Quattordici regole per «sopravvivere» in città

Agli storici che verranno nel terzo millennio raccomandiamo di leggere con attenzione (per capire le vicende di quelli precedenti), il volume di Lia Celi, Alieni a Rimini, pubblicato dall’Amministrazione comunale. La quale così non potrà agire in giudizio a difesa del buon nome della città come invece era stato proposto quando (1988) un dizionario registrò la terribile parola «riminizzazione» per indicare il degrado ambientale causa cemento. Lia Celi è arguta scrittrice, osservatrice smaliziata ed analitica. Le sue pagine raccontano usi e costumi di una popolazione che lega il ritmo della propria esistenza a cicli più economici che stagionali (anche se talora si sovrappongono, beninteso per puro caso), e che s’organizza mentalmente girando attorno a modi di dire che divengono regole di comportamento e metro di giudizio.

Il marziano che arrivava a Roma nella commedia di Ennio Flaiano è l’antenato che ispira il titolo di Alieni a Rimini, per dire di un’estraneità che è differenza filosofica tra residenti e forestieri, improntata a regole di cui non sappiamo l’origine ma che vediamo applicate ogni giorno. S’incomincia con la fondamentale domanda «Fai la stagione?» (appunto l’economia che condiziona il calendario: «la stagione è una sola» come all’Equatore, l’estate, quella in cui lavorano tutti). E si finisce con quella consolazione eroica e sentimentale: «Ma dài che non è niente», ovvero come schiacciare ed evitare la malinconia, magari dopo esser passati attraverso la lezione n. 2 («Oggi c’è garbino») e la n. 9 («Ci pensa la nonna»). Il garbino giustifica tutto quanto vada storto, per cui (scrive Lia Celi) «se non ci fosse bisognerebbe inventarlo». La nonna tuttofare, una specie di 113 famigliare, è la dispotica regina delle cucine che incarna la memoria storica gastronomica di una generazione cresciuta a fatica nel dopoguerra, inascoltata da figlie e nipoti (femmine). Le quali nipoti in un futuro che auguriamo lontanissimo soprattutto per le capostipiti, saranno condannate a cibi precotti e preconfezionati come contrappasso per le gustose ricette che la nonna aveva sempre in serbo per feste comandate ed anche autogestite.

La lezione che meglio rivela le pieghe nascoste di una popolazione indigena nella sua evoluzione post-moderna è la n. 5, dedicata alla «passione locale per lo studio legale». Mille e più avvocati avranno la loro giustificazione geografica: ovvero se esistono, il merito è degli altri che li fanno lavorare. Ma tra loro ed i loro clienti non c’è gran differenza per Lia Celi che spiega: «Quando non fanno gli avvocati, fanno i riminesi, che è quasi lo stesso».

L’autrice spiega che i riminesi d’estate (cioè, crediamo, per tutto l’anno) si dividono in tribù balneari: dimmi da che bagnino vai, e ti dirò chi sei. Abituato come ero a frequentare soltanto la famigerata «spiaggia libera», leggo avidamente a pagina 34 che questo fatto agli occhi dei riminesi significa essere «tirchio, misantropo, nudista e pure zozzone». Accetto con orgoglio il misantropo, ed aggiungo un’apparente dimenticanza dei concittadini: la «spiaggia libera» è pura anarchia non soltanto balneare, ma programmatico-dottrinale. Però i riminesi non lo possono ammettere, essendo profondamente convinti (tutti ed ognuno, di qualsiasi ghetto, partito o bar), d’essere veri «anarchici» che governano il mondo (il che è una bella contraddizione). E lo fanno secondo quelle regole che Lia Celi elenca ad uso dei forestieri per «integrarsi fra i riminesi senza perdere il buonumore», come dice il sottotitolo.

Nel 2004 il Comune aveva pubblicato un altro felice testo sulla riminesità, Una botta d’orgoglio di Silvano Cardellini, storico cronista ed antico amico. Che compendiava il segreto della città con questa massima che risponde al vero: «Siamo una vetrina, una passerella. Tutto succede qui e anche, se di sciocchezza si tratta, fa il giro del mondo».

Antonio Montanari


1146.html/05.01.2006