il Rimino - Riministoria

V. IL PARADOSSO DI FRANCESCA DA RIMINI

Dal saggio di Antonio Montanari
"Dante esule. Tra biografia e poesia.
Romagna, l'antica cortesia ed i nuovi tiranni"




Dalla terra di «tiranni» e «bastardi» nella quale Dante trascorre gli ultimi anni della propria vita, proviene la più celebre delle eroine di tutta la letteratura mondiale. Francesca non ha nome nel poema né si precisa il suo casato nel testamento del suocero, Malatesta da Verucchio [117]. Soltanto gli antichi commentatori le danno una precisa identità. Dante non cita i nomi né del marito di Francesca né dell'assassino di entrambi.
Al pari dell'Inferno e del Purgatorio che sono «un'invenzione del poeta», anche l'episodio di Paolo e Francesca («ignorato dalle cronache contemporanee»), è «inventato dal nostro autore» che «aveva dovuto conoscere Paolo» nel 1282 a Firenze [118]. Le cronache malatestiane che ne trattano [119], sono di età successiva e mediano la 'verità' dai primi commentatori: i due figli di Dante, Jacopo e Pietro, Jacopo della Lana, l'Ottimo ed «altri ancora che precedettero Boccaccio». Al quale si deve la leggenda romanzesca [120] «dell'inganno per cui Francesca crederà di essere destinata a Paolo, per scoprire solo più tardi che il vero marito sarà il fratello» Giovanni detto Gianciotto perché «sozo della persona e sciancato» [121]. Ma «sarà vera anche la storia dell'uxoricidio?»: se lo chiede Lorenzo Renzi, suggerendo di cercare una fonte per la vicenda di Francesca «non nella vita (nella storia), ma nella letteratura» [122]. Qui sta il paradosso di Francesca: la sua tragedia diventa reale attraverso la creazione poetica.
L'uccisione di Paolo e Francesca si colloca tra il febbraio 1283 (ritorno di Paolo da Firenze a Rimini) ed il 1284 [123]. Nel 1286 c'è il nuovo matrimonio di Giovanni con Zambrasina che gli darà almeno altri cinque figli. Zambrasina è figlia di Tebaldello di Garatone Zambrasi, ghibellino faentino, morto nel «sanguinoso mucchio» di Forlì [124] assieme al primo marito di lei, Ugolino dei Fantolini. Tebaldello è posto da Dante all'Inferno fra i traditori (32,122-123) per aver aperto le porte della sua città ai Geremei, guelfi bolognesi, «quando si dormìa» [125].
Zambrasina ha avuto da Ugolino una figlia, Caterina Fantolini, che sposa Alessandro Guidi da Romena, zio di Oberto marito di Margherita [126] figlia di Paolo Malatesti.
Delitto d'onore, delitto d'amore, racconta Dante. Ma se invece fosse stato un omicidio politico? La vicenda sentimentale rispondeva all'economia della Commedia meglio di qualsiasi evento legato a rivalità di famiglia, tipiche dei tiranni deprecati come rovina generale dell'Italia [127]. La figura di Pia de' Tolomei, simmetrica a Francesca per collocazione (nel quinto canto del Purgatorio), può illuminare l'episodio grazie alle corrispondenze interne dell'opera [128].
Anche Pia muore per una violenza coniugale. Suo marito Nello de' Pannocchieschi la fa rinchiudere nel proprio castello e poi uccidere: «Siena mi fé, disfecemi Maremma» (Pg., 5, 134). Questo è l'unico dato di cronaca che conta. Non c'entrano altre e ben note ragioni della teologia e della poesia. Si tratta di un uxoricidio che attesta il senso di arroganza del tiranno e dell'amoralità della sua visione del mondo, tutta incentrata sulla violenza come strumento e mistica del potere, esercitata pure nella vita matrimoniale. Ovviamente al lettore della Commedia non interessano le cause della tragica fine di Pia, ma l'immagine ideale che Dante ne offre. Se esportiamo da questa vicenda maremmana la ricerca del suo senso nascosto per estenderla all'analogo fatto romagnolo, ci accorgiamo che Dante neppure per Francesca dice molto, aldilà della scena letteraria. Sulla quale giustamente sono stati versati, e si versano, fiumi di nobile inchiostro esegetico, sino alla fulminante definizione di Gianfranco Contini, di Francesca «intellettuale di provincia» [129]. Poco interessano di solito le basse ragioni della cronaca nera che stanno alla base del discorso storico.
Anche per Pia, come osservava Umberto Bosco, i documenti «tacciono»: e se «non è possibile fabbricare sulla rena di testi extrapoetici» si deve soltanto constatare che Dante non spiega le ragioni per cui Pia fu uccisa, «forse anche perché non le sapeva, semplicemente le sospettava» [130]. Pure per Francesca è possibile sospettare che Dante non conoscesse «la ragione» per cui fece una fine così letterariamente seducente. In lei Teodolinda Barolini ha visto come la "figura" di Dante al punto che il poeta le appare quale doppio della sposa malatestiana: «the male pilgrim faints [...] because he is like», «il pellegrino uomo sviene [...] perché è come Francesca». E Lorenzo Renzi aggiunge che Dante avrebbe potuto gridare alla Flaubert: «Francesca c'est moi!» [131].
Secondo Franco Ferrucci quella di Francesca è «una vicenda nella quale Dante proietta tanto di sé e della sua storia intellettuale oltre che sentimentale» [132]. Se il poeta non conosceva «la ragione» del duplice omicidio, poi Boccaccio l'ha costruita, con «una personale, molto boccacciana, versione cortese dei fatti» [133], chiudendo perfettamente il cerchio dell'invenzione poetica. La quale si alimenta delle sue stesse creature, fingendo di sottrarle pietosamente all'orrore autoptico del giudizio della storia, ma in realtà per tutelare soltanto se stessa. Come l'antico dio greco Crono che mangiava i figli appena nati nel timore d'essere da loro evirato.
Lo Sciancato aveva i suoi buoni motivi per odiare il Bello. Il primogenito Giovanni per invidia avrebbe potuto progettare l'eliminazione fisica del fratello minore Paolo, stimato protagonista della scena nazionale come attesta l'incarico fiorentino affidatogli dal papa. In questo caso, la tresca amorosa sarebbe stata soltanto una messinscena diabolica, un alibi che avrebbe travolto pure l'innocenza di sua moglie. Quanto accade fra Giovanni e Paolo si ripeterà con i loro eredi. Il figlio di Giovanni, Ramberto, il 21 gennaio 1323 uccide a Ciola il cugino Uberto jr. figlio di Paolo e di Orabile Beatrice. Uberto jr. era stato ghibellino, poi guelfo ed ancora ghibellino. A sua volta Ramberto è ucciso a Poggio Berni il 28 gennaio 1330 dai parenti di Rimini, come punizione di un suo tentativo di conquistare la città.
La mancanza di testimonianze sul delitto è più compatibile con un fatto politico piuttosto che passionale. Dal 1295 i Malatesti hanno il potere a Rimini. Chi comanda controlla i documenti meglio delle situazioni concrete. Il silenzio calato sulla vicenda avrebbe oscurato un episodio compromettente per la buona fama dei signori della città, ed allontanato un marchio d'infamia rispetto all'autorità religiosa e temporale della Chiesa. Quando compone il canto quinto dell'Inferno Dante è lontano dalla Romagna [134]. Ma vi è già stato, come si è visto, nel 1302 [135]. A Ravenna giunge (forse [136]) soltanto nel 1318 restandovi sino alla morte (1321). Potrebbe aver appreso della vicenda, od approfondito la sua conoscenza, secondo la «suggestiva» ipotesi avanzata da Ignazio Baldelli, nei primi anni dell'esilio in Casentino nell'ambiente in cui vivevano due donne che abbiamo già incontrate: Margherita (figlia di Paolo Malatesti e moglie di Oberto Guidi da Romena) e Caterina Fantolini figlia della seconda moglie di Gianciotto nonché sposa di Alessandro Guidi da Romena, zio di Oberto [137].
Se non se ne fosse occupato il poeta della Commedia, oggi nessuno si ricorderebbe della vicenda di Paolo e Francesca, «avvertita da Dante come un fatto non di cronaca privata» ma di una «vicissitudine pubblica» [138]. La memoria universale non significa una conseguente verità della narrazione tramandata sotto la specie della poesia. Nulla permette di far luce circa i misteri sulla morte dei due cognati. Ma le ragioni della poesia (già difese un secolo fa, proprio per Dante, da Renato Serra [139]) procedono separatamente dalle istanze della Storia. La sfera perfetta della poesia può alimentarsi degli orrori e degli errori della cronaca. Tutta la Commedia ne è dimostrazione continua. La verità della poesia sta soltanto in essa stessa. Come sostengono gli studi più recenti che ritengono «letterari» i moventi di questa storia d'adulterio, facendo giocare a Francesca il ruolo di «peccatrice perché letterata». Con lei Dante rappresenterebbe il proprio «abbandono degli errori giovanili, del mondo dell'amore terreno e della sua poesia (lo Stil novo)» [140].




NOTE
[117]. Soltanto gli antichi commentatori le danno una precisa identità. Dante non cita i nomi né del marito di Francesca né dell'assassino di entrambi.
Al pari dell'Inferno e del Purgatorio che sono «un'invenzione del poeta», anche l'episodio di Paolo e Francesca («ignorato dalle cronache contemporanee»), è «inventato dal nostro autore» che «aveva dovuto conoscere Paolo» nel 1282 a Firenze [118]. Le cronache malatestiane che ne trattano [119], sono di età successiva e mediano la 'verità' dai primi commentatori: i due figli di Dante, Jacopo e Pietro, Jacopo della Lana, l'Ottimo ed «altri ancora che precedettero Boccaccio». Al quale si deve la leggenda romanzesca [120] «dell'inganno per cui Francesca crederà di essere destinata a Paolo, per scoprire solo più tardi che il vero marito sarà il fratello» Giovanni detto Gianciotto perché «sozo della persona e sciancato» [121]. Ma «sarà vera anche la storia dell'uxoricidio?»: se lo chiede Lorenzo Renzi, suggerendo di cercare una fonte per la vicenda di Francesca «non nella vita (nella storia), ma nella letteratura» [122]. Qui sta il paradosso di Francesca: la sua tragedia diventa reale attraverso la creazione poetica.
L'uccisione di Paolo e Francesca si colloca tra il febbraio 1283 (ritorno di Paolo da Firenze a Rimini) ed il 1284 [123]. Nel 1286 c'è il nuovo matrimonio di Giovanni con Zambrasina che gli darà almeno altri cinque figli. Zambrasina è figlia di Tebaldello di Garatone Zambrasi, ghibellino faentino, morto nel «sanguinoso mucchio» di Forlì [124] assieme al primo marito di lei, Ugolino dei Fantolini. Tebaldello è posto da Dante all'Inferno fra i traditori (32,122-123) per aver aperto le porte della sua città ai Geremei, guelfi bolognesi, «quando si dormìa» [125].
Zambrasina ha avuto da Ugolino una figlia, Caterina Fantolini, che sposa Alessandro Guidi da Romena, zio di Oberto marito di Margherita [126] figlia di Paolo Malatesti.
Delitto d'onore, delitto d'amore, racconta Dante. Ma se invece fosse stato un omicidio politico? La vicenda sentimentale rispondeva all'economia della Commedia meglio di qualsiasi evento legato a rivalità di famiglia, tipiche dei tiranni deprecati come rovina generale dell'Italia [127]. La figura di Pia de' Tolomei, simmetrica a Francesca per collocazione (nel quinto canto del Purgatorio), può illuminare l'episodio grazie alle corrispondenze interne dell'opera [128].
Anche Pia muore per una violenza coniugale. Suo marito Nello de' Pannocchieschi la fa rinchiudere nel proprio castello e poi uccidere: «Siena mi fé, disfecemi Maremma» (Pg., 5, 134). Questo è l'unico dato di cronaca che conta. Non c'entrano altre e ben note ragioni della teologia e della poesia. Si tratta di un uxoricidio che attesta il senso di arroganza del tiranno e dell'amoralità della sua visione del mondo, tutta incentrata sulla violenza come strumento e mistica del potere, esercitata pure nella vita matrimoniale. Ovviamente al lettore della Commedia non interessano le cause della tragica fine di Pia, ma l'immagine ideale che Dante ne offre. Se esportiamo da questa vicenda maremmana la ricerca del suo senso nascosto per estenderla all'analogo fatto romagnolo, ci accorgiamo che Dante neppure per Francesca dice molto, aldilà della scena letteraria. Sulla quale giustamente sono stati versati, e si versano, fiumi di nobile inchiostro esegetico, sino alla fulminante definizione di Gianfranco Contini, di Francesca «intellettuale di provincia» [129]. Poco interessano di solito le basse ragioni della cronaca nera che stanno alla base del discorso storico.
Anche per Pia, come osservava Umberto Bosco, i documenti «tacciono»: e se «non è possibile fabbricare sulla rena di testi extrapoetici» si deve soltanto constatare che Dante non spiega le ragioni per cui Pia fu uccisa, «forse anche perché non le sapeva, semplicemente le sospettava» [130]. Pure per Francesca è possibile sospettare che Dante non conoscesse «la ragione» per cui fece una fine così letterariamente seducente. In lei Teodolinda Barolini ha visto come la "figura" di Dante al punto che il poeta le appare quale doppio della sposa malatestiana: «the male pilgrim faints [...] because he is like», «il pellegrino uomo sviene [...] perché è come Francesca». E Lorenzo Renzi aggiunge che Dante avrebbe potuto gridare alla Flaubert: «Francesca c'est moi!» [131].
Secondo Franco Ferrucci quella di Francesca è «una vicenda nella quale Dante proietta tanto di sé e della sua storia intellettuale oltre che sentimentale» [132]. Se il poeta non conosceva «la ragione» del duplice omicidio, poi Boccaccio l'ha costruita, con «una personale, molto boccacciana, versione cortese dei fatti» [133], chiudendo perfettamente il cerchio dell'invenzione poetica. La quale si alimenta delle sue stesse creature, fingendo di sottrarle pietosamente all'orrore autoptico del giudizio della storia, ma in realtà per tutelare soltanto se stessa. Come l'antico dio greco Crono che mangiava i figli appena nati nel timore d'essere da loro evirato.
Lo Sciancato aveva i suoi buoni motivi per odiare il Bello. Il primogenito Giovanni per invidia avrebbe potuto progettare l'eliminazione fisica del fratello minore Paolo, stimato protagonista della scena nazionale come attesta l'incarico fiorentino affidatogli dal papa. In questo caso, la tresca amorosa sarebbe stata soltanto una messinscena diabolica, un alibi che avrebbe travolto pure l'innocenza di sua moglie. Quanto accade fra Giovanni e Paolo si ripeterà con i loro eredi. Il figlio di Giovanni, Ramberto, il 21 gennaio 1323 uccide a Ciola il cugino Uberto jr. figlio di Paolo e di Orabile Beatrice. Uberto jr. era stato ghibellino, poi guelfo ed ancora ghibellino. A sua volta Ramberto è ucciso a Poggio Berni il 28 gennaio 1330 dai parenti di Rimini, come punizione di un suo tentativo di conquistare la città.
La mancanza di testimonianze sul delitto è più compatibile con un fatto politico piuttosto che passionale. Dal 1295 i Malatesti hanno il potere a Rimini. Chi comanda controlla i documenti meglio delle situazioni concrete. Il silenzio calato sulla vicenda avrebbe oscurato un episodio compromettente per la buona fama dei signori della città, ed allontanato un marchio d'infamia rispetto all'autorità religiosa e temporale della Chiesa. Quando compone il canto quinto dell'Inferno Dante è lontano dalla Romagna [134]. Ma vi è già stato, come si è visto, nel 1302 [135]. A Ravenna giunge (forse [136]) soltanto nel 1318 restandovi sino alla morte (1321). Potrebbe aver appreso della vicenda, od approfondito la sua conoscenza, secondo la «suggestiva» ipotesi avanzata da Ignazio Baldelli, nei primi anni dell'esilio in Casentino nell'ambiente in cui vivevano due donne che abbiamo già incontrate: Margherita (figlia di Paolo Malatesti e moglie di Oberto Guidi da Romena) e Caterina Fantolini figlia della seconda moglie di Gianciotto nonché sposa di Alessandro Guidi da Romena, zio di Oberto [137].
Se non se ne fosse occupato il poeta della Commedia, oggi nessuno si ricorderebbe della vicenda di Paolo e Francesca, «avvertita da Dante come un fatto non di cronaca privata» ma di una «vicissitudine pubblica» [138]. La memoria universale non significa una conseguente verità della narrazione tramandata sotto la specie della poesia. Nulla permette di far luce circa i misteri sulla morte dei due cognati. Ma le ragioni della poesia (già difese un secolo fa, proprio per Dante, da Renato Serra [139]) procedono separatamente dalle istanze della Storia. La sfera perfetta della poesia può alimentarsi degli orrori e degli errori della cronaca. Tutta la Commedia ne è dimostrazione continua. La verità della poesia sta soltanto in essa stessa. Come sostengono gli studi più recenti che ritengono «letterari» i moventi di questa storia d'adulterio, facendo giocare a Francesca il ruolo di «peccatrice perché letterata». Con lei Dante rappresenterebbe il proprio «abbandono degli errori giovanili, del mondo dell'amore terreno e della sua poesia (lo Stil novo)» [140].

117 PARI, La signoria di Malatesta da Verucchio cit., p. 9.
118 GORNI, Dante cit., pp. 246-247. La prima notizia in tal senso è in F. TORRACA, Il canto V dell'Inferno, in «Nuova Antologia», 1 e 16.VII.1902, p. 433.
119 Cfr. Marco Battagli (1343): «Paulus autem fuit mortuus per fratrem suum Johannem Zottum causa luxuriam», in PARI, Francesca da Rimini nei commentatori danteschi del Trecento, ne Le donne di Casa Malatesti (Storia delle Signorie dei Malatesti, XIX, 1), Rimini 2005, p. 100.
120 La leggenda romanzesca del Boccaccio è il titolo di uno scritto di G. BILLANOVICH apparso in «Studi Danteschi», 28 (1949), pp. 45-144. Boccaccio è «un ingenuo appassionato, ma non un falsario» (COGLIEVINA, La leggenda sui passi dell'esule cit., p. 67). Secondo I. BALDELLI, Dante e Francesca, Firenze 1999, pp. 31-33, il racconto fatto da Boccaccio «dell'amore e della morte di Francesca e Paolo» è «vero», perché offre «particolari che Dante non conobbe, o non utilizzò, perché ritenuti non essenziali». Boccaccio fu presso Ostasio da Polenta tra il 1345 e il 1346, alla corte di Francesco Ordelaffi da Forlì nel 1347-1348 ed «ancora ambasciatore in Romagna» nel 1350.
121 L. RENZI, Le conseguenze di un bacio, Bologna 2007, pp. 269-270.
122 Ibidem, p. 279.
123 BALDELLI, Dante e Francesca cit., p. 36, parla del 1285.
124 Cfr. supra nota 15.
125 BALDELLI, Dante e Francesca cit., pp. 26-27; BONOLI, Storia di Forlì cit., p. 262.
126 Cfr. infra nota 137.
127 Cfr. il cit. Pg., 6, 124-125.
128 Esiste un perfetto sistema di simmetrie all'interno della Commedia, sul quale diamo brevi cenni esemplificativi. Sommando il numero dei canti (67) di Inferno e Purgatorio, e dividendolo per due, il mezzo si trova in Inf. 34, 69: «è da partir, ché tutto avem veduto», dove si conclude il percorso infernale per ritornare «a riveder le stelle» (Inf 34, 139). «Partire» allegoricamente significa «dividere»: il v. 69 separa tra loro i primi due regni, collocati in un orizzonte 'terrestre'. Da Inf. 1, 1 ad Inf. 34, 69, c'è simmetria tra il secondo verso dell'inizio, con la «selva oscura» (Inf. 1, 2), ed il penultimo della fine, con «la notte» che «risurge» (Inf. 34, 68). A metà di tutta la prima cantica, c'è il c. 18 che dà inizio alla seconda parte (le dieci Malebolge). In Purgatorio la metà è a 17, 70, dove inizia la spiegazione virgiliana dell'ordinamento morale del "luogo" (vv. 70-72).
129 P. BOITANI, Letteratura europea e Medioevo volgare, Bologna 2007, p. 55.
130 BOSCO, Introduzione al c. V, p. 79 in ALIGHIERI, La D. C., con pagine critiche. Purgatorio, II, Firenze 1988.
131 RENZI, Le conseguenze di un bacio cit., p. 174. Sulle consonanze fra l'episodio di Francesca e la storia di Emma Bovary, con la sua educazione 'libresca', il suo cadere «in preda alla letteratura», al punto di diventare «una Francesca del XIX secolo», cfr. BOITANI, Letteratura europea e Medioevo volgare cit., pp. 74-75.
132 F. FERRUCCI, Dante. Lo stupore e l'ordine, Napoli 2007, p. 251.
133 RENZI, Le conseguenze di un bacio cit., p. 110. «Una storia simile a quella della novellina di Boccaccio si trova nelle chiose del cosiddetto Falso Boccaccio, scritte nel 1375» (ibidem, p. 115).
134 «Soprattutto per carità di patria [...] Giovanni Pascoli opinava che tutta quanta la Commedia fosse stata composta in Romagna...» (GORNI, Dante cit., pp. 297-298). Sugli studi "romagnoli" della Commedia, cfr. la bibliografia in VASINA, Dante e la Romagna cit., pp. 315-316, e gli aggiornamenti in GORNI, Dante cit., passim (qui a p. 298 si legge che su certe vaste indagini «il tacere è bello»).
135 Secondo Flavio Biondo, Dante è in Romagna nel 1303 e nel 1310 (BATTISTINI, L'estremo approdo cit., pp. 164-165). BARBI, Sulla dimora di Dante a Forlì, in «Bullettino della Società Dantesca», I, 8, 1892, pp. 7 segg., ripropone il 1303 (cfr. VALLONE, Gli studi danteschi cit., p. 88). Si veda pure BARBI, Studi danteschi, Firenze 1934, passim.
136 «Molti i dubbi e le questioni irrisolte [...]. Non si può dire neppure quando cominciò, per Dante, il periodo ravennate del suo esilio» (GORNI, Dante cit., p. 296). «Una cosa è certa: tutto concorre a far credere che l'esule a Ravenna si trovasse bene, circondato dalla stima di giovani ingegni raccolti attorno a lui» (ibidem, p. 298).
137 BALDELLI, Dante e Francesca cit., pp. 26-28.
138 PETROCCHI, Vita di Dante cit., p. 132.
139 R. SERRA, Su la pena dei dissipatori in Scritti a c. di G. De ROBERTIS e A. GRILLI, Firenze 1958, p. 7.
140 RENZI, Le conseguenze di un bacio cit., pp. 7-8.

Al saggio Dante esule. Tra biografia e poesia.

Antonio Montanari
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