Le voci di Federico
"il Ponte" n. 3, Rimini, 1991

La recente uscita di un volume sul film «La voce della luna» di Federico Fellini (Nuova Italia editrice), a cura di Lietta Tornabuoni, critico cinematografico del quotidiano «La Stampa», ci offre l'occasione di riparlare del regista concittadino.
Il film «La voce della luna» è stato presentato a Roma il 31 gennaio 1990.
Nel libro di Lietta Tornabuoni, Fellini confessa tra le altre cose alcuni ricordi riminesi: «Io appartengo a una generazione che nell'infanzia, sui cinque-sei anni, ha fatto in tempo a vedere il pianista di cinema: in alto stavano le ombre mobili, afasiche, mute del film, in basso stava il pianista che le accompagnava suonando perlopiù musiche operistiche oppure… canzoni alla moda».
Ma cos'è Rimini per Fellini? Nel film di cui stiamo parlando, c'è una scena al cimitero, che così spiega lo stesso Fellini in un'intervista ad Antonio Debenedetti («Corriere della Sera», 2. 12. 1990): la radice di quella scena è nel «cimitero di Rimini, anzitutto: il più allegro che abbia mai visto. Lo visitai la prima volta bambino, alla morte della nonna. Caricarono tutti noi nipoti in un carrozzone-stiva: al chiasso dei nostri giochi, mentre eravamo chiusi nella pancia di quello strano landò, rispondeva minacciandoci con la frusta un postiglione incazzoso… L'altra scoperta, fatta il giorno del funerale della nonna, sono state le fotografie sulle tombe: quegli ovali color seppia, virati d'argento da cui i defunti mi fissavano con espressioni, atteggiamenti assolutamente normali. Quotidiani. Fu allora che immaginai che l'opera della morte fosse quella di rimpicciolire, di ridurre le persone a più piccole dimensioni senza però mutarle».
Il treno, prosegue Fellini, «passava vicinissimo a quel cimitero. Per via d'un passaggio a livello, i convogli rallentavano e dal finestrino… i viaggiatori si affacciavano a salutare festosi, gentili. Eppoi quel cimitero di Rimini, quando ero bambino, ospitava sempre lavori di ampliamento: c'erano carrucole, palanche, attrezzi, mentre in primavera, allo spuntare dei papaveri, la campagna intorno faceva pensare ad un quadro di Monet. L'invenzione della moglie dell'oboista, che porta da mangiare al marito nel cimitero all'inizio del mio film, nasce in particolare come sovrapposizione a una precisa realtà. Quella delle spose dei muratori che portavano il pranzo ai mariti intenti ai lavori di restauro del camposanto…».
A proposito di treno. In un'altra intervista al «Corriere», a Maurizio Chierici (29. 8. 1990), Fellini racconta il suo primo viaggio, a Bologna, città che «per noi di Rimini era come Parigi, o Londra, forse New York. La metropoli sconosciuta. (…) In via Indipendenza c'erano grandi vetrine dove i miei primi manichini di donne si affacciavano allusivi. Mi ero incantato».
In una precedente intervista (con Tullio Kezich, «Corriere» del 26. 11. 1989), Federico Fellini aveva «inventato un incontro che, negli anni '60, lui "pubblico peccatore" avrebbe avuto con un "vecchissimo, accasciato, poco lucido" arcivescovo riminese, mai esistito con tale titolo, e soprattutto nelle caratteristiche fisiche della descrizione», come ha riportato Tama sulle nostre colonne (21. 1. 1990).
Invenzioni. Sentiamo ancora Fellini («Tuttolibri», 21. 7. 1990). «Da sempre la gente inventa e si racconta storie sul proprio borgo»: a Corpolò, «quando qualcuno stava per morire, a volte il campanile, dopo i rintocchi dell'ora, batteva da solo tre colpi in più, in una tonalità più bassa e mesta».
«La seduzione di ciò che non si conosce e che si teme», conclude Fellini, «è irresistibile. Siamo attirati dall'ignoto».
Antonio Montanari


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