Ciola, 1849, durante la Repubblica Romana

«1848. Maggio 14. Quelli di S. Arcangelo sono andati a Ciola colle bandiere tricolorate ma quelli di Ciola hanno fatto, per quel che dicono, fuoco loro addosso dalla Casa del Parroco. In conseguenza il dì dopo i Santarcangelesi hanno arrestato quel Parroco, certo Don Legni, che fu in male acque anche nel 1831». Luigi Tonini nella sua «Cronaca riminese (1843-1874)» (Ghigi, 1979), racconta così un episodio politico, destinato a ripetersi l'anno successivo, all'8 di marzo, in un clima diverso, e soprattutto con una conclusione diversa.
L'antefatto. Il 9 febbraio 1849 è proclamata a Roma la Repubblica, il che significa rivoluzione nelle terre pontificie, come conferma questo ricordo locale dello stesso Tonini: il 12 febbraio, dopo che (la notte prima) è giunta a Rimini la notizia della svolta politica nella capitale, «i caldi popolani vollero i cavalli ed i legni del Vescovo e delle principali famiglie della Città per andare in corso, come andarono tutto il dopo pranzo fino ad un'ora di notte». Il 18 febbraio, nella piazza del Comune (ora Cavour), s'innalza un «albero tricolore», ereditato direttamente dalla rivoluzione francese, in mezzo a spari di cannone e a tiri di moschetto, tra cortei ed addobbi. La banda suonò, e al pomeriggio «fu Tombola»: «molti danzarono attorno l'albero: persone però del volgo». Al teatro, dopo l'opera «festa da ballo gratis».
L'8 marzo '49, a Ciola, avviene il fattaccio. Don Tommaso Legni ha 48 anni. Durante i moti liberali del 1831 (iniziati l'8 febbraio con la dichiarazione di Bologna che era decaduto il dominio temporale del papa, e culminati nella sfortunata battaglia delle Celle, la notte tra 24 e 25 marzo), don Legni era stato arrestato dalla guardia civica per il suo attaccamento al governo, e con l'accusa di preparare la controrivoluzione.
È inevitabile che la fama popolare lo consideri un tipo sospetto, in tempi di rivolta. Per la verità, il suo secondo arresto, il 14 maggio '48, è stato frutto di una provocazione. In quel giorno, dedicato al patrono di Ciola (San Giuseppe), alcuni giovani sul sagrato della chiesa intonano la «Carmagnola» ed urlano «Viva Pio IX, qui ci sono i briganti». Per tutta risposta, dalla folla partono colpi di archibugio che feriscono due “dimostranti”, Luca Tentoni e Giovanni Braschi. Quale istigatore, è accusato il parroco don Legni che prima viene rinchiuso nelle carceri vescovili di Rimini e poi trasferito al convento di San Bernardino, per «i necessari esercizi spirituali», come scrive Arturo Menghi Sartorio nel saggio su «La notte di Ciola Corniale», apparso nel recente n. 33 di «romagna arte e storia». Il vescovo di Rimini mons. Leziroli non riesce a persuadere don Legni a cambiare parrocchia. I due feriti sono indennizzati dal prete: Braschi con 13 scudi e Tentoni con 8.
Dopo la proclamazione della Repubblica romana, nel '49, contro don Legni si sparge la voce secondo cui egli «si dava un gran daffare per organizzare la resistenza armata al governo fra i villici delle colline», spiega Menghi. Dal governatore di Santarcangelo parte l'ordine che cento guardie civiche vadano a controllare sul posto. È il 7 marzo. Quando la colonna militare giunge sul sagrato della chiesa, resta ucciso un soldato, Carlo Bocchini.
Chi ha sparato? Le guardie incolpano un fuggiasco che si cala da una finestra, Giuseppe Legni, nipote del parroco, che si darà alla latitanza. Lo accusano di aver tirato al petto del povero Bocchini, che invece è stato colpito alla schiena, forse per un errore di mira dei suoi commilitoni che puntavano le armi verso Giuseppe Legni.
Sentendo tutto quel trambusto, don Tommaso si è nascosto in una grotta della cantina. I civici lo scoprono. Il prete, insultato e minacciato, sviene. È chiamato un medico, Rocco Rocchi, che si rifiuta di curare il sacerdote e, anzi, lo minaccia con una pistola.
La mattina successiva (8 marzo), don Legni è tradotto alla caserma dei Carabinieri di Santarcangelo, dove uno dei civici inviati da Rimini gli spara un colpo che brucia, al prete, il bavero del cappotto. Don Legni crolla al suolo, svenuto. I civici escono dalla caserma, mentre nuovi commilitoni vi entrano «per vedere il prete finalmente giustiziato». Ma il povero sacerdote è ancora vivo. I sopraggiunti festeggiano la presunta esecuzione, con un'esecuzione vera. Una scarica di fucileria immobilizza per sempre don Legni.
Chi ha usato le armi, appartiene «ad un gruppo di fanatici, chiamato dalla popolazione “Squadra del disturbo”, che per tutta la durata della Repubblica Romana terrorizzò il Riminese, macchiandosi di vari delitti, compresi numerosi omicidi, che poco o nulla avevano da spartire con la politica o la rivoluzione».
L'autopsia rivela che don Legni è stato colpito da sette proiettili. Finita il 3 luglio l'avventura repubblicana, l'amnistia papale non riguarda delitti come l'uccisione del parroco. Nel 1850, i due processi per la morte della guardia e di don Legni, vengono unificati. Giuseppe Legni viene assolto dall'imputazione di aver ucciso il civico Bocchini. Nel marzo '51, per la vicenda del prete vengono condannati a morte due camerieri di locanda Eugenio Lucchini (27 anni) e Giuseppe Antolini (25). Un terzo imputato, Ciro Zaoli (21 anni, studente) che all'epoca dei fatti era minorenne, ha una pena di 20 anni. Lucchini e Antolini sono giustiziati con la ghigliottina, a Forlì, dinanzi alla Rocca. Prima di morire, Antolini grida: «Viva il popolo».
(Sullo stesso n. 33 di «romagna arte e storia», tra l'altro, C. Buscarini tratta degli statuti sammarinesi del Trecento, D. Palloni e G. Rimondini della rocca di Sassocorvaro, F. Farina del medico riminese F. Bonsi, e L. Bedeschi della «Rerum Novarum» in Romagna).

Antonio Montanari

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