il Rimino - Riministoria
ERUDIZIONE ‘MALATESTIANA’ NEL SETTECENTO RIMINESE.
IANO PLANCO E LE TOMBE DEL TEMPIO
«STUDI ROMAGNOLI» 2003

(SINTESI DELLA COMUNICAZIONE,
SENZA NOTE AL TESTO)

Nelle vicende storiche a volte un semplice evento, opportunamente colorito ed esagerato nei toni descrittivi, diventa una leggenda in grado di rappresentare simbolicamente un certo momento culturale.
Ciò è accaduto pure per l’apertura degli avelli del Tempio malatestiano, voluta nel 1756 da padre Francesco Antonio Righini, procuratore del convento di San Francesco. Il 19 agosto di quell’anno egli confida per lettera a Giuseppe Garampi di esser stato mosso soltanto da «curiosità».
Per i posteri la sua impresa è invece il simbolo di un’erudizione «intelligente» che scavava nel passato malatestiano della città. E padre Righini è così apparso come un uomo «di grande cultura e acuta capacità d’osservazione».
Righini sapeva poco o nulla della storia dell’illustre chiesa di cui era custode. Lo dimostra nella lettera citata, quando chiede a Garampi di suggerirgli «qualche notizia particolare» attorno «a questo nostro Tempio», da inserire «nella rozza composizione che da me presentemente viene esorata».
La «curiosità» di Righini era diretta ad appurare se avesse ragione chi sosteneva essere quelle del Tempio delle vere tombe, oppure quanti invece dichiaravano di trattarsi soltanto di cenotafi.
Il 22 luglio il nostro frate apre furtivamente l’Arca degli Antenati, all’interno della cappella della Madonna dell’Acqua. Di quest’impresa iniziale egli non riferisce a Garampi, a cui descrive soltanto la seconda visita fatta a quell’Arca il 16 agosto, dopo aver ispezionato il giorno precedente le «casse di marmo» nella fiancata esterna destra «alla presenza di molti testimoni»; e lo stesso giorno 16 il sepolcro di Isotta, davanti ad una compagnia di dodici persone.
Rimaneva da aprire, scrive Righini a Garampi, soltanto un altro sepolcro, quello di Sigismondo: «se la curiosità mi trasporterà a farlo voglio farlo con tutta la pulizia possibile», cercando di far intervenire il vicario generale della diocesi, il notaio «ed altre persone graduate per testimonj».
Righini tenta così di evitare il ripetersi delle polemiche provocate dalle precedenti esplorazioni, contro le quali in città s’erano levate le accuse d’essere stato «troppo audace». Con Garampi il frate si difende sostenendo d’aver agito «colla licenza» del vicario generale e del «Religioso superiore» del proprio Ordine dei Minori Conventuali.
Il 21 agosto avviene la ricognizione alla tomba di Sigismondo, a cui concorrono più di trenta amici di padre Righini. Il vicario però non interviene, mentre si presenta il Capoconsole pro tempore Lodovico Battaglini.
Nella prima visita all’Arca degli Antenati, quella del 22 luglio, padre Righini aveva fatto quasi tutto da solo. Con sé portò il pittore Giambattista Costa «erudito in Antiquaria», «ed alcuni altri». Lo sappiamo da una breve relazione manoscritta di Giovanni Antonio Battarra, inviata a Giuseppe Garampi.
Questi «alcuni altri» erano due muratori. Ce lo ricorda Epifanio Brunelli (vice bibliotecario gambalunghiano) nelle note curate alla Lettera a stampa sull’apertura degli avelli malatestiani, pubblicata da Battarra a Milano l’anno successivo.
Nella Lettera milanese l’ispezione del 22 luglio non è ricordata nel testo di Battarra (che comincia la sua narrazione soltanto dal 15 agosto, come aveva fatto padre Righini con Garampi). Essa è però mentovata nelle note di Brunelli che aggiunge: il frate Righini operò «privatamente». Il Battarra in questo suo testo milanese ricorda che, il 16 agosto nell’Arca degli Antenati, vide soltanto «un mucchio d’ossa confuse fra stracci». Brunelli, in nota, spiega il perché di questa confusione: il muratore che il 22 luglio era penetrato nel «Sepolcro, prima d’uscire scompigliò tutti que’ Cadaveri».
Il francescano improvvisa l’esplorazione degli avelli del Tempio, proprio nei giorni in cui sta architettando un colpo con cui sperava di diventare famoso.
Uno studioso francese contemporaneo, Jacques Dalarun, definisce padre Righini un «autodidatta in perpetuo», di cui oggi ancora si parla soltanto perché ha acquistato gloria di «falsario». La colpa di padre Righini è d'aver imbrogliato le carte sulla storia della beata Chiara da Rimini, inventando la scoperta d'un manoscritto datato 1362 che la riguardava. Ma (spiega Dalarun), i raggi ultravioletti della lampada di Wood consentono di leggervi una data raschiata («14 agosto 1685») che svela il trucco del frate.
Padre Righini, nella lettera a Garampi, dichiara di non curarsi di quanti lo hanno accusato di esser stato «troppo audace», e dei loro «latrati perché insussistenti e vani». Per difendersi sostiene infine che quei sepolcri «da noi aperti si conobbe evidentemente che prima di noi furono aperti da altra persona».
A protestare vivacemente contro l’impresa del frate, c’è il dottor Giovanni Bianchi, medico, naturalista, docente di Anatomia umana a Siena dal 1741 al ’44, e rifondatore dell’Accademia dei Lincei nel ’45.
Secondo Battarra, il suo maestro Bianchi era fra quanti militavano nel partito dei cenotafi.
Fu forse lo stesso Bianchi ad attirare nei circoli culturali riminesi l’attenzione sulla questione delle tombe malatestiane, nella primavera del 1756, quando Gian Maria Mazzuchelli gli scrive da Brescia, chiedendogli «alcune notizie» necessarie per illustrare la vita di Isotta, dapprima concubina e poi moglie di Sigismondo. Il saggio di Mazzuchelli esce verso la fine dello stesso anno a Milano. Su questo lavoro di Mazzuchelli, ha scritto Augusto Campana nel 1951 che è una «piccola cosa se si vuole, ma veramente egregia», e soprattutto si tratta del «primo lavoro monografico moderno di argomento malatestiano».
Già alcuni anni prima Bianchi aveva aiutato Mazzuchelli con informazioni malatestiane su Giusto de’ Conti, sepolto anch’egli all’esterno del Tempio riminese. Per questo fatto, non ci si può dimenticare (come invece è accaduto), dell’azione svolta da Bianchi per la diffusione della conoscenza dei temi malatestiani riminesi.
In una breve recensione del saggio di Mazzuchelli, apparsa sulle «Novelle Letterarie» fiorentine dell’11 marzo 1757, Bianchi insinua che il sepolcro di Isotta sia stato aperto «privatamente».
Inizia così la vivace polemica di Bianchi contro padre Righini e quanti avevano partecipato all’impresa. Ai corrispondenti che hanno chiesto notizie sull’argomento, Bianchi risponde deridendo «un Fraticello ignorante» e la sua comitiva «di poca mente». Prima di spedire le sue lettere, come testimonia Battarra, però Bianchi le legge pubblicamente in città, aggiungendo commenti cordialmente osceni verso il frate ed i suoi collaboratori.
Alla recensione di Bianchi, un anonimo riminese replica, sullo stesso periodico fiorentino il 29 aprile, con una Relazione in cui leggiamo che l’ispezione al sepolcro di Isotta era stata fatta da numerosi «galantuomini». Il che non smentiva la notizia di Bianchi, che essa cioè fosse avvenuta «privatamente».
Dove fosse lo scandalo dell’opinione di Bianchi, non si comprende. Anche Brunelli, come abbiamo visto, sostiene nelle note alla Lettera milanese di Battarra (datata 16 giugno 1757) che per la tomba degli Antenati tutto è accaduto «privatamente».
Bianchi ha sostenuto pure che quei sepolcri «altre volte prima da altri per uno spirito forse d’avarizia erano stati frugati». Ma anche Righini con Garampi aveva ammesso, come s’è visto, che quei sepolcri «prima di noi furono aperti da altra persona».
Battarra nello stesso scritto milanese non può smentire Bianchi: ricorda che, accanto ai soliti invitati, per il sepolcro d’Isotta erano stati presenti soltanto religiosi riminesi e forestieri dell’Ordine di padre Righini.
Solamente per il sepolcro di Sigismondo arriva un’autorità pubblica, il Capoconsole Battaglini. Ma, farà osservare Bianchi, il vicario generale della diocesi, invitato, non interviene «per non autorizzare colla sua presenza un atto, nel quale ci poteva essere anche qualche dubbio». Questa frase è in un ms. gambalunghiano inedito, che Bianchi compose come persona «che vien supposta Amica della Nobilissima Casa Malatesta». Bianchi qui accusa padre Righini d’aver agito «per semplice curiosità» (e questo il frate aveva ammesso), e di aver compiuto (in base alle leggi civili e religiose) il reato di violazione di sepolcro: «cose infami che hanno in oltre con sé la pena della forca».
Toni più accesi Bianchi usa nelle lettere inviate al direttore delle «Novelle», spiegando che «quella sciocca Relazione» anonima aveva avuto come unico scopo di colpire lui, Bianchi stesso, e la sua affermazione circa l’apertura privata dell’avello di Isotta.
Ma chi può essere l’autore di quella Relazione anonima? Non di certo Bianchi, come pensò Corrado Ricci. La sua attribuzione contrasta con i dati oggettivi sinora esposti.
Alessandro Tosi nel 1927 affermò trattarsi di Battarra, in base ad una lettera in cui Battarra stesso riassume quanto avvenuto nel Tempio durante l’estate 1756: padre Righini per dimostrare sbagliata la tesi sui sepolcri vuoti sostenuta da Bianchi, decide di aprirli senza invitare «il sig. Bianchi [si noti il sig. Bianchi, e non il dottor Bianchi], e questo fu subito un crimen laesae Majestatis». Successivamente sono mandate «fuori le relazioni mss. di tal apertura», e varie ai suoi amici ne invia anche Battarra: «col mio nome», scrive.
Possiamo concludere che Battarra non è l’unico ad aver composto una relazione sul tema. La sua è quella conservataci da Giuseppe Garampi. Ma Tosi la ignora, e perciò attribuisce immediatamente a Battarra la Relazione apparsa a Firenze sulle «Novelle».
C’è infine il lavoro milanese di Battarra. Se confrontiamo questo testo a stampa ed il ms. conservatoci da Garampi con la Relazione delle «Novelle», possiamo constatare che quest’ultima è diversa dai primi due dichiaratamente battarriani.
Confrontiamo invece la Relazione fiorentina con le note che Epifanio Brunelli (senza essere citato nella propria identità) compone al testo milanese di Battarra. Incontriamo una concordanza stilistica che, a mio parere, dovrebbe risolvere il problema.
Infatti sia nelle note al Battarra, sia nella Relazione fiorentina c’è un’espressione che ci fa propendere per lo stesso Brunelli come autore della controversa pagina anonima delle «Novelle». Elencando gli oggetti trovati il 22 luglio 1756 nell’Arca degli Antenati, Brunelli scrive nelle note che c’era anche «una rama d’ulivo». La stessa «rama d’ulivo» si trova nella Relazione fiorentina.
Contro questa espressione il dottor Bianchi parte lancia in resta, scrivendo a Lami: sono «parole de’ villani del nostro contado».
Mazzuchelli nella seconda edizione (1759) delle Notizie su Isotta osserva che la Relazione fiorentina era «d’altra penna» rispetto al testo milanese di Battarra, facendo con ciò inalberare Bianchi il quale incolpava Battarra, e dimenticava che la «rama d’ulivo» torna nelle note di Brunelli e nel testo delle «Novelle».
Se, come ipotizzo, è Epifanio Brunelli l’autore anonimo fiorentino, resta da spiegare il ruolo di Battarra nella faccenda.
Battarra scrive ad un suo corrispondente di aver mandato una lettera al direttore delle «Novelle» contro la recensione di Bianchi circa la «bugia che aveva stampato» con quel «privatamente». E di aver allegato «la relazione di dette aperture». Battarra non scrive la mia relazione, ma «la relazione».
Perché sia Battarra e non Brunelli a rivolgersi a Firenze, è presto detto. Battarra era noto a Giovanni Lami, e considerava Brunelli soltanto un suo «Scolaro», come vediamo nel testo milanese.
Negli anni successivi Brunelli diventa collaboratore assiduo delle «Novelle», e nel 1759 vi pubblica la recensione alla Lettera milanese di Battarra, dove cita pure se stesso scrivendo che le note della medesima «Lettera» erano state curate «dall'illustre Giovane Sig. Epifanio Brunelli da Rimino, Vice Bibliotecario dell'insigne Libreria Gambalunga; e dilettante di medaglie, delle quali possiede in bronzo una sufficiente raccolta». Lo scritto termina con i rallegramenti diretti sia a Battarra sia a Brunelli.
Giovanni Lami, invia a Battarra una lettera il 28 agosto 1759: «ora mai l'articolo trasmessomi dal Signore Epifanio Brunelli è stampato, e non può più arretrarsi, onde bramo altra occasione di secondare il suo genio».
Battarra dunque si era preparato da solo una recensione della sua «Lettera» per le «Novelle», ignorando che vi aveva già provveduto Brunelli.
Dietro questo «giallo» letterario, in apparenza insignificante, stanno alcuni interrogativi a cui è possibile però dare una risposta storicamente importante. Perché Bianchi non era stato invitato nel Tempio? Perché Brunelli, ammesso che sia lui l’anonimo fiorentino, e Battarra (suo ex allievo) lo attaccano?
Bianchi nel 1752 ha subìto la condanna all'Indice per il suo «Discorso in lode dell'arte comica», elogiato da Voltaire. Condanna che Giuseppe Garampi definisce rapida ed «improvvisa». Per non dire quasi irregolare.
Dietro quella condanna c’è l’insofferenza degli ambienti curiali riminesi verso un maestro che gli aveva tolto il monopolio culturale in città, e che aveva indirizzato la sua ricerca scientifica verso territori che apparivano pericolosamente contingui all’eresia, in quanto mettevano in crisi l’impianto aristotelico-tomista delle dottrine ufficiali della Chiesa.
Bianchi infine, come abbiamo visto, aveva rifondato nel 1745 quell’Accademia dei Lincei che, nel 1616 durante il processo al suo ascritto Galileo Galilei, si era schierata per un principio («in naturalibus libertas») opposto a quello dell’«auctoritas» predicato dalla Chiesa di Roma.
L’ombra del processo a Galileo del 1633 si era così (vagamente) proiettata nel 1752, con la condanna dell’«Arte comica», sull’eredità lincea proposta da Bianchi a Rimini.

Antonio Montanari


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