Viva la squola. (3)
La pedagogia pratica dell'«asino vivo»...
... meglio del «dottore morto», secondo nonna Lucia

Finita la terza Media nel 1956, ero stato molto indeciso sulla scelta della scuola da frequentare. Mio padre avrebbe gradito che m'avviassi ad un corso liceale. Lo compresi tanto tempo dopo. La mia incertezza nasceva dalle notizie che giravano sui percorsi ad ostacoli rappresentati da Scientifico e Classico. Lo Scientifico lo scartai a priori, in considerazione della mia incompatibilità con la Matematica. Del Classico si diceva che rendeva impossibile la vita a persone normali come me, con professoresse terribili, lezioni concluse con l'assegnazione di interminabili versioni di latino, e soprattutto lo studio del Greco che sigillava ogni spauracchio.
Avevo conoscenti e parenti che dicevano d'esser stati costretti a scappare come Garibaldi verso il rifugio di San Marino dal «Giulio Cesare» riminese. Vi troneggiava il preside Arduino Olivieri, austero e solenne come un monumento vivente alla Cultura, e futuro mito felliniano nella rivisitazione di «Amarcord».

«Dove vai?»
«Non lo so»
Dopo aver concluso l'esame di terza Media, un pomeriggio mio padre ed io incontriamo il maestro Antonio Di Jorio (1890-1981), insegnante di Musica, direttore della banda «Città di Rimini» (per la quale mise fuori di tasca propria molti soldi, come mi raccontò sua figlia Pasquina) ed anche antico direttore delle Magistrali di Forlimpopoli, paese d'origine di mio padre. Di Jorio mi chiede: «Ed allora dove vai?». Con la sicurezza di chi ha già la risposta in tasca gli dico: «Non lo so». Di Jorio mi guarda mostrando un affetto paterno che gli derivava da una lunga consuetudine con la mia famiglia, e taglia la testa al toro: «Fai come zio, vai alle Magistrali». Mio zio Guido (classe 1918), fratello di mia madre, aveva frequentato l'Istituto Valfredo Carducci di Forlimpopoli proprio al tempo in cui lo aveva guidato il maestro Di Jorio. Il quale sapeva pure che lì molto tempo prima aveva studiato anche mio padre (classe 1901) beccandosi un tre in Musica da riparare a settembre perché terribilmente stonato nel «canto corale». A nulla gli era valso il nove in Italiano con il prof. Federico Ravagli (1889-1968), lo scrittore amico di Dino Campana.

La nonna Ida
maestra rurale
Mio padre si chiamava Valfredo perché era stato tenuto a battesimo da Valfredo Carducci, il fratello di Giosue il poeta. Valfredo Carducci è ancor oggi ricordato tra l'altro per aver affibbiato ad un allievo della scuola il soprannome di «matto di Predappio». Si trattava di Benito Mussolini che nel 1901, presentando domanda per una supplenza a Legnano, si definiva «licenziato d'onore dalla Regia Scuola Normale di Forlimpopoli». Nello stesso paese mia nonna paterna Ida Zaccarini era stata maestra rurale. Dunque, esisteva una specie di condizionamento biologico (dimenticavo: un fratello di mio padre fu direttore didattico a Ravenna e poi ispettore a Bologna), a guidarmi verso le Magistrali. Per correttezza debbo aggiungere che una discreta dose di viltà nello sfidare gli ostacoli, mi convinse (o costrinse) nella scelta.
Quali attenuanti al mio comportamento, invoco due massime che avevo sempre sentito propagandare caldamente in casa. Nonna Lucia (classe 1881) non si preoccupava troppo del mio rendimento scolastico, anteponendo ad ogni valutazione di esso un principio che per lei doveva essere una di quelle frasi da inculcare in ogni mente giovanile come regola da mettere in pratica prima di tutto e contro tutto: «E' meglio un asino vivo di un dottore morto». Nelle giornate più propizie elencava una serie variopinta di persone rimaste vittime sotto l'aspetto psichico di un eccessivo attaccamento allo studio. Come madre lei aveva però costretto sempre mio zio a passare lunghi pomeriggi nella sua camera chino (in apparenza) sui libri, impedendogli di uscire di casa. Lui aveva risolto il problema della reclusione evadendo dalla soffitta, sulla quale la nonna non poteva esercitare un diretto controllo. Fu così che in ogni giornata di tempo buono, tutto l'isolato attorno a palazzo Lettimi dove abitavano e dove sono nato, era oggetto delle perlustrazioni che lo zio compiva camminando sui tetti.

Il passo
e la gamba
L'altra massima filosofica che risuonava tra le mura domestiche, era quella pronunciata da mia madre con una convinzione quasi religiosa: «Non si deve fare il passo più lungo della gamba». Come regola di vita, essa può essere facilmente smentita dal folto repertorio deducibile dalle biografie di personaggi che partiti dal nulla hanno raggiunto fama, successo e soldi. Essa rispecchiava una mentalità piccolo-borghese che s'accontentava di quello che c'era, non desiderava l'impossibile, e dettava una norma di comportamento la quale nasceva pure da una profonda moralità: non compiere azioni cattive per raggiungere risultati altrimenti impossibili. Occorre rammentare che la nostra generazione doveva subire anche la cantilena continua della guerra che aveva distrutto tutto, per cui ogni piccola conquista era inevitabilmente considerata un grande traguardo. Non possiamo guardare oggi a quelle antiche pagine grigie e grame con gli occhi dei posteri che hanno facile accesso ad ogni oggetto di consumo con poca spesa (rispetto ad allora).
Fatto sta, dunque, che mi iscrissi alle Magistrali, conseguendo nel primo anno un risultato pressoché disastroso. Confermato nella mia antipatia verso la Matematica, fui rimandato ad ottobre, come si diceva dimenticando che gli esami di seconda sessione si svolgevano a settembre. Pagavo pegno per la lettura sottobanco della «Gazzetta dello Sport» in quelle noiosissime ore trascorse in un silenzio surreale che aveva come unica alternativa un ben più compromettente sonnellino. Dopo quell'estate trascorsa chino sui libri, smisi di leggere i quotidiani sportivi. Ma la Matematica non fu sola. Dovetti riparare non so perché in Francese, nonostante una discreta pronuncia (insolita in città, dove l'influsso dialettale è deleterio), grazie alla capacità linguistica di mio padre il quale parlava correntemente anche il Tedesco (che però non m'insegnò mai).

«Piove» sul tema
e son bocciato
Non c'è due senza tre: nell'ultimo trimestre mi rovinai (o per meglio dire, mi fu rovinata) la più che sufficiente media in Italiano. Nel compito in classe conclusivo scelsi il titolo che diceva semplicemente: «Quando piove». Ispirandomi al proverbiale svolgimento del Pierino delle barzellette, che dovendo trattare di «Quando passa il treno» condensò i suoi pensieri in un laconico: «Mi sposto», mi sarei forse salvato se avessi scritto soltanto: «Apro l'ombrello». Invece mi dedicai con aperta vena confidenziale a spiegare quanto fosse «bello» andare in bicicletta sotto l'acqua. Apriti cielo, fu proprio il caso di dire nel fatidico giorno della pubblica correzione dei compiti quando ognuno di noi veniva messo alla berlina se di sesso maschile, od elogiato se apparteneva alla eletta schiera delle femmine che chissà perché sapevano fare tutto, e se anche non capivano granché trovavano in genere completa comprensione da parte delle insegnanti, e anche da parte degli insegnanti (maschi) nei casi rari e particolari in cui alla capacità subentrassero esclusivamente simpatia o bellezza.
Pure in seconda ripassai a settembre per Italiano perché la nuova professoressa non gradiva le mie spiegazioni letterarie. Trascorsi l'estate ad esercitarmi con un amico di mio padre, il prof. Nevio Matteini, noto scrittore e studioso di storia riminese. Alla lettura della prima prova scritta che mi aveva assegnata (i suoi titoli erano chiaramente liceali, ovvero non facili), ebbi la soddisfazione di sentirmi dire: «Ma lei sa scrivere». Le cose filarono lisce in terza e quarta, soprattutto in Italiano.
In terza il prof. Campagna s'accorse che c'erano allievi bravi allo scritto ma che poi facevano scena muta all'orale. Ideò un tranello, un compito in classe all'improvviso in cui i furbi vennero scoperti. (Uno di loro era molto organizzato. Per lo scritto di Latino portava a scuola pagine e pagine di versioni già tradotte. Una volta si smascherò da solo non essendosi accorto che il testo datoci dalla insegnante era più breve di quello che ricopiò lui.) Avevamo il turno pomeridiano. Con la terza che andava al mattino, e quello stesso giorno aveva affrontato pure essa il compito in classe, il prof. Campagna s'era vantato del tranello preparato. Qualche compagno di lotta e di sventura ci avvertì del progetto punitivo e soprattutto dei temi assegnati, che sarebbero stati gli stessi anche per noi. In pochi minuti chi sapeva qualcosa di letteratura poté documentarsi su argomenti di una pignoleria terrificante, e fare ottima figura con grande soddisfazione anche del docente.

Coro solenne
in Comune
All'esame di maturità come si dice oggi (allora era d'«abilitazione magistrale») si portavano tutte le materie, compresa Musica e canto corale, dove avevamo avuto per un certo periodo come insegnante il maestro Di Jorio, dopo la scomparsa della gentile Mariolina Tosi che anziché della sua materia trattava con garbo di morale e Religione. Di Jorio ci rallegrava eseguendo al pianoforte canzoni classiche o moderne. Di Storia della Musica non sapevamo nulla. All'esame mi chiesero di parlare di un compositore. Dissi di Verdi: sui muri il suo cognome significò «Vittorio Emanuele Re d'Italia».
Per il centenario del 1859 il Comune organizzò una cerimonia all'Arengo con tanto di coro delle Magistrali diretto da Di Jorio. Alle prove mi cacciò bruscamente perché steccavo (...come mio padre). Mi recuperarono per reggere la bandiera. Finito il concerto, al rinfresco in una sala di palazzo Garampi le nostre ragazze in un baleno versarono nelle capaci tasche dei grembiuli neri tutti i cioccolatini del buffet.

(3 - continua)
Alla puntata n. 1
Alla puntata n. 2
Alla puntata n. 4

Antonio Montanari


1169/03.06.2006