Antonio Montanari.
Gli Ebrei a Rimini (1015-1799).

Articoli de "il Ponte", 2005



Primo capitolo.

1548, Rimini anticipa il ghetto ebraico
Sette anni dopo c’è la «bolla» di Paolo IV.


Il 22 luglio 1548 il Consiglio generale della città obbliga gli Ebrei riminesi a non abitare fuori delle tre contrade dove già si trovavano. Si anticipa così il provvedimento di papa Paolo IV che con la «bolla» intitolata «Cum nimis absurdum» del 17 luglio 1555 istituisce il ghetto in tutto lo Stato della Chiesa seguendo il modello realizzato nel 1516 dalla Serenissima Repubblica di Venezia. La «bolla» pontificia induce la nostra Municipalità il 20 agosto 1555 a delimitare la zona in cui agli Ebrei è permesso risiedere, ovvero la sola contrada di Sant’Andrea corrispondente all’odierna via Bonsi, in un tratto che va dall’angolo degli attuali Bastoni Occidentali (detti allora «Costa del Corso») sino all’oratorio di Sant’Onofrio. All’inizio ed alla fine del ghetto sono posti due portoni.
Le tre contrade citate nel 1548 sono quelle di San Silvestro, Santa Colomba e San Giovanni Evangelista. La chiesa di San Silvestro sorgeva nell’attuale piazza Cavour chiudendola verso la nostra via Gambalunga. Fu atterrata nel 1583 «per la nuova fabbrica del Palazzo Comunale, e per rendere libera tutta la piazza della fontana fino alla strada maestra», ora corso d’Augusto (Tonini, «Mille», p. 55).
La parrocchia di San Silvestro occupava la zona che partendo dalla piazza è delimitabile con il corso d’Augusto, via Cairoli e via Sigismondo.
Attraversata dall’odierna via Cairoli verso l’esterno (cioè verso Sud) la via Sigismondo, si entrava a sinistra nella parrocchia di San Giovanni Evangelista (Sant’Agostino) a fianco della chiesa; ed a destra in quella di Santa Colomba che prendeva il nome dall’allora cattedrale. Sotto la sua giurisdizione passa la zona amministrata da San Silvestro dopo la demolizione di questa chiesa nel 1583.
La strada che costeggiava il lato Est della piazza (dove sorge la Pescheria settecentesca) prima è stata chiamata contrada di San Silvestro e poi (dopo il 1583) «del rivolo della fontana» o «del corso», adottando il nome già usato per il tratto che va dal Castello alla piazza.
La delibera del 22 luglio 1548 prevede per gli Ebrei anche l’obbligo di portare un distintivo. Ma non è una novità. Già il 13 aprile 1515 il Consiglio riminese aveva stabilito il dovere da parte loro d’indossare una berretta gialla se maschi ed un qualche «segno» (una benda anch’essa gialla) se donne. Il precedente più antico risale al 1432 quando Galeotto Roberto Malatesti aveva ottenuto da papa Eugenio IV un «breve» che introduceva per loro il «segno» di distinzione obbligatorio.
Il provvedimento del 1548 impone anche una serie di divieti che riguardano ad esempio l’acquisto di «beni stabili eccetto casa et Bottega», lo stabilirsi in città «senza licenza» del Consiglio generale e persino il «toccar frutti in piazza, né metter le mani ne’ panieri, cesti o some». Questo editto riafferma una consolidata linea politica locale, diretta a limitare i diritti della comunità ebraica.
Nel 1489 a carico dei loro componenti era stata decisa un’imposta destinata a finanziare la difesa costiera contro i Turchi. L’astio esistente nei loro riguardi aveva prodotto nel 1429 e nel 1503 un assalto ai banchi ebraici. Da ricordare che nel 1501 era nato il «Sacro Monte della Pietà» (o banco dei pegni) per fare concorrenza ai prestatori ebraici e togliere loro la clientela più povera (fino a cinque lire il prestito era gratis). Ma il 22 giugno 1510 agli Ebrei è stata poi concessa l’autorizzazione a «facere bancum imprestitorum», cioè di svolgere legalmente attività finanziaria. E l’anno successivo è stato stipulato l’accordo con Emanuelino ed Angelo da Foligno che per il loro banco avrebbero pagato alla Municipalità una tassa annua di 400 lire. Delle società di prestito ebraiche nel corso del secolo si servì lo stesso Comune, afflitto da costante mancanza di denaro.
Nel 1515 (il 13 aprile) si discute la proposta di bandire gli Ebrei dalla città quali nemici della Religione e promotori di scandali nel popolo.

Non ci fu il tumulto
di cui parla C. Tonini

Quel giorno il Consiglio generale approva all’unanimità l’adozione di tre provvedimenti: chiedere licenza al papa di bandire gli Israeliti; far loro pagare le spese per i soldati a piedi ed a cavallo «qui condotti, e trattenuti per guardia de gli Ebrei» medesimi; ed infine stabilire «che nell’avvenire volendo detti Ebrei continuare l’habitatione in questa Città, portassero il capello, o la beretta gialla».
Per le donne il successivo 28 aprile è introdotta la regola di recare una benda gialla in fronte, facendo loro nel contempo divieto di porre sul capo i mantelli secondo (aggiungiamo noi) l’usanza comune della nostra popolazione di sesso femminile. Restano disattesi questi ordini del segno distintivo se nel 1519, dietro istanza di frate Orso dei Minori di San Francesco, sono ripetuti in obbedienza anche ai «decreti del Sacro Concilio». Gli Ebrei richiedono di non essere costretti alla berretta ed alla benda gialle (secondo il sesso), ma di recare semplicemente un segnale sul mantello. La città ricorre al papa «da cui fu commandato, o che quelli partissero da Rimini, overo obbedissero alla Città».
I tre punti del 13 aprile 1515 hanno una premessa di tutti rispetto negli atti del Consiglio generale, che è però dimenticata dagli storici (Clementini prima e Carlo Tonini poi). In tale premessa si dice che gli Ebrei erano visti in città come «inimici».
Carlo Tonini, nel riferire i provvedimenti del 13 aprile 1515, premette che «la città era in tumulto per cagione degli Ebrei». Riferisce che «fu proposto di sbandeggiarli, quali nemici della religione e promotori di scandali nel popolo», chiedendone licenza al pontefice. Conclude che «in causa di questo tumulto fu fatto venire un numero di cavalli di lieve armatura», la cui spesa «volevasi fosse fatta pagare agli Ebrei, alla cui difesa appunto erano venuti que’ militi».
Il passo di Clementini sui soldati «condotti, e trattenuti per guardia degli Ebrei», ha portato Carlo Tonini a scrivere di un «tumulto per cagione degli Ebrei» (del quale non c’è traccia nel testo di Clementini). Tonini aggiunge che i militi erano stati chiamati in città a «difesa» degli Israeliti, e quindi da considerarsi a loro carico. Clementini aveva parlato di «guardia», termine il quale oltre che difesa (di una parte lesa) può significare anche controllo (e repressione di facinorosi…).
Se il passo di Tonini sul «tumulto per cagione degli Ebrei» significa che erano stati essi a provocare una sommossa, tale affermazione non ha nessun legame logico con quella successiva, relativa all’intervento di truppa forestiera per proteggerli («alla cui difesa appunto erano venuti que’ militi»).
Questo controsenso non ci sarebbe nella peggiore delle ipotesi, che cioè quel «per cagione degli Ebrei» significasse che la loro sola presenza in città (che li considerava «nemici») aveva provocato una rivolta popolare arginata dall’autorità manu militari per salvaguardare l’ordine pubblico.
Nel 1422 papa Martino V aveva fatto divieto agli Ordini mendicanti di provocare sommosse popolari contro gli Ebrei, accusati di avvelenare le fonti dell’acqua e di produrre azzime intrise di sangue umano (Segre, pp. 157/158). Nel 1442 Eugenio IV aveva pubblicato una «bolla» per interrompere ogni rapporto economico fra Ebrei e Cristiani, ordinando agli «infedeli» di vivere isolati e segregati, di portare il solito segno distintivo, di restituire le usure percepite e di non esigerne più per il futuro (ibidem).
A Rimini la Municipalità il 24 marzo 1540 era stata costretta ad intervenire per difendere gli Ebrei, con l’intimazione ai Cristiani di non colpirne le case ad usci e finestre. Nello stesso anno gli è concesso di tenere un banco a Rimini, Verucchio e Montescudo.
Da un atto notarile del 1556 sappiamo che le famiglie ebree riminesi erano allora dodici. Il 7 marzo esse delegano un correligionario a rappresentarle davanti all’autorità cittadina onde chiedere la consegna delle abitazioni necessarie ed adatte alle loro singole esigenze, per non risultare inadempienti alla «bolla» papale.
Nel 1557 la Municipalità ha già realizzato il ghetto trasferendovi i singoli nuclei famigliari come documenta un rogito del 10 novembre, relativo alla vendita di una casa situata nella contrada assegnata appunto agli Ebrei «pro habitatione».
Nel 1562 la Municipalità proibisce (29 aprile) ai Cristiani di abitare nella contrada degli Ebrei, ma autorizza (14 ottobre) il ricco Ebreo Ceccantino di avere casa «extra ghettum».
Nel 1569, il 26 febbraio, Pio V dà il bando agli Ebrei da tutte le sue terre, ad eccezione di Ancona e Roma. Però nel 1586 se ne trovano ancora a Rimini. Essi chiedono in Consiglio il 22 dicembre di poter continuare a vivere «familiariter» in città al di fuori del luogo detto «il ghetto» dove si rifiutano di permanere. Non ricevono risposta, a quanto pare. Il 9 dicembre dello stesso 1586 il Consiglio aveva autorizzato gli Ebrei che avevano licenza di abitare in tutto lo Stato della Chiesa, a risiedere a Rimini appunto nel ghetto.
Il 19 settembre 1590 sostanzialmente non è approvata in Consiglio la proposta di approntare gli strumenti amministrativi per cacciare dalla città gli Ebrei che non l’avevano ancora abbandonata, e che sono equiparati a «vagabondi e forestieri» per i quali si voleva una pronta espulsione.
Le cose andarono così: si richiese, ottenendo voto positivo (13 pro, 2 contra), che fossero cacciati gli Ebrei, ma con l’aggiunta fondamentale che ciò sarebbe avvenuto «caso si potesse e vi fosse Motu proprio o Breve pontificio». Il cavillo giuridico contraddiceva l’esito del voto stesso. Gli ordini papali c’erano (il ricordato bando del 26 febbraio 1569 di Pio V), ma evidentemente nessuno aveva voluto in passato applicarli né voleva attenersi ad essi in futuro. Quindi le cose restavano immutate, con la parvenza di una novità, il desiderio di allontanare da Rimini gli Ebrei considerati pericolosi per l’ordine pubblico al pari dei «vagabondi e forestieri».
Nel 1615 il ghetto è distrutto da una rivolta popolare, secondo il racconto di monsignor Giacomo Villani (1605-1690). Alla «perfida gens Iudeorum» è ordinato di lasciare Rimini, e le porte del ghetto sono distrutte su richiesta di alcuni nobili. Commenta Carlo Tonini: «Così la Città nostra ebbe il contento di vedersi liberata da quella odiata gente» (VI, II, p. 761). La cui vicenda era a suo avviso «principalmente religiosa» (ibidem, p. 748).
Nel 1656 a «un tal Hebreo Banchiere» di cui non si fa il nome ma che era conosciuto dal mallevadore («il gentilhuomo Hebreo di questa Città»), si concede di aprire un banco con la facoltà di avere presso di sé la famiglia. Il 16 giugno 1666 il Consiglio di Rimini invece boccia (31 contrari, 14 a favore) la proposta di chiedere al papa di ricostituire il ghetto per gli Ebrei ad «utile e beneficio» della città. Infine nel 1693 alcuni commercianti ebrei «soliti a venire a servire con le loro mercanzie» a Rimini, con un memoriale letto in Consiglio il 17 febbraio ottengono l’autorizzazione ad inoltrare al pontefice la supplica per poter rientrare in città. Come sia andata a finire la faccenda, la Storia non lo dice. Essi ritornano ad apparire (improvvisamente) nei documenti un secolo dopo.
Torniamo alla via del ghetto. Contrada Sant’Andrea era chiamata nel secolo XVI la strada che oggi conosciamo come via Bonsi. Nel 1615 essa cambia denominazione (racconta Villani), quando il 15 giugno è ordinato agli Ebrei di andarsene da Rimini, ed il loro «vicum» diventa di Sant’Onofrio, come l’oratorio che vi sorge. Successivamente muta ancora, ed è via dei Bottari. A parlare di contrada di Sant’Andrea sono gli atti pubblici della Municipalità del 20 agosto 1555 (AP 859, Archivio di Stato di Rimini, Archivio storico comunale, c. 282v).
La storia della contrada è legata alla vicenda delle due porte che in epoche successive chiudono l’uscita meridionale della città. Quella «antica», l’arco di porta Montanara ora collocato verso piazza Mazzini, è della metà del XIII secolo (1240-1248, quando si costruiscono le mura federiciane, scrive Luigi Tonini, I, pp. 196-197). Essa sorgeva aderente all’oratorio di San Nicola fra le vie Bonsi e Venerucci.
Nel XIV secolo è posta sui Bastioni la porta «nuova», demolita nel 1890. Secondo monsignor Villani essa era detta anche «Aquarola» perché attraversata dall’acquedotto (Ravara, p. 19). Nello spazio che vi intercorreva (chiamato «fra le due porte» dal Medioevo sino all’Ottocento) esistettero due ospedali, uno dei quali era definito di Sant’Andrea.



Secondo capitolo

Dal dazio del porto ai prestiti
Le attività economiche a partire dal 1015


La prima notizia relativa alla presenza ebraica in Rimini risale al 1015 e riguarda il teloneo «judeorum» ovvero l’appalto dei dazi d’entrata nel porto, del quale si parla pure in un testo del 1230. In entrambi i casi l’appalto è condiviso con altri soggetti locali, il monastero di San Martino nel 1015 ed i Canonici nel 1230.
Attività di prestito ad usura sono documentate nel quattordicesimo secolo per Verucchio (1336, da parte di tale Sabbato) e per Rimini: nel 1357 e nel periodo fra 1384 e 1387 figura Manuello di Genatano che compare negli atti notarili assieme a Gaio di Leone, Dolcetta di Guglielminuccio (vedova di Genatano e quindi madre di Manuello), Vitaluccio di Consiglio, Abramuccio di Bonaparte, Matassia di Musetto, Abramuccio di Bonagiunte, Elio di Olivuccio. I ricordati Manuello e Vitaluccio appaiono anche in contratti di soccida, ovvero relativi all’allevamento di bestiame (Muzzarelli, pp. 33-35, 39).
I prestiti potevano essere restituiti non soltanto a Rimini ma pure a Perugia, Fano, Ancona, Urbino, Forlì, San Marino, Santarcangelo, Montefiore o Gradara. Esisteva cioè un vasto collegamento fra gli agenti finanziari locali e le varie piazze, tra cui negli atti è ricordata pure Mantova (ibidem, p. 35).
Nel corso del quindicesimo secolo gli Ebrei ebbero notevoli favori da parte dei Malatesti (Jones, p. 15). Agli inizi del Quattrocento Rimini era «costituita prevalentemente da ceti mercantili e artigianali», con «una fiorente comunità ebraica a completare il quadro variopinto di una città cosmopolita» (Vasina, p. 29). Nel 1429 con la morte di Carlo Malatesti finisce l’equilibrio da lui creato all’interno della società riminese, «ed affiorano con immediatezza umori e contrasti da lungo tempo sopiti o repressi» (ibidem, p. 51). Avvengono manifestazioni contro i mercanti forestieri e la comunità ebraica, con il saccheggio dei loro banchi: è un favore fatto agli agenti fiorentini presenti in città come emissari dei Medici i quali vedevano negli israeliti una terribile concorrenza (ibidem, p. 65).
Abbiamo già ricordato che in questo periodo (1432) Galeotto Roberto Malatesti ottiene da papa Eugenio IV un «breve» che introduce per gli Ebrei il «segno» di distinzione obbligatorio. E che nel 1503 si replica l’assalto contro i loro banchi, due anni dopo la creazione di quello dei pegni, il «Sacro Monte della Pietà».
Anche Sigismondo fu in rapporto con i banchieri ebraici. Nel 1462 per la fabbrica del Tempio egli ottiene un prestito da Abramo figlio di Manuello di Fano (Vasina, p. 62). Sul finire del secolo quattordicesimo abbiamo incontrato Manuello di Genatano e sua madre Dolcetta. Abramo figlio di Manuello aveva un fratello, Salomone, banchiere ed importante personaggio della comunità ravennate. Abramo e Salomone si trasferiscono dalle nostre parti, e gestiscono un banco nel castello di Montefiore attorno al 1459 (Muzzarelli, p. 36).
Salomone sposa Benvenuta da cui ha quattro figli, uno dei quali (Beniamino) sposa Dolcetta avendone due eredi maschi. La madre Benvenuta, il ricordato Beniamino e sua moglie Dolcetta muoiono di peste nell’arco di dieci giorni durante l’estate del 1482 (Segre, p. 165). Nel 1494 a Cesena è ucciso dalle truppe francesi di Carlo VIII, Rubino di Giacobbe (appartenente ad una dinastia di finanzieri) mentre tentava di fuggire verso Rimini. I furti commessi da quelle truppe a danno della comunità ebraica cesenate, impediscono a quest’ultima di versare alla Tesoreria pontificia la tassa dovuta nel 1494-95, come annotò il cronista cesenate coevo Giuliano Fantaguzzi (ibidem, p. 169).
A metà del quindicesimo secolo Rimini «continua a rappresentare il principale centro finanziario ebraico della Romagna» (ibidem, p. 162), dalla quale transitano gruppi provenienti dalla Marca e dall’Umbria e diretti nella pianura padana per evitare gli effetti della predicazione degli Zoccolanti contro gli Ebrei e le loro attività finanziarie caratterizzate da tassi che a Ravenna sono documentati anche al 30 ed al 40 per cento (ibidem). Al proposito va però precisato che solitamente gli Ebrei praticavano «tassi notevolmente inferiori agli usurai cristiani» (Falcioni, p. 158).
I felici rapporti intrattenuti dagli Ebrei con Sigismondo finiscono con «acuire l’intransigenza religiosa popolare e l’odio sociale» nei loro confronti. Negli Ebrei si vede espresso il sostegno ad un regime finanziariamente e politicamente aggressivo, caratterizzato da un’economia di tipo aristocratico in cui una gran massa di bisognosi s’oppone ad una corte di privilegiati (ibidem, pp. 5, 114, 159).
Legata strettamente al traffico di denaro, è l’impresa agricola gestita con il citato contratto di soccida che prevede la compartecipazione a guadagno e spese, secondo la regola «ad medietatem lucri et damni», come ricaviamo dagli atti relativi a Manuello di Genatano negli anni Ottanta del secolo quattordicesimo (sono ben cinque nell’agosto 1386). La durata del contratto variava da uno a quattro anni.
Nel 1445 Angelo di Manuello per un anno di affitto di un bue pretende tre sestari di grano che diventano quattro allo scadere dell’anno. Nel 1483 un altro affitto riguarda metà di un bue, per due sestari di grano del successivo raccolto. (Muzzarelli, p. 39)
Ci sono poi i contratti di enfiteusi, come quello che il prestatore di denaro Elia di Leone stipula nel 1397 con un Cristiano impegnandosi a fornire quanto necessario per coltivare una vigna di tre tornature (ibidem). L’enfiteusi è la concessione di un fondo con l’obbligo di migliorarlo e di pagare annualmente un canone in denaro o in derrate.
Per gli altri mestieri s’incontrano tintori come Bonaventura di Dattilo, oppure stracciaroli come Abramo di Giacobbe detto «el seccho» e Sabatuccio di Salomone (Muzzarelli, p. 40), oltre ad un Abramo di Angelo da Rimini che poi opera a Ravenna, dove è presente un suo ricco collega nel mestiere, il forlivese Daniele detto Maiucolo (Segre, pp. 159, 169).
Nel 1456 Sigismondo Pandolfo Malatesti vende una casa a Giuseppe di Manuele residente a Rimini ma proveniente da Fossombrone. Nel 1452 Manuello di Salomone di Fano vende a due Cristiani altrettanti piccoli canneti. Nel 1478 Salomone di Musetto di Rimini compra da un altro ebreo una casa in contrada San Giovanni e Paolo, e tre anni dopo una tornatura di terra arativa da un Cristiano.
Nel 1484 incontriamo Musetto di Musetto e Salomone di Musetto (forse fratelli) che acquistano rispettivamente tre tornature di terra in parte arativa, in parte a vigna ed in parte a canneto, assieme alla terza parte di un mulino «ab oleo». Musetto il padre dell’omonimo e di Salomone potrebbe esser lo stesso che è citato in un documento vaticano (Segre, p. 156) del 1436 con cui il cardinal camerlengo gli concede un salvacondotto di sei mesi per circolare liberamente nello Stato pontificio. Questo Musetto (padre) è qui definito figlio di Elia da Rimini ed appare come il tipico uomo di finanza signorile operante in Ravenna. Egli nel 1446 per cause politiche (la dominazione veneziana), e per la riduzione dei tassi dal 40 al 30 per cento (imposta nel 1441) arriva sull’orlo del disastro economico, ed è costretto a cedere al suo creditore addirittura i rotoli della «Thora» ed i paramenti rituali usati in Sinagoga (Segre, pp. 158, 162).
Ebrei riminesi appaiono anche in contratti d’affitto per lo stesso periodo di fine 1400. Uno è stipulato con frate Girolamo rettore del convento di San Giovanni per una casa in contrada San Silvestro. (Muzzarelli, pp. 40-42)
Per riassumere i caratteri economici della locale società israelitica, vale quanto i loro avversari scrivevano a Ravenna: gli Ebrei hanno «ardimento» di comprare cose stabili «contra ogni bon costume, la fede catolica et quello che per tutto el mondo se observa». Cioè l’attività di prestito è il punto di partenza per acquisire proprietà immobiliari (Segre, p. 164). Questo fa temere che essi conquistino troppa autorità e libertà, per cui si richiede di porre loro un freno. D’altra parte la Chiesa romana emana frequenti «lettere di tolleranza» allo scopo di autorizzare «e giustificare sul terreno della politica più che della fede» i banchi ebraici (ibidem, p. 163).



Terzo capitolo

Le sinagoghe ed il cimitero di Rimini
Linee di una «geografia» israelitica in città



Nel febbraio 1506 gli Ebrei riminesi decidono di realizzare il loro cimitero ed acquistano un campo di proprietà di Sigismondo Gennari e fratelli (Tonini, p. 749), posto fuori della porta di Sant’Andrea e confinante con la fossa della città («fovea civitatis»), con l’Ausa e con due appezzamenti di terra appartenenti ad Ebrei. Nel marzo 1507 il cimitero detto anche «Orto degli Ebrei» è già pronto se Stella di Deodato esprime nel proprio testamento la volontà di esservi sepolta (ibidem).
Nel 1520 il cimitero è concesso in affitto dalla comunità israelitica ad un Cristiano che s’impegna a tenerlo in modo appropriato, utilizzandone una parte ad orto, evitando il suo uso a pascolo e creando le fosse «pro sepulturis Hebreorum pauperum et miserabilium decedentium in Civitate» (Muzzarelli, pp. 41-42). Quindi non tutti nella comunità ebraica riminese erano di ceto economicamente elevato o medio.
Il documento del 1506 permette una precisa collocazione del cimitero. Nella pianta della città di Rimini disegnata da Alfonso Arrigoni e pubblicata nel 1617 nel «Raccolto istorico» di Cesare Clementini, è ben delineato il corso del canale dei Mulini che prende acqua dal Marecchia ed entra in Rimini vicino alla porta di Sant’Andrea la quale s’affaccia sull’antica via Aretina. Ancor oggi esiste la via dei Mulini che dai Bastioni meridionali scende sino alla via Venerucci (allora San Nicola, dall’omonimo oratorio sull’angolo con via Garibaldi).
Il corso del canale dei Mulini è documentato all’esterno della città nelle mappe contemporanee dell’Istituto Geografico Militare ed è schematicamente indicato entro le mura in una pianta del 1520 (Archivio di Stato di Rimini, «Carte Zanotti», busta 3), recentemente edita da Oreste Delucca (p. 37). In maniera ovviamente approssimativa la pianta indica il percorso del canale dei Mulini che all’uscita dal mulino del Comune si divide in due corsi. Uno s’avvia «in foveam civitatis», cioè alla fossa che è ricordata come confine per il cimitero ebraico. L’altro corso prosegue verso il centro della città.
Nella carta di Arrigoni il bivio fra i due corsi è invece correttamente posto sotto la chiesa di San Matteo detta «degli Umiliati». I quali erano stati chiamati a Rimini nel 1261 affinché lavorassero e facessero lavorare panni di lana di ogni genere e colore, eccettuato gli scarlatti, i verdi ed i dorati (L. Tonini, III, p. 111, e «Mille», p. 124). L’acqua che usciva dalla loro manifattura dove si usavano sapone ed argilla, doveva essere scaricata nel fiume.
La prima sinagoga è attestata sin dal 1486. S’affaccia sulla piazza della fontana (ora Cavour) dal lato della pescheria settecentesca, nella contrada di San Silvestro. Essa è poi definita come «vechia», quando è realizzata la seconda che in rogito del 1507 è chiamata «magna», nella contrada di Santa Colomba o San Gregorio da Rimini (via Sigismondo), nella porzione di quartiere tra l’odierna via Cairoli ed il Teatro Galli, lato monte. Nel 1555 la sinagoga «magna» risulta invece situata in contrada di San Giovanni Evangelista detta «delli Hebrei» (via Cairoli), a poca distanza dalla chiesa di San Giovanni Evangelista (Sant’Agostino), e proprio dalla sua parte, come si ricava dal documento datato 14 novembre riguardante la decisione presa dagli Ebrei riuniti nella Sinagoga «magna» di vendere la casa detta «la Sinagoga vechia» (Zanotti, Atti, p. 207).
Della sinagoga «vechia» in questo documento del 1555 si scrive che è posta vicino («iuxta») alla strada detta «Rivolo della Fontana» o «del Corso», cioè nell’angolo della piazza Cavour con la contrada di Santa Colomba (via Sigismondo). Il «Rivolo» andava dalla piazza del Castello sino alla piazza Cavour, cambiando poi qui il nome in contrada di San Silvestro. La sinagoga «vechia» era quindi situata nella parrocchia di San Silvestro, delimitabile con il corso d’Augusto, via Cairoli e via Sigismondo e piazza Cavour. La nuova sinagoga è trasferita prima nella zona della parrocchia di Santa Colomba che è speculare verso monte rispetto alla parrocchia di San Silvestro; e poi nella parrocchia di Sant’Agostino sul lato dove sorge la chiesa.
Nel 1569, dopo che il 26 febbraio papa Pio V ha dato il bando agli Ebrei da tutte le sue terre ad eccezione di Ancona e Roma, gli israeliti di Rimini decidono di vendere l’ultima sinagoga, quella posta nella parrocchia di Sant’Agostino. Il 16 maggio il bolognese Prospero Caravita (abitante in Rimini) ed il ravennate Emanuellino di Salomone, come rappresentanti della comunità israelitica locale, stipulano l’atto relativo, consapevoli che per l’editto pontificio tutti gli Ebrei che si trovavano nella nostra città l’avrebbero dovuta abbandonare entro breve tempo. Quest’ultima sinagoga è composta di tre stanze («una domum consistentem ex tribus stantiis»): la più grande è quella dove si riunivano a pregare gli uomini, un’altra più piccola dove si adunavano a pregare le donne, ed un’altra infine posta sopra quest’ultima e sempre ad uso delle donne.
Pure questo documento ci è stato tramandato da Zanotti (Atti, pp. 152-154), ed è ricordato da Carlo Tonini nella sua preziosa storia degli ebrei Rimini, dove però non parla di una casa con tre stanze bensì di tre case distinte (VI, 2, p. 759).
Della presenza ebraica a Rimini si perdono le tracce nei due secoli successivi. Nel 1775 le cronache di Zanotti e Capobelli registrano un battesimo conferito all’Ebreo Isacco Foligno (C. Tonini, VI, 2, p. 762, nota 1). Sappiamo da documenti della Municipalità che nel 1796 gli «Ebrei dimoranti con negozio da lungo tempo in Rimini» gestivano cinque ditte, intestate a Moisé di Bono Levi, Samuel ed Elcana Costantini, fratelli Foligno, Samuele Mondolfo, ed Abram e Samuel Levi.
Il 30 maggio 1799 durante la rivolta dei marinai si registra il saccheggio di due loro botteghe. Zanotti nel suo «Giornale» del 1796 (SC-MS. 314, BGR, p. 155) scrive che i fondachi ebraici si trovavano «ne soffitti del Palazzo de Conti Bandi […], situato lungo la via Regia in faccia al palazzo del conte Valloni» (Dolcini, p. 495). Palazzo Valloni è quello del Cinema Fulgor, all’angolo di corso Giovanni XXIII.
Forse quegli Ebrei erano tornati a Rimini al tempo del pontificato di Clemente XIV (1769-1774) che aveva assunto un atteggiamento favorevole nei loro confronti, cercando di risollevarne le sorti economiche. Un episodio ci illumina sul suo atteggiamento: «Da cardinale il Ganganelli era stato inviato dal papa Clemente XIII a Jampol in Polonia per fare un'inchiesta, sollecitata da una ambasceria inviata al papa dagli Ebrei di quella città, su un presunto omicidio rituale. Il resoconto del Ganganelli (di cui una copia, che si trovava presso la Comunità di Roma, fu scoperta dallo storico Abramo Berliner), spiega che si trattava di un caso di suggestione collettiva» (Mascioli).


NOTA BIBLIOGRAFICA


C. Clementini, Raccolto istorico, II, Rimini 1627, p. 663
O. Delucca, Una terra fra le acque. Il borgo e il territorio Sant’Andrea nel Medioevo, in «Sant'Andrea un borgo fra le acque», 2005, pp. 29-64
A. Dolcini, Napoleone il “bifronte”, Bologna 1996 (qui il cognome dei «Conti Bandi» cit. da Zanotti, Giornale 1796, è erroneamente riportato come «Bondi»)
A. Falcioni, La Signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesti, 1. L’economia, Rimini 1998
M. G. Muzzarelli, Rimini e gli Ebrei fra Trecento e Cinquecento, «Romagna arte e storia», 10/1989, pp. 31-48
C. Ravara Montebelli, Le acque nel borgo Sant’Andrea in epoca romana, in «Sant’Andrea un borgo fra le acque», 2005, pp. 11-26
R. Segre, Gli Ebrei a Ravenna nell’età veneziana, in «Ravenna in età veneziana» a cura di D. Bolognesi, 1986, pp. 155-170
Carlo Tonini, Storia di Rimini 1500-1800, vol. VI, 1, 1887; vol. VI, 2, 1888, pp. 748-763
Luigi Tonini, Rimini dopo il Mille, a cura di P. G. Pasini, Rimini 1975
Luigi Tonini, Storia di Rimini, vol. I, 1848
Luigi Tonini, Storia di Rimini nel secolo XIII, III, 1862
Mascioli, <http://www.mascioli.info/storiaebreiitaliani.html>
A. Montanari, Fame e rivolte nel 1797. Documenti inediti della Municipalità di Rimini, «Studi Romagnoli» XLIX (1998), Stilgraf, Cesena 2000, pp. 671-731; e Furore dei marinai, in corso di stampa (ma leggibile in Internet)
A. Montanari, 1615, distrutto il ghetto in «Il Sito riminese del 1616, Quante storie n. 2», p. 8, «il Ponte», 20 novembre 2005
M. Zanotti, Atti, SC-MS 285, Biblioteca Gambalunga [BGR], Rimini
M. Zanotti, Giornale di Rimino 1796, SC-MS 314, BGR, Rimini
Gli scritti di Jones e Vasina sono ripresi da Studi Malatestiani, Studi storici, fascc. 110-111, Istituto storico italiano per il Medio evo, 1978
ACR, ASR = Archivio comunale, in Archivio di Stato di Rimini

Antonio Montanari

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