Luca e Lorenzo Santini: frati fratelli
"il Ponte", 1992/19


«Procurerò di morire al mondo e a me stesso, per vivere solo pel mio amato Gesù». Fra Luca Santini, nel suo diario intitolato «Miele spirituale», aveva scritto queste parole profetiche. Nel 1931, durante i quattro terribili mesi di prigionia in Cina che preludono alla sua morte, egli cercò di viverle nell'esperienza che lo accomunava ad altri frati. Dalla Cina scrive al proprio fratello Lorenzo, religioso pure lui al convento della Verna, dicendogli di pregare non per la sua liberazione, ma perché si compisse piena in lui la Divina Volontà. Fra Luca muore l'8 settembre 1931. Era nato nel 1878. Tre anni più giovane di lui, è Lorenzo. Sono originari di San Salvatore, la loro era una famiglia dedita all'agricoltura, in tempi di miseria per quelle zone.
Dalla scheda dell'inchiesta agraria Jacini, relativa a Coriano (1879), si ricavano questi dati: 4.245 persone compongono la popolazione rurale, 525 sono i possidenti, 150 i fittaioli, 800 i mezzadri, 500 gli operanti giornalieri che risiedono in quel Comune che «val molto poco», secondo un secco giudizio apposto dal marchese Luigi Tanari che esaminava i dati dei paesi romagnoli, nell'ambito della commissione d'inchiesta.
L'età media della popolazione era di 32 anni. La mortalità veniva fissata a 36 anni e mezzo. Non esisteva nessun istituto di credito: «La vicina Cassa di Risparmio [di Rimini] non accorda prestiti che a firme elastiche [sic] e nel Comune difetta il contante perché i più forti possidenti non vi hanno residenza», si legge ancora nella scheda di Coriano. C'è una Società operaia, «con pochissima partecipazione della popolazione agricola», che dà sussidio agli ammalati. Scarsa l'istruzione, ottima la moralità, con un'eccezione: «gli operai avventizi sono più facili al furto campestre e ai reati di sangue».
Sulla famiglia dei fratelli Santini non si hanno altre notizie. Consistenti, invece sono le informazioni relative ai due frati. Luca entra nell'ordine dei Minori nel 1903. Lo ricorderanno tutti per la sua devozione, lo spirito d'umiltà, d'obbedienza e di carità. Pieno di buone maniere, lo descrive un vecchio testo, passava per le case a chiedere l'obolo della carità per i fratini.
Giunge in Cina nel 1915, in tempi di grandi sconvolgimenti. Già all'inizio del secolo, durante la rivolta dei boxeur, un'ondata xenofoba ha colpito per primi i missionari (recentemente beatificati). Dal 1911, la Cina è divenuta repubblica, per opera del Kuomintang, partito nazionale del popolo, che controlla il Sud del Paese. Al Nord, dominano i “signori della guerra” che nel 1917 restaurano per 10 giorni l'impero, in nome di P'u Yi, l'imperatore bambino del film di Bertolucci. Nel 1921, nasce il partito comunista cinese, fondato tra gli altri da un intellettuale di origine contadina, Mao Tse-Tung (28 anni). Il pcc collabora con il Kuomintang. Nel '26, Chiang Kai-shek capeggia la spedizione contro i “signori della guerra” del Nord. Nelle regioni conquistate, i comunisti cercano di instaurare poteri rivoluzionari, incontrando l'opposizione dello stesso Chiang che nel '27 rompe con il pcc, contro i cui iscritti avvia la prima campagna di sterminio. Mao reagisce proclamando un governo provvisorio e formando un esercito rosso contro il quale Chiang, dal '30 in avanti, combatte un'aspra guerra civile.
Su questo scenario storico, si colloca la vicenda di fra Luca. Padre Germano Lazzeri scrisse sessanta anni fa un volume sui cosiddetti martiri del Tc'ia-iuen-kou (monsignor Ermenegildo Ricci, padre Igino Checcacci, don Gabriele Hu, don Tommaso Kuo, padre Bonaventura Zeng, frate Francesco Tc'heng e frate Luca Santini), intitolandolo «Sei mesi col dragone rosso», dove si legge su frate Luca: «Io, suo compagno di prigionia, posso attestare che durante i lunghi quattro mesi di crudele detenzione manifestò quotidianamente la sua rassegnazione al volere di Dio. (…) Su la fronte la corona del Martire, tra le mani il Rosario della Vergine, che mai abbandonò durante tutta la prigionia, Fra Luca Santini, Frate Minore, spiccò il volo ai dì 8 settembre verso la Patria beata, ripetendo a noi rimasti quaggiù il programma di vita da lui perfettamente adempiuto: Questa è la volontà di Dio: la vostra santificazione».
Le condizioni di salute di Fra Luca si sono aggravate nell'agosto: un accesso di febbre malarica. Peggiora di giorno in giorno: all'Ospedale Rosso, «per lui non c'è posto». Viene mandato nella casa di un servo, dove spira nel pomeriggio dell'8 settembre: «La cassa, provveduta dai Rossi, è di buon legname e verniciata. È stata asportata dalla casa di qualche ricco cinese che da tempo, come è uso generale in Cina, se l'era preparata per suo uso personale». Il giorno dopo, l'accompagnamento fuori della città di Fang-shein, «è semplice: troppo misero anche per un Francescano… non una Croce, non luci, non incenso. Mancano libri, paramenti, tutto».
Tutto era iniziato 15 maggio 1931. Racconta padre Lazzeri: «I Briganti… dicono chiaro che sono soldati comunisti della Terza Armata Rossa e che sono venuti, non per chiedere in prestito del riso, ma per prendere le armi che abbiamo e condur via noi stessi…». Fra Luca Santini, che era economo del convento, viene pure lui legato col cordiglio francescano. Tutti i prigionieri sono portati al Comando dell'Armata Rossa e poi incarcerati, con vari trasferimenti: «L'abituale disprezzo del cinese per tutto ciò che è straniero si trasforma in petulante avversione. Quello che conviene a noi Padri di sentire, vedere, sopportare, soffrire, son cose da non mettersi in carta».
Padre Lazzeri descrive l'Esercito Rosso: «I Comunisti teorici di quest'accozzaglia di gente credo che siano molto pochi: una parte della ufficialità e forse qualche centinaio di soldati. Tutti però sono Comunisti pratici: cioè, ladri, briganti, assassini, incendiarii, ecc.; gente insomma che applica a meraviglia il proverbio cinese: Kien, scia, sciò: violentare, ammazzarre, bruciare». Metà di quell'esercito è di prigionieri o di ostaggi, pronti a scappare alla prima occasione. Potrà vincere il Comunismo in Cina, si chiedeva padre Lazzeri: «L'anima del popolo cinese non mi pare terreno adatto per farvi attecchire l'idea comunista… com'è avvenuto in Russia…». La miseria provocata da quelli che il popolo chiama i “briganti ufficiali”, ha generato la violenza dei “briganti silvestri”, una parte dei quali «ha dato una tinta politica al proprio mestiere». «Se la Cina potesse avere un Governo forte… tutto ritornerebbe per incanto nella più grande pace».
Padre Lazzeri ricorda anche che «al vandalismo bolscevico durante la tragedia e il saccheggio del Tc'ia-iuen-kou», furono sottratti «documenti e appunti spirituali scritti o annotati dal Martire». In essi rivive «tal quale, il carissimo fratello nostro nelle sue battaglie spirituali con se stesso, col demonio e col mondo, e nella sua costante aspirazione verso l'ideale della santità».
Ideale che animò anche fra Lorenzo. Nato nel 1881, accettato alla Verna come oblato nell'11, viene richiamato alle armi nel 1915 (in Sanità, come barelliere e infermiere), per ritornare al monte francescano dopo tre anni. Nel 1919, è ammesso al noviziato. L'anno successivo emette i voti temporanei, nel '23 fa la professione solenne. Dal '20 gli è stato affidato l'ospizio di Rassina, ove resterà (fino a poco prima della morte), sia come questuante sia come custode di quella casa che ospitava i padri della Verna e altri religiosi di passaggio. E a Rassina (località posta sulla strada che da Arezzo sale a Bibbiena, al bivio per La Verna), ogni tanto si reca a trovarlo una sorella suora.
«L'aspetto sorridente e modesto si univa in lui all'umiltà dell'animo, alla dolcezza della parola, alla mitezza del tratto. E cosa ammirevole in un uomo dalla vita rude e faticosa e di instancabile laboriosità, manteneva sempre il carattere inalterabile. Perciò era molto stimato ed amato dalla popolazione, che lo accoglieva come un apostolo carico della sua bisaccia, e chi a lui dava, da lui attendeva con fiducia il consiglio e il conforto, e sapeva accettare pure l'esortazione e l'avvertimento». Così si legge negli Atti dei Cappuccini toscani del 1965, anno in cui morì, il 20 novembre, in seguito a neoplasia gastrica.
«Buono, ubbidiente» lo aveva definito il suo cappellano militare, nei tempi del fronte 1915-18.
Don Tommaso Campriani (parroco nel Chianti), in un volume a più mani edito nel '90 per onorare fra Lorenzo a 25 anni dalla morte, scriveva di lui: «Si sentiva umile servitore di tutti: la modestia, come atteggiamento interiore dell'animo, era il tratto distintivo che notavi in lui e che si rivelava più lo conoscevi». Ed aggiunge: «Penso a quante famiglie in difficoltà fra Lorenzo ha dato un pane (e il companatico): lo dava con cuore, ma anche con intelligenza». Don Campriani ricorda poi di aver potuto leggere alla Verna un grosso fascicolo che conserva le memorie di fra Lorenzo: «Il frate aveva l'abitudine di scrivere, di prendere appunti di ciò che poteva servirgli… si era compendiato un manuale con le risposte alle domande od obiezioni più ricorrenti sulla fede, che sicuramente consultava spesso per rinfrescare la memoria e che gli serviva quando parlava per dare informazioni chiare e precise».
«Amò Rassina fino all'ultimo, tanto che volle essere seppellito in quel cimitero». L'amore è stato ricambiato da quella popolazione che non ha mai dimenticato il “suo” fra Lorenzo che andava alla “cerca” non solo per il convento, ma anche per i poveri: «Grazie alle generosità dei benefattori poté sfamare tanta gente, specialmente durante la guerra e negli anni successivi, quando la miseria era palpabile», racconta una testimonianza.
«Il suo accento romagnolo piaceva a tutti, parlavamo dei problemi quotidiani, ci conosceva tutti e conosceva i problemi delle nostre famiglie», rievoca un'altra persona di quelle terre toscane. «La sua sola preoccupazione era aiutare quei tanti che non avevano niente; forse pensava che solo con la pratica, con i fatti concreti è possibile costruire un avvenire migliore, un mondo più giusto senza la fame e senza la miseria».

Antonio Montanari

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