http://www.webalice.it/antoniomontanari1/studi/2004/barbari.sr.2004.rel.997.html

il Rimino - Riministoria

«Filosofia padrona, natura liberata».
Un “discorso sul metodo” di Giuseppe Antonio Barbari (1647-1707) da Savignano.
Relazione presentata agli «Studi Romagnoli» 2004

Giuseppe Antonio Barbari nel 1678, a trentuno anni, pubblica a Bologna il volume L'Iride, dove espone «la natura dell’arco celeste».
L’editore è Manolessi. Si tratta di Emilio Maria ed Evangelista Manolessi, figli di quel Carlo Manolessi, libraio-tipografo, che nel 1644 era stato condannato a tre tratti di corda ed a tre anni di carcere per aver tenuto nella sua bottega libri proibiti; e che nel 1655-56 ha curato fra mille difficoltà la prima edizione delle Opere di Galileo, priva però della Lettera a Cristina di Lorena e de Il dialogo dei massimi sistemi. [Vedi Appendice 2]
Nella Lettera a Cristina di Lorena del 1615, Galileo sostiene la separazione fra Scienza e Fede. L’anno dopo la Chiesa condanna la teoria copernicana, ed ingiunge a Galileo di non insegnarla. Il dialogo, uscito a Firenze nel 1632, provoca la condanna nell’anno successivo.
Bologna è anche la città dove Barbari ha completato la sua preparazione scientifica, dopo i primi studi letterari nella natìa Savignano, e dopo quelli filosofico-matematici compiuti a Rimini. Nel momento in cui Barbari vi approda sul finire degli anni Sessanta, l’università di Bologna vive un felice momento di proficua attività intellettuale che si scontra con il rigido controllo dell’Inquisizione e con il declino economico e sociale della città. Vi si sta costituendo la scuola sperimentale bolognese di ispirazione baconiana, gassendiana e galileiana. Ne sono grandi maestri Marcello Malpighi per la Biologia, Geminiano Montanari per le Scienze matematiche, e Giovan Domenico Cassini per l’Astronomia.
Con loro, Barbari ha stretti rapporti. Di Geminiano Montanari e forse anche di Cassini è stato scolaro. Montanari accoglie Barbari «con amore assai, e conosciutolo, l’ebbe come fratello» (G. I. Montanari).
Malpighi tiene Barbari in grande considerazione. Ne è prova il fatto che nel 1680 Malpighi invia alla Royal Society (di cui è socio onorario dal 1669), una copia dell’Iride di Barbari, assieme ad altri dieci testi scientifici. La lettera (in latino) di Malpighi a Robert Hooke, segretario della Royal Society, descrive amaramente la situazione culturale italiana: «Presso di noi gli studi languiscono tanto che possono trovare conforto con le sole scoperte degli stranieri. Scoperte che ora sia sono rare, sia pervengono tanto tardi alle nostre mani che qui gli studi non progrediscono ma sopravvivono a stento». Del volume di Barbari inviato da Malpighi, non c’è traccia oggi nella biblioteca della Royal Society, mentre ne esiste un esemplare nella British Library di Londra.
Cassini insegna a Bologna dal 1650 sino al 1669. In questi anni grazie a lui la città primeggia in Europa negli studi astronomici. Nel 1669 Cassini è chiamato a Parigi da Luigi XIV per dirigere l’Observatoire Royal appena inaugurato. Secondo un cronista savignanese del XVIII secolo (Giorgio Faberj), Barbari «aveva corrispondenza con li Dottori della Sorbona». La frase, nella sua genericità, rimanda agli ambienti culturali parigini, e quindi allo stesso Cassini.
Barbari «fu condiscepolo ed amico del Guglielmini, col quale tenne carteggio per cose fisico-matematiche, e specialmente per cose astronomiche» (I. Planco). Guglielmini subentra nel 1690 a Geminiano Montanari trasferitosi a Padova nel 1678, amareggiato per la politica del Senato bolognese che faceva correre il rischio allo Studio felsineo di cadere «in mano a’ preti». La «diagnosi» di Montanari, ha scritto Andrea Battistini, «trova corrispondenza sia in Malpighi, che denuncia la concorrenza dei “Professori claustrali, che hanno rese dozzinali le lettere in ogni angolo, e le hanno avvilite”, sia in un anonimo difensore dell’università, che vorrebbe risollevarne le sorti per farne di nuovo il baluardo contro il ritorno alla Scolastica perseguìto da “Preti e Frati”».
Barbari lasciò il meglio dei propri pochi scritti (G. I. Montanari) a Luigi Ferdinando Marsili del quale era stato condiscepolo. Marsili nel 1685 elabora il primo progetto di quell’Istituto delle Scienze che nascerà soltanto nel 1714. Luigi Ferdinando Marsili è battuto sul tempo da suo fratello, l’arcidiacono Anton Felice che nel 1687 tiene a battesimo nella propria abitazione due accademie: una «per le materie ecclesiastiche», l’altra per «le filosofiche sperimentali», come si legge nel programma «“moderno”» (Raimondi) apparso immediatamente sul «Giornale de’ letterati» che padre Benedetto Bacchini pubblicava a Parma dall’anno precedente.
Nel 1692 Barbari è «invitato alla cattedra di matematica» dell’università di Bologna. Vi rinuncia «per sola umiltà» (G. I. Montanari). Ricordiamo che nel 1689 Barbari è rimasto vedovo con due figli: si era sposato nel 1685 con Laura Giannini. Nel 1702 gli morirà il maschio, e la figlia si farà suora. E lo stesso Barbari entrerà tra i Filippini di Cesena (vedi biografia scritta da Nardi, qui sotto in Appendice 1.)
La carriera intellettuale di Barbari dimostra che attraverso il collegamento con Bologna, Rimini (come le altre città della Romagna) mantenne tra fine Seicento ed inizio Settecento un legame con l’Europa più avanzata, del quale abbiamo perso non le tracce ma la consapevolezza.
A Rimini le idee di padre Bacchini ed i programmi dell’arcidiacono Marsili del 1687, arrivano attraverso i Padri Teatini, nella cui biblioteca si conservavano i tre volumi del «Giornale de’ letterati» del periodo 1686-1689, ora in Gambalunghiana. In Gambalunghiana si trova pure un volume del 1671, le Prose de’ Signori Accademici Gelati di Bologna (Manolessi, Bologna), tra le quali si legge un saggio dell’arcidiacono Marsili intitolato Delle sette de’ filosofi e del Genio di Filosofare (pp. 299-318).
L’arcidiacono Marsili parla di due modi di filosofare: «Molti giurano in un Filosofo, e voglion quello per guida», cercando di «accozzare al vero l’autorità». Altri invece «voglion esser condotti dalla esperienza», partendo soltanto «dal vero». Si sente qui l’influsso di Geminiano Montanari che nel 1665 ha fondato a Bologna un’accademia scientifica, da lui detta «della Traccia» per indicare lo scopo che attribuiva al filosofo: rintracciare «per l’istessa via dell’esperienza la vera cognizione della natura».
Barbari nella prima parte dell’Iride sembra riprendere le parole dell’arcidiacono Marsili quando scrive che esistono due modi di filosofare. Da una parte ci sono i «giurati mantenitori delle opinioni di chi che sia». Dall’altra, quanti pongono come «fondamento d’ogni umano discorso» la «verità del fatto», le «esperienze sensate». Galileo ha usato l’espressione «sensate esperienze» nella Lettera a Cristina di Lorena.
Rispetto a Marsili ed allo stesso Galileo, Barbari aggiunge un’osservazione che scompagina il discorso: «l’esperienze sensate, e le apparenze corrispondenti à qual si sia cognizione non possono essere in tanto gran numero, che bastino per conchiuderne la necessità». Con un contributo originale, Barbari indaga sul concetto di esperienza per mostrarne tutta la complessità e debolezza nel pretendere d’arrivare a conclusioni certe e generali. Sembra di leggere il passo della lettera che «un discepolo e maestro galileiano come Benedetto Castelli» indirizza a Giovanni Ciampoli nel 1639 e che esce a stampa trent’anni dopo: «mi pare che sia troppo gran temerità il pretendere d’intendere perfettamente et assolutamente le cose della natura». La riflessione di Benedetto Castelli sui limiti della conoscenza umana, «costituisce certamente uno degli aspetti più rilevanti della modernità galileiana», anche se assume «toni ben diversi da quelli usati da Galileo. Nel Dialogo, infatti, non sono tanto la fragilità e la debolezza del conoscere a essere poste in primo piano, quanto, semmai, la peculiarità e assoluta specificità dell’intendere umano, che consentono il pieno possesso conoscitivo di singole parti ordinate all’interno della “vera costituzione” del mondo, “dubbia sino al tempo del Copernico”, ma ora a tutti “finalmente additata”». Anche Lodovico Antonio Muratori tornerà sul tema limiti della conoscenza scientifica, scrivendo nelle Riflessioni sopra il buon gusto (1708): «Tutti i sistemi della Fisica patiscono le loro difficoltà; e spesso il vero, o per dir meglio il certo, non si truova in alcune di queste Sette Filosofiche, ma solamente il più, o men probabile, e verisimile».
Esiste, Barbari scrive, «una terza maniera di filosofare», se non rifiuteremo né «approveremo alla cieca le speculazioni, e le fatiche degli antichi, mà facendone essame diligentissimo, cimenteremo li loro detti qualche volta falsi, con l’opere della Natura sempre veritiera».
Barbari non accetta il dogmatismo dell’ipsedixit dei cosiddetti aristotelici come il cesenate Scipione Chiaramonti (1565-1652), strenuo oppositore di Galileo (Favaro, 1920), dal quale è stato citato nel Dialogo per bocca di Simplicio, filosofo aristotelico di stretta osservanza. Chiaramonti nel 1654 ha pubblicato un trattato sempre sull’Iride. Barbari definisce Chiaramonti «gran Filosofo Peripatetico», con un’ironia che gli serve per prenderne le dovute distanze.
Barbari rilegge Aristotele allo scopo di dimostrare che «falsamente è stato interpretato» (Iride, p. 97). Barbari segue così l’esempio galileiano di usare Aristotele contro gli aristotelici. Ne Il dialogo Filippo Salviati, difensore del sistema copernicano, dice: «non dubito punto che se Aristotile fusse nell’età nostra, muterebbe oppinione».
Nel contempo Barbari compone un elogio del proprio secolo e della nuova Scienza: «Al nostro secolo anche per altri capi memorabile, e glorioso si deve finalmente il vanto di haver restituita la libertà alla Filosofia, e resala di serva, e schiava ch’ell’era dominante, e padrona. Al famosissimo Galileo, e altri bellissimi spiriti Italiani, e stranieri, dobbiamo la gloria di haver liberata e sciolta la Natura stessa da que’ ceppi strettissimi, ne’ quali per l’adulazione, ò più tosto scempiaggine di moltissime delle sentenze d’Aristotele, e d’altri ell’era stata imprigionata, e infelicemente ristretta».
La «terza maniera di filosofare» che non rifiuta pregiudizialmente Aristotele e gli «antichi», e che quindi permette a Barbari di salvarsi dalla censure ecclesiastiche, pare ispirata a quella tecnica della dissimulazione a cui allora si ricorreva diffusamente. Come ha scritto di recente Emanuele Zinato (Il vero in maschera, 2003, pp. 7-8), «il decreto anticopernicano del 1616 e la condanna di Galileo del 1633 si tradussero in tutta Europa in un rincaro delle strategie della dissimulazione e della menzogna nell’orchestrazione retorica del discorso scientifico».
Non si trattava soltanto di evitare le censure, ma pure di scansare quei guai che, ad esempio, sul finire del secolo colpiscono gli intellettuali napoletani nel processo ai cosiddetti «ateisti».
Nel pensiero di Barbari la Filosofia è «padrona» in quanto non è più «ancilla» della Teologia, come avevano teorizzato Pietro Damiano e Tommaso d’Aquino. E perché, dopo Galileo, la Filosofia non deve più dipendere dall’«autorità di luoghi delle scritture» (Lettera a Cristina di Lorena). Malpighi parla di una «filosofia libera» che è alla base della nuova Medicina. Ezio Raimondi (Scienza e letteratura, p. 78) riporta l’«apologo gustoso» che Muratori inserisce nelle Riflessioni sopra il buon gusto, a proposito nell’aristotelismo: «…narrava Marcello Malpighi, gloria de’ nostri tempi, che tutti i filosofi da molti secoli sino al Cartesio erano stati rinchiusi dentro un’ampia o sala o galleria o prigione (ché in ciò non ben s’accordano gli storici), dove continuamente passeggiavano, combattevano, talora eziandio venendo daddovero alle mani, e sempre quivi standosene schiavi d’Aristotele, senza sapere che altro paese ci fosse al mondo. […] ora i più saggi van cauti di molto, guardandosi di lasciarsi confinare in quel tal recinto» (p. 302, ed. Arezzo 1768).
La natura «liberata» di cui parla Barbari, è quella teorizzata un secolo prima da Bernardino Telesio che avvia la Fisica «sulla strada di una rigorosa ricerca autonoma, sganciandola» da ogni tipo di presupposto metafisico, sia quello di tipo ermetico-platonico, sia quello di tipo aristotelico (Reale-Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, II, p. 110).
L’impostazione della prima parte dell’Iride, ne fa una specie di “discorso sul metodo” che riassume l’ampio dibattito filosofico del tempo.
L’arcidiacono Marsili aveva proclamato nel 1671 la compatibilità fra Scienza e Religione, ed aveva riabilitato Democrito, cristianizzandolo allo stesso modo con cui Tommaso d’Aquino aveva cristianizzato Aristotele. Galileo stesso era stato accusato di aver professato nel Saggiatore una filosofia atomistica e democritea.
Già Francesco Bacone (1561-1626) aveva ritenuto Democrito ingiustamente dimenticato insieme agli altri presocratici, ed aveva sostenuto che il suo atomismo era compatibile con il racconto biblico.
Malpighi scriverà (Memorie, 1689) di essersi avviato allo «studio della filosofia libera e Democritica» grazie a Giovanni Alfonso Borelli di cui era stato allievo a Pisa.
Guglielmini sembra riprendere l’Iride di Barbari dieci anni dopo, nel 1688 sul «Giornale de’ Letterari» di Parma, quando scrive circa l’impossibilità di giungere a conclusioni certe e generali sulle cause dei fenomeni naturali. Mancano «ancora tante osservazioni», precisa Guglielmini, onde «formare un sistema» che spieghi il rapporto causa-effetto delle «cose» esistenti. Fra «qualche secolo», conclude Guglielmini, ci si arriverà.
Barbari non lascia ai posteri il compito di affrontare il problema della conoscenza scientifica. Suggerisce di ricorrere al metodo dell’analogia, anche se è consapevole che neppure questo è «abile a farci conseguire una cognitione certa, e scientifica delle cose». Tuttavia «almeno in una tal maniera si cerca di dimostrare alcune cose men note, e più dubbie per mezzo d’altre più cognite, e più certe».
«In fine», avverte Barbari, questo è il «metodo, col quale hanno filosofato Platone, Aristotele, Democrito, Epicuro, e gli altri migliori Filosofi». Tra i quali troviamo Bacone che aveva parlato di un sistema rivolto ad «intendere le cose ad analogiam mundi, collocandole nel loro stato naturale, magari per mezzo di esperimenti». Ed ai quali dobbiamo aggiungere lo stesso Malpighi il quale scrisse che «le cose della natura», benché appaiano «tanto disparate», se le consideriamo con esattezza e maturità, «si trovano non così disgiunte, che non si osservi una concatenazione, et uniformità d’operare, e però vicendevolmente vengono illustrate». Anche Lorenzo Magalotti (1637-1712), che diffonde con strategia sottile un atomismo epicureo o piuttosto democritico, si dimostra convinto di un’idea profondamente unitaria della natura, come «eterno passaggio d’una cosa in un’altra», nel particolare momento storico in cui cerca di riattivare l’epistemologia galileiana, ormai inagibile dopo il processo allo stesso Galileo. Magalotti parte dall’ipotesi di un universo meccanicamente armonico, derivata da Democrito, appunto, e da Gassendi.
Un altro richiamo baconiano è presente in Barbari laddove dichiara che, con i «moderni Filosofanti», «non più cose alle parole, ma le parole alle cose, si come è conveniente, si addattano». Bacone aveva sostenuto la necessità di restaurare il «contatto della mente con le cose», dopo che Platone, Aristotele e gli altri avevano abbandonato le cose (la natura, cioè) per affidarsi appunto alle parole. Anche Galileo aveva sostenuto (1612, Prima lettera sulle macchie solari), che «i nomi e gli attributi si devono accomodare all’essenza delle cose, e non l’essenza a nomi; perché prima furon le cose, e poi i nomi».
Il modello baconiano nella cultura bolognese, oltre che in quella italiana in generale, è una «via d’uscita» (M. Cavazza) per evitare le secche della metafisica e gli scogli dell’Inquisizione.
Il concetto di analogia è presente anche nel pensiero di Tommaso d’Aquino, al quale serve per stabilire un nesso razionale tra Dio e l’uomo (Vasoli, Storia della Filosofia medievale, p. 305).
Pure sul fronte aristotelico si parla di analogia. Fortunio Liceti (1577-1657), compone un De mundi, et hominis analogia (1635). Liceti è noto per quanto Galileo gli scrisse nel 1640: «... se Aristotele vedesse le novità scoperte novamente in cielo […], indubitamente egli, mutando opinione, direbbe ora il contrario [...]» (Zinato, p. 71).
Se negli aristotelici come Liceti l’analogia è una scorciatoia per arrivare a determinate conclusioni, invece nei post-galileiani come Barbari l’analogia serve a suggerire una possibile strada da percorrere sperimentalmente, nello studiare i fenomeni.
Soltanto con l’Encyclopédie illuministica si comincia a sottolineare che i ragionamenti condotti per analogia possono spiegare certe cose, ma non dimostrarle, perché la sua regola non è una regola di certezza. Alla voce «conoscenza» l’Encyclopédie elenca i tre mezzi usati ordinariamente: sensi, testimonianza ed analogia. E precisa che nessuno dei tre possiede «la marque caractéristique de la vérité».
Quanto sia attuale il discorso di Barbari sull’analogia, lo testimonia la riproposta in questo anno 2004 delle circa novecento pagine che nel 1968 Enzo Melandri dedicò appunto allo «studio logico-filosofico sull’Analogia», con il titolo La linea e il circolo. Il volume inizia con questa delimitazione dell’argomento: «l’Analogia confina a sud con la Tematica e a nord con la Dialettica; al centro, fra un ovest che è la Scienza e un est che è l’Arte, essa è coinvolta in una lotta intestina con la Logica» (p. 3).
Nella geografia mentale del filosofo, l’itinerario principale è proprio quello storico. Il testo di Melandri inizia infatti con la precisazione che in Aristotele l’interesse per l’analogia è «distratto, marginale», e che ciononostante rispetto ad Aristotele «la trattazione odierna rimane in debito», perché «la trattazione odierna fa di ogni erba un fascio» (p. 10).
Autore nel 1611 di un trattato di ottica in cui parla anche dell’arcobaleno, il De radiis visus et lucis in vitris, perspectivis et iride, fu l’arcivescovo di Spalato Marco Antonio De Dominis (1560-1624). Per aver ipotizzato una Chiesa universale nella quale far convivere varie confessioni cristiane, De Dominis fu incarcerato a Castel Sant'Angelo con l’accusa di essere un eretico relapso. Avendo già abiurato, egli era in serio pericolo di essere giustiziato sul rogo. Morto prima del processo, l’8 settembre 1624 sotto quell’Urbano VIII che condanna Galileo nel 1633, il suo cadavere è bruciato assieme ai suoi manoscritti a Campo dei Fiori il 21 dicembre dello stesso anno. (http://www.eresie.it/id580.htm)
E De Dominis è l’unico autore che, a proposito degli studi sull’iride, Barbari non cita.

Appendice 1.
Biografia
di Giuseppe Antonio Barbaro (recte: Giuseppe Antonio Barbari).
Da
LUIGI NARDI, Dei Compiti, Pesaro 1827, pp. 148-149

«BARBARO GIUSEPPE ANTONIO. Nacque ai 4 febbraro del 1647 da una delle primarie famiglie, ora estinta, di Savignano. Suo padre Fulvio, e sua madre Francesca Manzi di Longiano gli dettero una educazione eccellentissima. Studiò lettere umane, poesia, e rettorica sotto il letterato savignanese D. Marino Zampanelli. Studiò in Rimino filosofia, ed i principii di matematica; ma in ambedue si perfezionò in Bologna in compagnia del Marsilj poi generale d'armi, e del Gozzadini poi cardinale, sotto la scorta del celebre Geminiano Montanari modanese professore dell'università di Bologna.
Possedeva così bene il Barbari il greco, che spesso veniva consultato dai dotti, e sovente scriveva in versi greci quasi all'improvviso. Amò la poesia italiana e latina, e sfuggì la corruttela dello stile in voga a suoi giorni. Conosceva l'ebraico , e si dilettava d'antiquaria. Ma la profondità del sapere era nelle matematiche, nell'algebra, nell'astronomia , per cui era consultato da diverse parti. Fu anche scelto alla correzione del calendario che si riproponeva. Scriveva egli ad un amico, che i calcoli da lui fatti con molta fatica, sperava fossero giunti all'ultima esattezza. Nel 1678 stampò un'operetta pel Manulessi stampatore di Bologna intitolata L'Iride, opera fisico-matematica, dedicata al cardinale Cerri vescovo di Ferrara ; ed è molto rara.
Del 1682 in età di anni 35 sposò Laura Giannini di famiglia distinta di Longiano, che quattro anni dopo gli morì. Nel 1700 ai 24 agosto gli morì anche l'unico fratello D. FULVIO, il quale aveva fatto il vicario generale alla Penna, a Sinigaglia, a Fossombrone, Urbino, Ancona, e si era trattata la rinunzia in suo favore del vescovato di Rimino; che costantemente rifiutò. Nel 1702 gli morì l'unico maschio avuto da Laura, e si monacò in Roncofreddo l'unica figlia avuta dalla medesima.
Stanco perciò del mondo si ritirò tra i Filippini di Cesena, ed ascese al sacerdozio per volere del suo amico mons. Fontana vescovo di detta città. Si esercitò moltissimo nel sacro ministero della parola, e della confessione. Fece a sue spese fabbricare la cappella di s. Francesco di Sales in quella chiesa di s. Severo. Crebbe tanto nella pietà, e nel dono delle lagrime, che godeva riputazione di santo.
Nel 1707 era venuto a prendere aria in Savignano: vi si infermò e vi morì ai 14 settembre giorno dell'esaltazione della croce, verso la quale avea molta devozione, ed alla cui compagnia in Savignano avea donata una sottocoppa d'argento per farne un reliquiario.
II popolo accompagnò il di lui cadavere come quello di un santo alla tomba che gli fu data nel sepolcro suo gentilizio nella chiesa di s. Sebastiano de' PP. Min. Oss., e si narravano dei prodigi avvenuti per la di lui intercessione. Circa il 1789 fu ritrovato il di lui corpo intiero, e le di lui vesti conservatissime. Fu corpulento, di alta statura, e fisonomia piacevole.»
Torna al testo.


Appendice 2.
Andrea Battistini
ha scritto:
«All’indomani della pubblicazione dei Massimi sistemi Cesare Marsili si prende l’incarico di “procurare lo spaccio” dell’opera in città, facendone arrivare ben trentadue copie, benché poi la messa all’Indice tronchi ogni aspettativa. Tuttavia, a distanza di un ventennio, giunge in porto, tra il ’55 e il ’56, un’edizione bolognese in due tomi delle Opere galileiane che, per la prima volta in Italia, ripropongono tra l’altro i Discorsiintorno a due nuove scienze.
Ma proprio da questa impresa appare evidente l’ostinata fermezza dell’inquisitore bolognese, Guglielmo Fuochi, nel censurare ogni espressione di copernicanesimo. Dal carteggio dello stampatore Carlo Manolessi con Vincenzo Viviani, l’ultimo e più giovane degli allievi fiorentini, è possibile comprendere quanti fossero gli ostacoli frapposti, ma al tempo stesso la determinazione, ferma ancorché guardinga, di arrivare finalmente alla stampa, sia pure con un forte ritardo sui tempi previsti. E le conseguenze non sono soltanto l’impossibilità, del tutto scontata, di ripubblicare i Massimi sistemi, ma anche l’esito di una pubblicazione inferiore alle aspettative e giunta in porto quasi solo grazie alla diplomazia prudente del principe Leopoldo dei Medici. È naturale allora che in questa situazione di oggettiva debolezza i galileiani di Bologna cerchino di conservare rapporti dì buon vicinato con i potenti gesuiti (appunto “setta troppo possente” la considera Montanari), anche se è da supporre che la collaborazione già vista in più di una circostanza, lungi dall’essere spontaneamente offerta, venisse subìta con qualche rassegnazione, per altro vantaggiosa per la ricerca. Ecco spiegato perché ancora Montanari, il quale nei suoi Pensieri fisico-matematici aveva deplorato pubblicamente l’abitudine “di disputare delle cose naturali a guisa dì lottatori, più tosto che di filosofi”, invitando irenicamente alla concordia generale, in una lettera privata avverte preoccupato il “pericolo di far cadere lo Studio in mano a’ preti”, con una diagnosi che, formulata l’una all’insaputa delle altre, trova corrispondenza sia in Malpighi, che denuncia la concorrenza dei “Professori claustrali, che hanno rese dozzinali le lettere in ogni angolo, e le hanno avvilite”, sia in un anonimo difensore dell’università, che vorrebbe risollevarne le sorti per farne di nuovo il baluardo contro il ritorno alla Scolastica perseguìto da “Preti e Frati”. Questo memoriale, non per caso, viene scritto contro il progetto di Anton Felice Marsili, già fautore nel 1687, dell’apertura di due accademie in cui gli studi scientifici potessero svilupparsi in parallelo con quelli ecclesiastici, in modo da consentire contemporaneamente di “passeggiare nel Portico e genuflettersi nel Tempio”. Nella ricercata compatibilità tra le ragioni della scienza e l’autorità della Chiesa, anche il maggiore dei fratelli Marsili crea due istituzioni proprio per attuare una politica di reciproca autonomia tra scienziati e teologi, facendo virtualmente proprie le istanze sostenute a suo tempo da Galileo nella lettera copernicana a Castelli.
In un’attività capillarmente sorvegliata dal sant’Uffizio, non rimane che salvaguardare la propria autonomia di ricerca da ritagliarsi entro i più neutri recinti della sperimentazione e delle applicazioni tecniche».
(Mancano le citazioni bibliografiche presenti all’interno del testo.)
Cfr. A. BATTISTINI, Aldrovandi a Cappellini: quattro secoli di cultura a Bologna, «Quadricentenario della parola "geologia". Ulisse Aldrovandi 1603 Bologna», a cura di G. B. Vai e W. Cavazza, Argelato (BO), 2004, p. 42. Il testo è reperibile su Internet nel sito <www.museocapellini.org>.
Torna al testo.

NOTA BENE
La completa bibliografia del mio lavoro sarà a suo tempo pubblicata con il testo della comunicazione.
Presento qui soltanto una nota bibliografica sulla biografia di G. A. Barbari.

Per le notizie biografiche (e relativa bibliografia) su G. A. Barbari, cfr. in DBI, VI (1964), pp. 43-44, la voce curata da M. GLIOZZI.
Il primo a ricordare Barbari, seppur brevemente, in una pubblicazione a stampa, è G. M. MAZZUCHELLI, Gli Scrittori d’Italia, II, I, Brescia 1758, p. 243 («si dilettò assai degli studj filosofici»).
Nella biblioteca dell’Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone (sub 164/XII), si conserva il ms. Compendio della vita di Padre Giuseppe Antonio Barbari prete dell’Oratorio di Cesena scritto l’anno 1734. («Adesp. con note di Luigi Nardi», si precisa nel vol. CIII degli Inventari dei Ms. delle Biblioteche d’Italia, Firenze 1987, p. 219.)
Il cognome Barbari è storpiato in «Barbaro» da L. NARDI nell’Appendice all’opera Dei Compiti, feste e giuochi compitali degli antichi, Pesaro 1827, pp. 148-149.
F. ROCCHI, Delle lodi del Canonico Luigi Nardi Savignanese, Forlì 1837, scrive che «Barbaro» fu «vero precursore del magno Neutono» ed «ottimo ristauratore delle scienze fisiche e matematiche, non abbastanza fin qui conosciuto in Italia» (p. 10), preannunciando una biografia a cura di G. I. MONTANARI che esce nello stesso anno a Venezia nel IV vol. di E. DE TIPALDO, Biografie degli italiani illustri (pp. 318-321), con il ripristino dell’esatta trascrizione del cognome.
(Secondo G. I. MONTANARI, p. 319. il ricordato Compendio presso i Filopatridi, proveniente dalla «pubblica biblioteca», è stato dettato da Pietro Borghesi.)
Le lettere scambiate fra G. Garampi e G. Bianchi nel 1757 recano sempre e soltanto Barbari. In L. TONINI, Memorie di scrittori, SC-MS 1306, Biblioteca Gambalunghiana di Rimini [BGR], c. IV dell’indice, è cit. «Barbaro Giuseppe Antonio da Savignano, antiquario». Nello stesso L. TONINI, Elenco degli scrittori riminesi e diocesani tratto dal Gramignani, Fondo Luigi Tonini, Manoscritti L. Tonini XIX, BGR, si legge però «Barbari Giu. Antonio da Savignano, Poeta edito, Filosofo, Matematico». E’ la frase che si trova appunto nell’indice della Descrizione storico topografica della Città di Rimino… di Onofrio Gramignani, ed. a stampa Rimini 1980, con rinvio alla tavola quinta, n. 165: qui le notizie presentate sono dichiarate provenire «Ex Ciampino in Epist. apud Can. Garampum». Su tali lettere di G. A. Barbari a mons. Giovanni Ciampini, cfr. questa pagina:
<http://digilander.libero.it/antoniomontanari/lui/937.barbari.html>.
Nel 1884 anche in C. TONINI, La Coltura letteraria e scientifica in Rimini, II (Rimini 1884, p. 203) si parla di «Barbaro». Così pure in E. PRUCCOLI, Cultura scientifica di un «astrologo» riminese del primo Seicento. Nota su Malatesta Porta, «Romagna arte e storia», 11, 1984, pp. 17-18 (dove Barbari è detto «figura di rilievo nel panorama della cultura diocesana della seconda metà del XVII secolo»).
In «Seicento inquieto. Arte e cultura a Rimini», a cura di A. Mazza e P. G. Pasini, Milano 2004, lo stesso Enzo PRUCCOLI, Cultura letteraria e scientifica del Seicento riminese, p. 205 scrive «Giuseppe Antonio Barbaro (o Barbari)», mentre nella scheda relativa all’opera del Nostro (p. 210), P. DELBIANCO riprende «Barbaro».
Cfr. pure, per la biografia, A. MONTANARI, Giuseppe Antonio Barbari, un filosofo dimenticato. Nel 1692 Bologna gli propose la cattedra di matematica, «Riministoria», <http://digilander.libero.it/antoniomontanari/lui/937.barbari.html>, 10.04.2004, dove si presenta una notizia del cronista savignanese Giorgio Faberj (che usa l’esatta grafia del cognome), mai inserita nelle biografie di Barbari.
Prima della pubblicazione in Internet di questo mio breve scritto, ho avuto occasione di conversare sull’argomento qui affrontato con il dott. Enzo Pruccoli che stava correggendo le bozze del suo testo appena ricordato per «Seicento inquieto», dove ha avuto la cortesia di aggiungere l’annunzio del presente lavoro (p. 206).

Antonio Montanari


All'home page del sito in Alice
All'indice del sito in Alice
All'home page de il Rimino
All'indice de il Rimino
All'indice di Riministoria
All'home page del sito su Tele2

Al sito http://digilander.libero.it/antoniomontanari
Per informazioni scrivere a [email protected].


997/Riministoria-il Rimino
22-23.10/13.11.2004/27.12.2004
http://www.webalice.it/antoniomontanari1/studi/2004/barbari.sr.2004.rel.997.html