Uomini, animali e poeti nelle nostre valli

La cultura contadina delle valli del Conca e del Marecchia è al centro di un volume (La Stamperia, Rimini 2006) che racconta per testi ed immagini «L’uomo e l’animale», cioè un rapporto che può essere anche sintetizzato con le parole di Claude Lévi-Strauss presenti nell’introduzione: l’animale nella storia non è stato soltanto «buono da mangiare», ma prima di tutto «buono da pensare».
Osserva Gino Valeriani nella stessa introduzione: «Non c’è àmbito della cultura umana che non sia scritto con parole animali». Aggiungendo: «Attraverso la cultura l’uomo non si è allontanato dal mondo animale ma, al contrario, vi si è avvicinato portando funzioni non umane (prestazioni, strategie, comportamenti) all’interno del patrimonio performativo della specie Homo sapiens».
Il libro nasce da ricerche scolastiche nella valle del Conca di una quarantina d’anni fa, svolte in collaborazione con il Circondario (progenitore della Provincia che ora pubblica il libro), ed il Centro Educativo Italo-svizzero, nel cui interno il gruppo di ricerca storica «G. Jacobucci», composto in gran parte di insegnanti, ha prodotto circa trenta pubblicazioni, mostre, conferenze, documentazioni nelle scuole e in altre sedi. Poi è venuta la costruzione di un museo polivalente della cultura della valle, a Valliano di Montescudo. Che da iniziativa di carattere locale è diventato occasione di riflessione sui cambiamenti sociali a livello più generale.
Gino Valeriani imposta il suo discorso in quattro tempi. Anzitutto racconta la storia della più importante fonte di energia esistita fino al Settecento nell'economia europea. Poi esamina i comportamenti collettivi partendo da quella frase di Lèvi-Strauss, i valori estetici, le metafore e gli aspetti psicologici. A Giancarlo Frisoni si debbono i «racconti» in prosa, mentre alle penne di Vincenzo Sanchini e Mario Aluigi (veterinario, studioso di omeopatia e scrittore) è stata riservata la parte poetica (in dialetto). Le splendide illustrazioni sono opera di Luciano De Santi che ha lavorato a Milano come art director per alcune agenzie pubblicitarie ed insegnato a Rimini.
Al nostro collaboratore Sanchini abbiamo chiesto di spiegare la tecnica dell’ottonario che egli usa: «So anch'io che nella versificazione del Novecento è il lettore a individuare nel verso definito dalla segmentazione "le forme ritmiche della poesia”, ma "un po' ad delma" mi pare non faccia male. È questo il motivo per cui faccio ricorso all'ottonario, un verso che ho dentro, anche perché si avvicina molto al mio normale parlare nei greppi. "Di' an dut ci andèd jer sera?" (Di', dove sei andato ieri sera?) è una semplice domanda, ma anche un bell'ottonario. Riguardo alla "motivazione", la risposta l'avevo confusa, dentro, ma Ezio Raimondi con il suo "Ci sono cose che solo il dialetto sa dire", ha chiarito un po' il tutto. J è dli ròbje e è po' bastè/ che l' sucéd snò tel djalét/ e sli s'pròva ad arcuntè/ s'n'ènta vos li s'po castrè… (Ci sono cose e può bastare/ che succedono solo in dialetto/ e se si prova a raccontarle con un'altra voce si possono castrare…)».
Sanchini pensa ad un illustre antenato per la sua poesia: «Che Marziale abbia lasciato Roma per un soggiorno a Forum Corneli (Imola) e in altre città emiliane è cosa nota, ma chissà che non abbia fatto, magari di passaggio, anche una capatina a Cerreto, dove, almeno nel mio caso, ha lasciato…eredità d'affetti. Quando, infatti, ho cominciato ad avere a che fare con qualche autore latino, Marziale mi ha da subito incuriosito e interessato, in particolare per i suoi epigrammi di un solo distico o addirittura di un solo verso. Se mai avessi scritto qualcosa in versi, quello sarebbe stato il mio modello. Ed è così che il ‘fulmen in clausula’, la trovata finale che chiude in maniera brillante i suoi epigrammi, si ritrova nelle mie poesie, in gran parte ridotte… all'essenziale. Narrazioni brevi, essenziali, asciutte, scabre: quello a cui tendo».

Antonio Montanari


1195/15.06.2006