Antonio Montanari

Carte parlanti. Vecchie storie, nuove notizie [2009]
Cap. 2. La pietra dello scandalo

Il titolo di questo paragrafo è ironico. Ricordo un vecchio detto, «Soltanto le persone serie possono permettersi di scherzare». Grazie ad esso spiegavo impunemente ai miei alunni che il famoso verso dantesco «I' son Beatrice che ti faccio andare» (Inferno, II, 70), non era lo slogan di un purgante medievale.
La «pietra dello scandalo» a cui alludo, è una lapide del 1490 che era posta nell'antico convento di San Francesco a fianco del tempio malatestiano di Rimini. E che oggi si trova nel Museo della città.
Per spiegare la questione, spero altrettanto impunemente, occorre fare un passo indietro, come in tutte le storie che si rispettino.
Dunque, nel convento riminese sorge a metà Quattrocento la prima biblioteca pubblica italiana e la prima biblioteca Malatestiana della Romagna, madre ideale di quella cesenate tuttora gloriosamente esistente. Mentre la nostra è da tempo scomparsa e dimenticata.
La Malatestiana di Rimini è ideata da Carlo Malatesti (1368-1429), signore di Rimini e rettore vicario della Romagna dal 1385. È progettata nel 1430 da Galeotto Roberto «ad comunem usum pauperum et aliorum studentium». I primi lavori nel convento per la sua realizzazione sono registrati nel 1432. Essa è poi arricchita da Sigismondo Pandolfo.
Nel 1455 possiede «plurima denique sacrorum ethnicorumque librorum ac omium optimarum artium volumina», donati appunto da Sigismondo e procurati dai suoi uomini di corte, fra cui Roberto Valturio (da cui è presa la citazione). Sono testi latini, greci, ebraici, caldei ed arabi, tracce del progetto di Sigismondo per diffondere una conoscenza di tutte le voci, da Aristotele a Cicerone, da Aulo Gellio al Lucrezio del De rerum natura, da Seneca a sant'Agostino, sino a Diogene Laerzio ed alle sue Vitae degli antichi filosofi.
Nel 1475 Roberto Valturio lascia la propria biblioteca alla «liberaria» (libreria) del convento dei frati di San Francesco di Rimini «ad usum studentium et aliorum fratrum et hominum civitatis Arimini», con la clausola che i frati facciano edificare «unan aliam liberariam in solario desuper actam ad dictum usum liberarie».
La «liberaria» giaceva «in piano a terra pregiudicevole a materiali sì fatti», come scrive Angelo Battaglini nel 1792 nella Corte letteraria di Sigismondo Pandolfo Malatesta (p. 168). Il trasporto al piano superiore avviene nel 1490: lo testimonia appunto la lapide di cui stiamo trattando.
Dell'iscrizione della lapide non è stata mai fornita sinora la corretta trascrizione. Infatti si è letto come «sum» quanto invece va trascritto (cioè «sciolto») come «summa». Lo «scandalo» di cui scherzosamente s'è detto, è tutto qui.
Il testo latino è questo: «Principe Pandulpho. Malatestae sanguine cretus, dum Galaotus erat spes patriaeque pater. Divi eloqui interpres, Baiote Ioannes, summa tua cura sita hoc biblioteca loco. 1490».
Ovvero: «Sotto il principato di Pandolfo. Mentre Galeotto, nato dal sangue di Malatesta, era speranza e padre della Patria. Per tua somma cura, Giovanni Baioti teologo, la biblioteca è stata posta in questo luogo. 1490».
In un primo tempo la data «1490» fu letta «1420». Poi ci si accorse che i conti non tornavano, grazie al ricordato documento del 1430.
Un cenno alle persone nominate nell'iscrizione. Pandolfo IV, 1475-1534, è figlio di Roberto Novello (1442-1482), a sua volta figlio di Sigismondo (1417-68).
Roberto è morto combattendo al servizio della Chiesa. Con lui era Raimondo Malatesti (figlio di Almerico Malatesta e di Amabilia Castracani) che reca a Rimini la notizia della morte del signore della città.
Galeotto [Galeotto II Lodovico], figlio di Almerico Malatesta (e quindi fratello di Raimondo), è tutore di Pandolfo e governatore di Rimini.
Giovanni Baiotti da Lugo, frate francescano, è teologo e padre guardiano del convento di San Francesco.
Il testo, da metà Settecento in avanti, è sempre stato trascritto infedelmente. Con quel «sum» (che non dice nulla) al posto del più semplice, ovvio e corretto «summa» che è l'aggettivo da legare a «cura».
L'errata trascrizione, anziché far leggere «Per tua somma cura, Giovanni Baioti teologo, la biblioteca è stata posta in questo luogo», suggeriva una castronata pazzesca per non usare il termine fantozziano originale (che non stonerebbe affatto per rispetto delle questioni filologiche di cui discorriamo): «Per tua cura, Giovanni Baioti teologo, sono la biblioteca posta in questo luogo...». Il che è proprio un bel latino maccheronico nonostante il placet di autorevolissimi ed eccelsi studiosi.
La prima trascrizione (di metà Settecento) è dovuta al padre Francesco Antonio Righini, «procuratore» dello stesso convento dei Padri Conventuali di San Francesco di Rimini. Il cui nome è rimasto legato ad un'altra faccenda malatestiana, la prima ricognizione della tomba di Sigismondo nel 1756 (21 agosto), assieme all'ispezione di tutti i sepolcri malatestiani di San Francesco (15 agosto).
Le «Novelle letterarie» di Firenze (n. 17/1757) lo descrivono quale «uomo non letterato», ma comunque di «buon genio per le cose spettanti all'erudizione del suo Convento», e «tutto intento da molte pergamene di trarre materia da poter tessere una storia della sua Chiesa e del suo Convento».
Sul «procuratore» di San Francesco, è meno tenero il giudizio di uno studioso contemporaneo che, a proposito della vicenda medievale della beata Chiara da Rimini, lo definisce «un falsario». Richiamando i passi appena citati dalle «Novelle letterarie» (n. 17/1757), Jacques Dalarun in un suo recente volume, «Santa e ribelle» (Laterza, 2000), scrive: «Esiste modo più chiaro per rimetterlo al suo posto, quello di erudito locale, autodidatta in perpetuo? Oggi considerarlo un falsario è almeno un modo di parlarne ancora».
La colpa di padre Righini è d'aver imbrogliato le carte sulla storia della nostra beata, inventando la scoperta d'un manoscritto datato 1362 che la riguardava. Ma (spiega Dalarun), i raggi ultravioletti della lampada di Wood consentono di leggervi una data raschiata («14 agosto 1685») che svela il suo trucco.
Quel «sum tua cura» di padre Righini è sopravvissuto al logorio del tempo come inossidabile verità. Purtroppo. Mi auguro che non sia considerato un'offesa all'autorità costituita dimostrare che sia padre Righini sia i suoi successori nello studio di quella lapide, si sono beatamente sbagliati.

Antonio Montanari
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