Antonio Montanari
Anni Cinquanta
I giorni della ricostruzione visti da un bambino, 1948-1953
Ed. Guaraldi 1994

5. E l'aquilone volava

Quando da Viserba ci sfrattarono, tornammo a Rimini, ospiti dei nonni materni ai quali era stato assegnato un appartamento "popolare" in una casetta a due piani, appena finita di costruire in via Soleri Brancaleoni. Era il 1947. Dalle finestre s'apriva un panorama tranquillo. In lontananza, il camino della fornace, e sotto il naso una strada polverosa con a lato i marugoni su cui le donne stendevano "la bucata", rimediando alquanto di sovente uno strappo di qualche spino, il famoso "sette", perfezione geometrica di un danno talora riparabile con facilità su stoffe di scarso valore, ma talvolta vergogna perpetua per la casalinga che non aveva usato tutta l'astuzia possibile nel ritirare i panni da quello stenditoio naturale e traditore.
La nostra era l'ultima casa della strada, dopo si schiudeva un podere con un campo di grano dove in primavera, quando rosseggiava di papaveri, piaceva a noi bambini nasconderci di contrabbando tra le spighe, pungendo con dolcezza le nostre carni, e facendo attenzione all'insidia dell'ortica, contro la quale non c'era remissione. Finita la mietitura, si poteva scorrazzare in quel campo liberamente, con i sandali che inciampavano tra le zolle e le stoppie. Era il momento di lanciare gli aquiloni.
Più tardi, alla scuola media credo, avremmo imparato a memoria i versi di Zvanì: "Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza, risale, prende il vento...". In quei giorni piccini, a cinque anni, l'aquilone era una cosa enorme ed ignota, così strana da potersi innalzare da terra, volare come una farfalla, disegnare sullo sfondo dell'azzurro, o negli arancioni dei tramonti, le trame di un sogno, quello antico dell'uomo di staccare i propri piedi dal suolo, essere simile ad una rondine, o ad un passero, e guidare la propria corsa così, girando attorno ad un filo che ci sembrava niente, ed invece era tutto: ecco come non si capisce mai nulla delle cose.
Per costruire questa modesta ma miracolosa macchina volante, occorreva carta "oleata", quella usata allora per ricoprire i libri, che era di vari colori, un blu intenso, un rosso vivo, un verde scuro ed un giallo peperone, che oggi chiamerei più propriamente van Gogh. La forma era quadrangolare, con coda, bilanciere, archetto di canna..., leggo oggi in un libro sui giochi di una volta, scritto da Vittorio Bagnari.
Aquilone per me, piccolo com'ero, significava confidare nell'aiuto di nonno Romolo. Le canne crescevano tutte all'intorno, la carta si comprava con poche lire (ed allora una lira era tanto), e poi sulla tavola di cucina iniziava l'operazione. La maestrìa del costruttore anzitutto era provata da come si legavano in croce le canne, prima di ritagliare il rombo colorato della carta, che veniva ribattuto e rafforzato negli angoli, dove lo scheletro doveva reggere tutta la struttura. Il nonno usava una colla resistentissima che si preparava in casa, sciogliendo sul fuoco, in un pentolino, una specie di sapone. Era la "còla garavèla", o come spiega l'antico vocabolario dialettale di Antonio Mattioli (1879), "colla caravella", chiamata anche "cervona" da Benvenuto Cellini. Il nome deriva proprio dalle navi caravelle, in cui si usava per gli assiti. Poteva bastare la più domestica (ed ovvia) colla con farina, ma il nonno era previdente, oltre che abile nel lavorare la carta, fossero aquiloni, quaderni che lui inventava per ogni bisogna, o rilegature di libri.
Pensionato, dopo una vita trascorsa sulle scartoffie comunali, aveva passato i settant'anni. Prima della guerra, le fotografie ed i racconti di casa, lo descrivevano elegantissimo. Adesso, trascorreva la mattinata nell'orto, ed il pomeriggio passeggiando con il suo cagnolino Garbì, così chiamato in onore del vento di garbino che domina assai spesso la nostra terra. Rifiutava di indossare la cintura dei pantaloni, che teneva sù con una corda. Sotto le bombe aveva salvato la pelle, e perso tutto. La svalutazione aveva bruciato i risparmi della nonna, il tenore di un'esistenza borghese era scivolato verso un decoro fatto di povertà, e di vestiti regalati da un parente ricco. Da uomo d'ordine, prima liberale e poi fascista, era diventato di idee considerate allora rivoluzionarie: alla Marcia reale aveva sostituito Bandiera rossa. La sua è anche un po' la storia d'Italia, da Giolitti a Mussolini, e poi al secondo Dopoguerra.
A fargli mutare idea, erano stati non soltanto gli eventi storici collettivi, ma anche la vicenda personale del figlio Guido. Il quale, come tutti i giovani nati attorno al '20, era stato tirato sù a "libro e moschetto", ma poi aveva scelto una strada diversa, finendo in galera nel gennaio '43, per aver distribuito dei volantini intitolati "Non credere, non obbedire, non combattere". L'imputazione del mandato di cattura (l'arresto avvenne a Bologna, dove Guido stava svolgendo il servizio militare), comprendeva anche il possesso di libri proibiti dal regime, romanzi di London e Gor'kij che peraltro erano regolarmente venduti pure sulle bancarelle. I libri, li aveva prelevati la polizia nella casa dove abitavamo, al palazzo Lettimi, ed io ero nella culla, avevo la bellezza di cinque mesi.
Fu un arresto che fece clamore in città, perché mio zio fu tra i primi studenti di tutta la regione a finire dentro per motivi politici, come ha scritto il suo amico Sergio Zavoli in Romanza, e perché era uno dei leader su cui "cominciava ad orientarsi la bussola dell'antifascismo riminese", secondo quanto lo stesso Zavoli ha raccontato in una tavola rotonda: "La notizia attraversò la città e fece correre, soprattutto in noi giovani, un piccolo brivido". Si dice spesso che i figli copiano dai padri, ma nel caso del nonno era avvenuto tutto il contrario.
Se le carte che raccogliamo (carte nel senso di scritti altrui), hanno un senso anche per la nostra storia individuale, e dicono qualcosa dei nostri gusti e delle preferenze che ci guidano nella vita, posso sostenere che il nonno, conservando in un quaderno magistralmente inventato con le sue mani, poesie e discorsi del divin Gabriele, si fosse sentito dannunziano, negli anni della Grande Guerra? Sono ritagli della "Tribuna" e del "Corriere": "Salva il Re che partisce il pane scuro / col combattente e non isdegna il duro / macigno alla sua sosta..."; "Prega pel re la figlia sua regina / che in sogno sta tra due fiumane calde..."; "O Dio d'Italia, tieni la tua mano su questa fronte che facesti dura...". Dura la fronte, o anche tutta la testa: si parla di Cadorna (dicembre 1915), ma poi nel '17 sarebbe giunta Caporetto, e la retorica ("la forza degli uomini respira / in lui, palpita in lui, freme e s'adira..."), avrebbe ceduto il passo al dramma, e "lui", Cadorna, avrebbe lasciato il posto a Diaz. È tutto uno sferragliare di armi, tra notti di città (dove trema "l'imagine cara della Patria", mentre "il ricco ha rossore degli agi suoi"), ed albe di guerrieri armati di dolore.
C'è il discorso di Quarto (5 maggio 1915), per ricordare la partenza dei Mille di Garibaldi, nel 1860: "Beati i puri di cuore, beati i ritornanti con le vittorie, perché vedranno il viso novello di Roma, la fronte incoronata di Dante, la bellezza trionfale d'Italia". D'Annunzio era allora il supermarket culturale della mitologia politica a buon mercato: in centomila lo accolgono a Roma inneggiando alla guerra, il 13 maggio 1915: "L'Italia s'arma, e non per la parata burlesca, ma per il combattimento severo". Prima ancora che finisca il conflitto, comincia la tiritera della "vittoria mutilata" che ispirerà tante rivendicazioni nazionalistiche. In un brano dell'agosto 1918, si legge: "Sfidiamo il domani e l'ignoto, o compagni, col nostro grido di battaglia: Eia! Eia! Alalà!". Sono le ultime parole incollate in quel quaderno. Diventeranno un grido fascista. Il ritaglio meno antico, è qualche pagina indietro, dal "Popolo d'Italia", il giornale di Mussolini, del 5 agosto 1922: "La grande Nazione italiana è in marcia", discorso di Milano. Dove s'invoca "sulla stanchezza di figli fragili il soffio divino dell'Italia eterna".
Non so perché il nonno amasse costruirmi gli aquiloni, a settant'anni. Per ritornare bambino anche lui? O per sognare qualche ricordo dannunziano: il volo di un aquilone poteva richiamargli alla mente il volo su Vienna? O per poter guardare finalmente in pace quel cielo da cui, qualche anno prima, era arrivata la distruzione per Rimini?
Anche noi bambini avevamo sentito i rumori terribili della guerra? Nei ricordi, non mi è rimasto nulla. Avevo poco più di un anno per i primi bombardamenti, due quando la guerra finì. Ma dove, dentro di noi, si scava come fa la sgorbia quando incide la scultura, lì ci sono i segni dei quali oggi nella vecchiaia nessuno tiene conto, perché nessuno allora, o poi, ne parlò. Oggi, per traumatizzare un fanciullo, ci spiegano gli esperti, basta una trasmissione televisiva sulla guerra. E noi, che ci siamo passati sotto, non avremmo diritto a vederci riconosciuto un danno psichico? "Eh! a me, m'ha rovinato la guerra", posso dire come il celebre Gastone di Ettore Petrolini.
Quando arrivarono, li chiamarono liberatori: era la verità della storia. Ma loro dovevano vendicarsi su di noi, volevano farci fuori tutti: bambini, donne, uomini. I greci regolarono i conti spaccando la metà delle cose che trovavano. Ai miei, il letto matrimoniale venne privato del pezzo dappiedi. Del mio seggiolone azzurro, restò miseramente soltanto una parte simbolica. A mia madre, che chiedeva ai soldati inglesi qualcosa da dar da mangiare a me, fu risposto sotterrando il cibo e gli avanzi del rancio: "No a te, perché dopo dare a lui, a lui e a lui...". Dovevamo morire di fame. Libera nos, Domine.
A mio padre, che era funzionario comunale, un ufficiale inglese disse con fare sprezzante: "Troppi riminesi". Avrebbero voluto fare piazza pulita, e avevano avuto l'intenzione di spianare San Marino, con tutti noi rifugiati e persi come formiche impazzite. Mio zio Guido riuscì a convincere gli inglesi. Ha raccontato a Bruno Ghigi ("La guerra a Rimini", 1980): "Avvicinai un ufficiale per informarlo sul disfacimento delle difese tedesche a San Marino e sulla drammatica condizione dei civili rintanati nelle gallerie [...]". La mattina dopo un sottotenente britannico gli confida "che il comando aveva accertato l'esattezza delle nostre informazioni sullo schieramento tedesco e sulla ubicazione dei campi minati, rinunciando al bombardamento di spianamento di San Marino programmato prima del nostro arrivo".
La fatica di vivere era ripresa, dopo la guerra, ma pesava di meno, era come quell'aquilone che il nonno a settant'anni faceva volare per il nipote di cinque. Dal cielo non cadevano più le bombe, la morte; ma per la mia imperizia precipitava soltanto, sbriciolandosi, quella colorata macchina volante: "E adesso, non te ne faccio più", borbottava il nonno, e poi andava a mettere a scaldare la "còla garavèla" per le necessarie riparazioni.

Sommario

1. Camicia nera della ricreazione
2. «Obbedite al Capoclasse!»
4. I piombi di Viserba
5. L'aquilone del nonno
6. A Montefiore Conca
7. Dettato all'americana
8. Alla «dottrina»
9. I temi della Cesira
10. Post-scriptum


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