tra Ségolène Royal e Prodi. Lei dice che lui andrà domani venerdì a Lione. Lui risponde che non sa nulla poi aggiunge: le manderò una cartolina (in video).
Adesso insomma le cose francesi rischiano di spaccare altre uova nella casa «democratica» in costruzione a Roma. Ovvero una bella frittata.
Non so se la traduzione di omlette renda l'idea, ma la sostanza è quella. (I francesi hanno l'equivalente della nostra frase «rompere le uova nel paniere»?)
Comunque la morale della favola è questa. Quando parla il centrista francese Bayrou s'agita il centrista italiano Rutelli, anche perché Bayrou tratta male Berlusconi.
Al quale i «democratici» nostrani di governo stanno invece guardando con simpatia per l'affare Telecom.
Bayrou ha accusato Sarkozy d'avere «qualche somiglianza» con Berlusconi, quasi ricalcando il discorso fatto il giorno precedente da madame Royal. Per la quale, Sarkozy «vuole un'Europa che non vogliamo, un'Europa ultraliberale alla Berlsuconi».
In tal modo pure madame Royal inquieta i colleghi-compagni romani mentre questi pensano appunto al Cavaliere come salvatore della Patria nel campo nella telefonia nazionale.
Quando Fassino e Prodi guardano verso Parigi, tremano. Come quando tengono d'occhio i loro dissidenti interni, in fuga verso l'appuntamento di domenica prossima, detto degli «Uniti a sinistra». (Diceva Totò: «Ma mi faccia il piacere!».)
Intanto si pensa alla gestazione del Pd nostro non di Bayrou. E si cerca di capire il senso di quel motto «una testa - un voto».
A me sembra l'eco della discussione avvenuta nel 1789 agli Stati generali francesi, sul voto non per «ordine» ma appunto per testa.
Quello per «ordine» avrebbe favorito nobili ed ecclesiastici. Il voto per testa avrebbe fatto invece trionfare il «terzo stato», quello da cui nasce tutto quanto succede poi.
Venendo all'oggi, i partiti hanno sostituito gli «ordini» dell'antico regime.
La proposta è di votare non secondo i partiti (cioè la loro consistenza parlamentare odierna), ma secondo le «teste» degli elettori che s'iscriveranno alle primarie a venire del Pd.
Tornando alle storie parallele di Parigi e Roma: Bayrou dimostra come perdendo le elezioni non si abbandoni la speranza di condizionare il quadro politico.
Se vivesse in Italia, lo chiamerebbero Andreotti.

23/04/2007
Tra Parigi e Roma

La Roma politica che ruota attorno al governo ed al nascituro Partito democratico, avrebbe potuto ricavare una tranquilla lezione ammonitrice dal primo turno delle elezioni presidenziali francesi, se madame Ségolène Royal avesse avuto più di quel 25,84% dei voti che ha conseguito. Un risultato che tuttavia supera quasi di un punto quanto le accreditavano i sondaggi.
Invece a Roma si danno le solite contraddittorie interpretazioni come ai tempi del «Candido» di Giovannino Guareschi, con il «visto da destra» ed il «visto da sinistra». C'è una sola differenza. Adesso, le opposte valutazioni del voto francese sono all'interno dello stesso Pd, non in schieramenti concorrenti. A Parigi l'ago della bilancia si mostra il centro di Bayrou. A Roma nel Pd il centro rutelliano che guarda a Bayrou, fa da bastiancontrario rispetto all'ala fassiniana che plaude a Ségolène Royal. Dunque, una tipica situazione da «fratelli coltelli».
Osserva il sociologo della politica Alain Touraine nell'intervista di stamane fattagli da Domenico Quirico: «Ségolène ha realizzato un buon colpo ma ora tutto dipende da Bayrou e dai suoi voti». Se il buon colpo di madame Royal si ripetesse nel ballottaggio e lei la spuntasse su Nicolas Sarkozy proprio grazie ai centristi di Bayrou, quali conseguenze si registrebbero in Italia nella gestazione del Pd, è facile immaginare.
Per Roma, se il centro francese risultasse determinante, sarebbe (forse, mi auguro di sbagliare) un indebolimento della nostra sinistra che guarda con simpatia a Ségolène Royal. Però, se madame perdesse e trionfasse Sarkozy, altrettanto probabilmente le cose andrebbero male per il nostro Pd.
Ci sarebbe sempre qualcuno pronto ad accusare il nome «socialista» della candidata quale causa della sconfitta.
Se entrambe le ipotesi (vittoria o sconfitta di madame Royal) non vanno bene per il partito Democratico italiano in gestazione, significa forse che, per chi ci crede, si preparano giorni meno sorridenti di quelli vissuti a Firenze ed a Roma durante lo scioglimento di Ds e Margherita.

18/04/2007
Quell'Ulivo che fine farà?

Nei giorni di vigilia decisivi per le future sorti del Partito democratico, con lo svolgimento degli ultimi congressi di Quercia e Margherita, forse sono troppi i conti in sospeso per poter sperare in una serena gestazione della nuova formazione. La quale dovrebbe raccogliere con entusiasmo riformisti e moderati, insomma una specie di matrimonio d'interesse fra diavolo ed acqua santa, del tutto improbabile se non addirittura improponibile dal punto di vista logico. Ma si sa che spesso, nella storia e nella vita, non conta la logica. Talora vincono i buoni sentimenti ed in altre occasioni trionfa la capacità di reagire con durezza ai fatti che ci sono davanti.
I buoni sentimenti sono spesso causa di forti delusioni e fregature. L'esperienza di ognuno potrebbe farne un catalogo illuminante. Figurarsi se andiamo a vedere le vicende collettive. Una per tutte, lo sconforto che dopo tangentopoli ha coinvolto tante persone perbene che s'erano illuse con il programma riformista socialista craxiano, per superare l'eterno dualismo fra biancofiore e bandiera rossa.
Ma anche la durezza ha le sue controindicazioni ed i suoi gravi effetti collaterali. La storia politica italiana ne ha tanti esempi, riassumibili in quella frase ironica e drammatica al tempo stesso, che usava Pietro Nenni: «Alla fine c'è sempre uno più puro che ti epura».
Il centro-sinistra sta navigando faticosamente fra due scogli, quello della conservazione sostenuta dai moderati e quello della fuga in avanti (per usare formule vecchie ma spero comprensibili) di chi non vuole accettare lo status quo, l'immobilismo e l'inerzia. E dicendo di non stare al gioco, se ne esce dalla casa-madre non più sbattendo la porta ma avvertendo in anticipo con un significativo galateo: guardate che ce ne andiamo.
Un tempo i moderati avrebbero risposto deridendo come Togliatti fece con Vittorini. Oggi questo non basta più o non è più possibile. Oggi ai moderati, proprio in virtù della loro posizione che dovrebbe essere elastica e non dogmatica, tocca il compito certo difficile di comprendere che il dissidente di casa propria non è un eretico, che la sua fuga indebolisce la possibilità di una gestione «ulivistica» (insomma, tutti assieme appassionatamente), e che si fa soltanto il gioco politico di una destra litigiosa, senza idee, in affanno costante per barcamenarsi tra il peronismo berlusconiano e la necessaria visibilità dei singoli leader delle piccole formazioni che però hanno grande capacità di ricatto. Come dimostra il fatto che nella discussione sulla riforma elettorale la soglia di sbarramento del 5 per cento è stata abbassata addirittura al 2 (cioè praticamente a zero) per non scontentare nessuno.
Nelle settimane che passeranno tra gli ultimi congressi di Quercia e Margherita per arrivare alla fase costituente del Partito democratico, le ragioni dei dissidenti dovrebbero trovare ascolto, non per patteggiare alcunché ma per comprendere la posta in gioco (drammatica) che richiama in un certo senso quella del primo dopoguerra del secolo scorso.
Nel 1920 socialisti e popolari vinsero elezioni comunali e provinciali, dopo che nel 1919 la vecchia maggioranza liberale era passata da 310 a 179 seggi. Nel 1919 socialisti e popolari ebbero 257 seggi contro i 251 degli altri partiti. Nel 1921 i socialisti persero 33 seggi, di cui 15 andarono al pci. I popolari con 108 seggi (+7) ed i fascisti al debutto con 35, furono collegati nel blocco nazionale che raccolse in tutto 274 deputati. Gli agrari scelsero l'aiuto dello squadrismo, e poi l'uomo di Predappio fece la marcia su Roma in carrozza letto.
Era lo stesso ottobre 1922 in cui i riformisti furono cacciati dal partito socialista. Si chiamavano Turati, Treves e Matteotti. Il quale nel 1924, dopo aver denunciato le illegalità e le violenze compiute dal governo a danno dell'opposizione, fu rapito ed ucciso.
Oggi i contesti sono fortunatamente diversi. Ma resta la lezione. I dissidenti non hanno torto per principio. Soprattutto oggi che la regola della discussione democratica dovrebbe essere rispettata dai partiti per primi. Soprattutto da quelli che debbono ancora costituirsi.

16/04/2007
Ci ha provato

Embé, da San Pietroburgo Silvio Berlusconi ha tentato di farci credere che il vero unico comunista (a denominazione controllata) non è Vladimir Putin, ma Romano Prodi.
Embé, ha tentato, ma non gli è riuscito. E pensare che il Cavaliere s'era informato anche con Massimo D'Alema. Il quale alzando leggermente il baffetto di sinistra gli aveva quasi dato una speranza: «Comunista comunista proprio no, ma Romano c'è quasi vicino».
Pure Rocco Buttiglione aveva suggerito qualcosa a Berlusconi, proprio nel momento in cui, al congresso dell'Udc, lo aveva dichiarato decotto. L'Uomo di Arcore aveva teso un orecchio sino a Fiuggi: se Rocco pensa che io sia il passato, guarda senz'altro a Prodi per il futuro, e non tenendo più la destra, anche il buon filosofo, amico del bel tempo che fu, andrà senz'altro a sinistra con i feroci compagni moscoviti.
Nella serata trascorsa con Putin, dopo aver visto muscolosi atleti di arti marziali, Berlusconi ha tratto un sospiro di sollievo ammirando (dicono le cronache) ballerine in succinti costumi rossi. Quel colore gli ha suggerito un pensiero: anche i «rossi» hanno la loro bellezza. Ma pensando a Prodi, s'era rimangiato il pensiero.
Infine sono arrivate le cariche della polizia di Putin (vero democratico per Berlusconi) contro i dissidenti. E Silvio ne ha tratto conforto. Prodi non va proprio bene per l'Italia.

10/04/2007
Prodi e Strada

La vicenda drammatica di Adjmal Naqshbandi, l'interprete di Daniele Mastrogiacomo ucciso dai talebani, divide Gino Strada da Romano Prodi.
Si ripete come sempre il dramma della Storia. Le ragioni dell'umanità soggiacciono a quelle della politica.
Le ragioni dell'umanità sono destinate a perdere, dovunque. Quella della forza non vincono mai, anche quando trionfano.
Quelle della politica non si sa se vincano o perdano assieme. La politica è l'inganno, la parola di meno o la parola di troppo. La storia è frutto e vittima di questo inganno. I politici alla fine hanno sempre ragione. Tuttavia nel tempo vincono soltanto le ragioni dell'umanità, non quelle dei leader o dei capi di governo.
A Mario Lozano, il soldato Usa che da un check point a Baghdad sparò contro l'auto dove viaggiavano Nicola Calipari (rimasto ucciso) e Giuliana Sgrena, i politici hanno insegnato che se non uccidi ti uccidono.
Lui ha eseguito, ha obbedito: «Se esiti, torni a casa in una bara. E io non volevo tornare a casa in una bara. Ho fatto quello che avrebbe fatto qualunque soldato al mio posto».
Poi con una terribile osservazione tutta politica cambia discorso a proposito di Giuliana Sgrena: «Sono sicuro che la sua vita non è come la mia: lei fa i soldi, è famosa».
Sembra di ascoltare un commento tutto italiano.
Stamani l'articolo di Giulietto Chiesa sulla Stampa terminava con queste parole a proposito di Gino Strada: «Ugo Intini ha detto che "Gino Strada è un uomo esasperato"», un po' meno volgare di Berlusconi che parlò di un "chirurgo confuso"».

06/04/2007
Se un giovane ci lascia così

Egregio professor Marcello Pera.
Lei ha scritto sulla Stampa di ieri che l'Italia corre un «rischio clericale».
È un articolo interessante, intelligente, cauto, arguto.
Da filosofo come lei è. Ma si sa che i filosofi oggigiorno parlano e scrivono a pancia piena (per fortuna).
Ma per sfortuna ci sono persone che soffrono a pancia vuota, e talvolta la loro storia finisce come quella del giovane torinese che ha preferito la morte ad una vita che gli era diventata insopportabile.
Lei prof. Pera ci rassicura. In Italia abbiamo una «rinascita del sentimento religioso».
Di questa «rinascita» la politica dovrebbe comprendere «le ragioni profonde», facendosene interprete ed affidando a quella rinascita «un compito rigenerativo contro la crisi che in Occidente stiamo attraversando».
Al contrario di lei ritengo che la Filosofia debba più seminare dubbi che suggerire certezze o conferme a quello che ci frulla in testa.
Adesso, professore, spieghi lei alla madre di quel ragazzo alcune cosette che lei ha scritto: che l'Occidente è in crisi, ma che in Italia abbiamo una «rinascita del sentimento religioso».
Lei dice giustamente che i vescovi non debbono credersi dei politici. Non leggo però che i politici non debbono credersi dei vescovi. Lei suggerisce nel solenne latino della formula, di vivere «velut si Christus daretur».
Lasciamo formule, latino, codici di Diritto canonico, e pensiamo a quel ragazzo che si è tolto la vita. A lei, professor Pera, suggerisce l'idea che è vittima della crisi dell'Occidente, oppure di equivoche interpretazioni sul ruolo della laicità nella politica, oppure di qualche discorso ecclesiastico andato giù troppo pesante a proposito di certi temi recenti?
Ci (si) spieghi, per favore.
Quel ragazzo ha visto il rischio di vivere (male) e ci ha lasciati.
L'argomento, professore, interessa ai Filosofi anno Domini 2007?

02/04/2007
Se piangi, se ridi

Se piangi, se ridi... diceva una canzone di successo. Ognuno ha i suoi buoni motivi per scegliere una delle due strade emotive.
Elisabetta Gardini era allegra giovedì 29 marzo e confidava le ragioni del suo buonumore: «Il presidente ci ha come resettato il cervello. Ripulito, ecco».
Sentir dire una signora che era lieta perché le avevano ripulito il cervello, lasciatemelo dire, fa un certo effetto. Ancor più che se lo avesse proclamato un distinto signore afflitto dal mestiere di portaborse.
Lei, che è una portavoce, fa degnamente il suo mestiere. Le dicono di ripetere a pappagallo una certa cosa, e lei obbedisce. Come darle torto? Pur tuttavia, non mi convince la signora Gardini quando batte i tacchi (a spillo), allunga le mani sui fianchi stando sull'attenti e sembra l'incarnazione aggiornata del credere ed obbedire che una volta (anticamente) era di destra, poi in tempi più recenti anche di sinistra, all'epoca dei trinaraciuti su cui scherzava Giovannino Guareschi.
Più emozionante il pianto di ribellione con cui Katia Zanotti al congresso bolognese della Quercia, ha sigillato il suo addio ad un partito che lei guardava mirando alla base e non al vertice come la sua collega Gardini.
Sono storie diverse, Katia Zanotti si farebbe fucilare prima di dire (o soltanto pensare) quello che invece rallegra Elisabetta Gardini. La quale non discute su nulla, il partito sta nella volontà del capo che guida e resetta i cervelli.
Peccato che la portavoce di Berlusconi dimentichi che, mezzo secolo fa, l'accusa di portare i cervelli all'ammasso, era proprio diretta a quei «cumunisti» che il cavaliere vede dovunque. Accusa che adesso può attribuirsi anche ai suoi seguaci. Se ci pensa bene, guardandosi allo specchio, dopo le parole della sua portavoce, Berlusconi può pure lui definirsi un «cumunista». Ed essere soddisfatto di incarnare governo ed opposizione. Prendi due e paghi uno.
Al supermarket della politica italiana, il pianto di Katia Zanotti (giusta o sbagliata che sia la sua scelta nel partito) fa intravedere un senso di umanità che spinge ad augurare alla signora Gardini d'andare a fare quattro chiacchiere con la collega di Bologna. Ma questa volta senza farsi resettare nulla.

Antonio Montanari


2595/08.02.2018