"Sbandati" al muro
La fucilazione dei giovani che non avevano aderito all'esercito di Salò. Per salvare qualcuno, a Gemmano i partigiani manomettono lo Stato Civile.

I giorni dell’ira, 12. "il Ponte", 21.10.1990
58. Tra minacce e premi.
Sta nascendo la resistenza armata. Molti salgono in montagna per combattere contro i nazifascisti. Altri cercano rifugio come e dove capita. Vercelli è un nome che fa paura. Lì vengono convogliati i coscritti destinati alle Divisioni da inviare in Germania.
Per convincere le reclute ad obbedire, i fascisti di Salò ricorrono ad «un'arma brutale, mai usata prima in Italia...: l'arresto dei loro genitori o dei loro fratelli in caso di mancata presentazione».
Alfredo Azzalli, classe 1923, vent'anni compiuti proprio l'8 settembre in Jugoslavia, da dove è tornato a piedi fino a Rimini, in casa dei futuri suoceri, aspetta gli eventi. Non si arruola, vive nascosto. (1)
Luigi Sapucci, anch'egli del '23, riuscito a fuggire da Bologna dove prestava servizio militare, nonostante fosse stato fermato da fascisti armati, racconta che ogni 15-20 giorni, i giovani chiamati alla armi «erano continuamente invitati a partire a mezzo di cartoline precetto: ricordo che me ne arrivarono sicuramente tre. Inoltre sovente venivano affissi sui muri delle varie contrade bandi, con l'ordine di presentarsi, pena la fucilazione sul posto». (2)
Il 18 novembre, viene pubblicato anche a Rimini il bando del ten. col. Dino Pancrazi, comandante del Distretto militare di Forlì, che promette ai richiamati che portassero in caserma le armi, un premio di 100 lire per una pistola, di 200 per un moschetto, di 500 per un fucile mitragliatore. Il bando «consigliava i richiamati di portarsi dietro un cucchiaio, una forchetta, una scodella (possibilmente metallica) ed un asciugatoio». (3)
Per convincere i giovani ad obbedire agli ordini di Salò, il nuovo comandante del Distretto, col. Dominici, il 25 novembre «rende noto che per quei giovani che non si presenteranno alle armi il Capo della Provincia denuncerà al Tribunale i capifamiglia» (4).
Il 18 febbraio 1944, ai renitenti e ai disertori viene comminata da Graziani la pena di morte, dopo una protesta di Kesselring su quell'esercito che è una «burletta». Graziani chiama anche alle armi le classi '22 e '23, ed il primo quadrimestre del '24, entro il 25 febbraio. Pena di morte a chi non si presenterà. Uguale trattamento a chi si assenterà «per tre giorni». (5) Adesso, i soldati che scappano, li chiamano assenti.
Alfredo Azzalli si presenta, viene mandato a Vercelli. L'incubo della Germania lo consiglia ad un gioco di astuzia. Da Milano, spedisce una cartolina a casa, racconta la partenza per il Paese alleato, ed invece diserta e fugge a Rimini.
A marzo, Graziani fa marcia indietro. Perdona chi si è presentato prima del 9 marzo, e quelli che, arrestati entro tale data, si arruoleranno "volontari". Infine, i disertori costituitisi, non saranno uccisi, ma mandati in galera per un minimo di 10 anni. (6)
Nel marzo '44, racconta Luigi Sapucci, «il problema di rimanere a casa stava diventando sempre più difficile, perché la repubblica sociale aveva messo insieme una certa rete di informatori». Sapucci decide di arrendersi agli eventi, si arruola, viene mandato come aiuto cuciniere a Padova. Qui trova due compaesani di Mulazzano, Libero Pedrelli e Ottorino Giovagnoli, che diserteranno, saranno ripresi nelle loro case, e poi fucilati : «Alla fine della sparatoria diversi tedeschi corsero ad immergere le loro dita nel sangue ancor caldo che sgorgava dai corpi delle due vittime e a sbaffiare i nostri volti dicendoci: "Buono sangue italiano?"». (7)
Il 25 aprile '44, Graziani promette il perdono agli «sbandati». Alfredo Azzalli torna ad Argenta, suo paese d'origine (dove i fascisti nel '23 avevano ucciso il parroco don Giovanni Minzoni), per vivere in un granaio fino al passaggio del fronte. I suoi commilitoni di Argenta, che per paura avevano aderito al richiamo, tentano di scappare. Tutti fucilati. Erano una decina.


Note
(1) Cfr. A. Montanari, Rimini ieri, cit., p. 27.
(2) Cfr. Ghigi, La guerra a Rimini…, cit., p. 285.
(3) Cfr. A. Montemaggi, Rimini 1943-1944, cit., p. 35.
(4) Ibidem.
(5) Cfr. S. Bertoldi, Salò, cit., p. 94.
(6) Ibidem.
(7) Cfr. Ghigi, La guerra a Rimini…, cit., pp. 285-287.



59. Spirale di violenza.
L'immagine della morte accompagna la repubblica di Salò sin dal suo nascere. Il 5 novembre, il segretario del pfr, Alessandro Pavolini, incita i suoi uomini ad applicare i metodi di repressione usati dai tedeschi: «Di fronte al ripetersi di atti proditori nei riguardi dei fascisti repubblicani per parte di elementi antinazionali al soldo del nemico», Pavolini «ordina alle squadre del partito di procedere all'immediato arresto degli esecutori materiali o dei mandanti morali degli assassinii», e di passarli per le armi «previo giudizio dei Tribunali speciali». (1)
«Praticamente», osserva A. Petacco, «le squadre hanno carta bianca di arrestare chi meglio credono. É l'inizio di una spirale di violenza che insanguinerà il paese e della quale Pavolini sarà il principale responsabile». (2)
Intanto, i tedeschi deportano 600 mila soldati italiani. (3)
Il nuovo fascio è appena nato a Rimini, che sùbito appaiono per le strade i simboli di una violenza che terrorizza la gente.
Dopo la riunione di dicembre al Cinema Impero, durante la quale viene scelto come segretario Paolo Tacchi, «si vide subito di che pasta erano fatti i nuovi militi. Non avevano ancora dato il nero agli scarponi e messo in ordine le divise grigio-verdi, prelevate da chissà quale fondo di magazzino, ma avevano già il moschetto a tracolla e un piglio piuttosto truculento», racconta Guido Nozzoli. (4)
Quei militi inscenarono sùbito «alcune bravate. Quelli che mi trovai di fronte davanti al Palazzo Gioia, alla fine della loro adunanza, pur essendo dei ragazzini, con un'arma a portata di mano dovevano sentirsi importantissimi». (5)
Giulio Mancini, classe 1927, ricostruisce così quei giorni: «Una mattina mi trovai in centro a Rimini, per fare delle spese; ci fu un rastrellamento; quei fascisti avevano fatto dei posti di blocco per la città, negli incroci avevano rastrellato tutti i ragazzi che lavoravano per i tedeschi, in stazione, a chiudere le buche delle bombe, e ci portarono tutti alla Colonia nel fiume». (6)
I bombardamenti su Rimini erano cominciati il primo novembre 1943. La Colonia solare Montalti sul Marecchia, alle Celle, era diventata la sede del fascio repubblichino.
Prosegue Mancini: «Loro ci hanno preso, ci hanno messi in fila, con violenza, e poi ci hanno chiusi in una camera, ne facevano uscire due alla volta e cominciavano a menare... Cominciavano col farci mettere in ginocchio, con le mani per terra, su con la testa; partivano con una piccola rincorsa, e calci nel sedere e via; poi ricominciavano sempre da capo, sette, otto, dieci volte...». (7)
Mancini è «riuscito ad avere meno botte degli altri. Alcuni li hanno portati anche nel fiume e li buttavano giù nel gorgo, poi quando si arrampicavano per venire su, gli pestavano le mani; sono intervenuti anche i tedeschi e molti sono stati parecchi giorni a casa, perché erano feriti nelle mani. Io mi sono salvato perché Tacchi (che aveva la moglie sfollata a Covignano, alla villa Ruffi, io abitavo lì vicino), Tacchi si è interessato a guardare i documenti e mi ha mandato via sùbito». (8)
I tedeschi vanno a protestare con Tacchi, perché così sottrae manodopera alla Todt, l'organizzazione germanica del lavoro, «e Tacchi ha avuto delle grane», conclude Mancini.
Giacomo Signoretti, classe 1925, ricorda i repubblichini di Tavullia, «gran parte ragazzi di 16-18 anni, che sovente si davano a furti, saccheggi e alla caccia di giovani che non avevano risposto alla chiamata alle armi». (9)
Quelli che venivano catturati, i repubblichini li picchiavano e torturavano, e poi li fucilavano come «traditori della patria»: al fratello di Signoretti, Augusto, tagliarono «i capelli a mò di croce», prima dell'esecuzione capitale.
Con Augusto Signoretti furono uccisi altri quattro giovani del posto: Giuseppe Benelli, Nino Balducci, Ivo D'Angeli e Celestino Gerboni.
«Dopo la fucilazione i loro corpi vennero abbandonati, e soltanto la pietà dei cittadini di Tavullia provvide a raccogliere i corpi straziati dei poveri giovani barbaramente assassinati». (10)
Il dott. Alberto Sirocchi, cognato dello scrittore Gianni Quondamatteo, ricorda un'azione partigiana, più umanitaria che politica forse: «l'incursione notturna nel Comune di Gemmano per asportare dagli uffici di Stato civile e leva, i registri e tutti gli schedari della popolazione e per distruggere i nominativi di tutti i giovani che potevano essere soggetti alla chiamata alla leva da parte della repubblica sociale». (11)
«L'operazione si svolse senza nessun intoppo», precisa Sirocchi, «dei registri e delle schede, portati nella canonica, venne effettuata una cernita: quelli da salvare, furono nascosti in ripostigli della canonica stessa e quelli da distruggere, vennero bruciati accanto alla chiesa in tombini che un tempo servivano per la sepoltura dei morti». (12)


Note
(1) Il documento è in Arrigo Petacco, Pavolini, Mondadori, 1988, p. 172.
(2) Ibidem.
(3) Cfr. G. Bocca, La repubblica di Mussolini, cit., p. 96.
(4) Cfr. l'intervista in Ghigi, La guerra a Rimini…, cit., p. 212.
(5) Ibidem.
(6) Cfr. l'intervista in Ghigi, La guerra a Rimini…, cit., p. 261.
(7) Ibidem.
(8) Ibidem, pp. 261-262.
(9) Cfr. l'intervista in Ghigi, La guerra a Rimini…, cit., p. 290.
(10) Ibidem, p. 291.
(11) Cfr. l'intervista in Ghigi, La guerra a Rimini…, cit., p. 305.
(12) Ibidem.



Al capitolo precedente.

Antonio Montanari



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