Antonio Montanari
Anni Cinquanta
I giorni della ricostruzione visti da un bambino, 1948-1953
Ed. Guaraldi 1994

3. Ci curavano alla Molière

Nel grigio repertorio esistenziale d'ogni fanciullo di prima o seconda elementare, sul finire degli anni '40, un capitolo sconosciuto, e perciò affascinante e per questo anche decisivo nella comprensione della precarietà del vivere, era quello delle malattie infantili. Un'esperienza diversa dalla routine quotidiana. Le madri che s'incontravano tra loro, per strada o nei tetri negozi del tempo, all'ora della spesa, sfoderavano tutta una serie di variazioni sul tema, a proposito di morbillo o di tosse cattiva, detta pure pertosse, se non addirittura (con crudele ironia caricaturale), tosse asinina. "Il mio ha già avuto tutto". "Beata lei, lui ancora niente". E "lui" veniva additato al pubblico disprezzo, con uno sguardo tra il compassionevole e l'ironico, come se fosse stata colpa sua se, gli eventi previsti da madre Natura, non si erano ancora verificati.
Sarò stato magari un poco ritardato, da bambino, il che spiegherebbe il futuro, ovverosia il presente; ma non ho mai compreso perché dovesse essere inevitabile ammalarsi tutti della stessa malattia, come strada obbligata per poter crescere e ricoprirsi di un orgoglio che, a prima vista, mi appariva del tutto inutile nel dire agli altri, come suprema testimonianza di una perfezione biologica : "Gli orecchioni? Già passati".
"Meglio così", dicevano le nonne, "perché se vengono da grandi, non si sa mai". Quel "non si sa mai", non si seppe mai, perché gli adulti spesso (se non quasi sempre), colloquiando con noi bambini, si parlavano da soli, con il loro linguaggio preciso, serio, incomprensibile, intessuto com'era di enigmi che poi nessuno si degnava di spiegarci nella loro scientifica realtà.
Le piante dei cavoli erano tutt'altro che destinate alla gastronomia, così le cicogne avevano un'imperscrutabile funzione postale, non verificabile di fatto, perché nessuno ha mai visto volare una cicogna nei nostri cieli. Ed allora, ci si diceva che la cicogna viaggiava di notte (come i ladri, pensavamo noi), chissà perché non voleva farsi vedere da nessuno: e se sbagliava indirizzo? Quali tragedie sentimentali avrebbe provocato un errore di recapito? Ne accadevano, ma venivano anch'essi accuratamente mascherati, ricorrendo ad una presupposta incomprensibilità dell'Esistenza che celava i suoi misteriosi accadimenti ai comuni mortali. Questa era l'educazione, anzi la "buona" educazione che si pretendeva di impartirci.
Quelli degli adulti, erano monologhi che non ammettevano replica. La dialettica pedagogica non ha beneficiato la nostra generazione. L'unica chiarezza era nella spiegazione di cose che non compromettessero nessuno, come il quadrante dell'orologio che si doveva conoscere prima di andare a scuola, anche se non ci volevano sforzare a leggere prima che si entrasse in un'aula delle elementari, perché "ogni cosa deve avvenire al momento giusto".
A proposito del linguaggio degli adulti: nei primi mesi di scuola, mi rimase impressa un'espressione che il nonno aveva usato una volta con mio padre: "Lei allora gli scriva una lettera, dicendo che..., eccetera, eccetera".
"Eccetera, eccetera" fu per me, durante un lungo periodo, una formula misteriosa di cose dette ma non espresse, un segreto impenetrabile, una specie di formula che apriva mondi inaccessibili, dove potevano circolare soltanto gli adulti, i quali si comprendevano tra di loro, lasciando gli altri nell'incertezza di cose appositamente oscure. Si creava una finzione dalla quale noi bambini eravamo esclusi.
Loro, gli adulti, intervenivano con noi e su di noi, soltanto per lo stretto necessario. I vecchi si erano tramandati una serie di notizie che custodivano gelosamente, dall'alto del loro ruolo di depositari della saggezza, fino al momento opportuno, in cui quell'arcana sapienza doveva tradursi in realtà.

Morbillo o scarlattina che fosse, la nonna assumeva la direzione sanitaria dell'emergenza famigliare. Stanza buia, uso di borotalco delicatamente soffiato sul corpo, come in un cerimoniale da favola, e poi, a rinfrescare e proteggere la pelle, delle pezzuole di lino, di cui veniva vantata la finezza e l'origine antica risalente a qualche ava che aveva lasciato in eredità il suo prezioso corredo. Ma, forse, era soltanto uno straccetto salvatosi sotto i bombardamenti.
La nostra è stata anche la generazione delle tonsille asportate obbligatoriamente, con la stessa rigidità normativa con cui a ciascun cittadino (maschio, di solito: a mia madre giunse che mi attendeva da sette mesi...), arriva la cartolina rosa per il servizio militare. Era un rito crudele come quello della corrida.
Anche quella volta, venni affidato alle mani ferme di nonna Lucia che in casa s'era fatta la fama di donna molto coraggiosa, perché in età giovanile era stata operata "da sveglia": quel suo atto di sprezzo del dolore, ce lo ricordava con grande tranquillità ogni volta che, finito un pranzo di festa con riunita tutta la famiglia, si procedeva al lavaggio delle posate. Il che immancabilmente le faceva ritornare alla memoria il rumore dei ferri chirurgici usati con quella paziente (e la definizione appare veramente appropriata).
Tonsille, a Rimini, nell'immediato dopoguerra, volevano dire dottor Giorgio Candi, il quale aveva studio in piazza Cavour. L'attesa nell'ambulatorio precedeva il rito della vestizione, consistente nell'applicazione di un lungo telone di gomma cerata, legato attorno al collo. Ti facevano sedere, e appena aprivi la bocca e spalancavi la gola, eri già servito. Poi, mi hanno fatto stendere su di un sofà nell'ingresso dello studio, con due cubetti di ghiaccio in gola, che dovevano aiutare a cicatrizzare la ferita.

A quell'operazione è legata, come strana e straordinaria contropartita, una prelibatezza terapeutica. "Dategli del gelato", aveva ordinato il dott. Candi, che era una figura altissima, e rassomigliava al Mangiafuoco di certe figurine che apparivano allora sui nostri libri. Mai fu più dolce obbedire all'ordine di un medico.
Le gelaterie di Rimini erano poche, e vendevano solo prodotto sfuso: mio padre faceva molta strada, per andare da "Santo Spirito" alla piazza Tre Martiri, al bar Dovesi, con in tasca un bicchiere che poi, colmo di quell'insperata medicina, riportava a casa, ansimando e sudando a causa della sfacchinata compiuta in fretta, per non far squagliare il rimedio sanitario che, infine, vittoriosamente approdava a placare il palato ancora offeso dal trauma post-operatorio.
In altre occasioni, il farmaco era di opposto sapore. Per noi, nati nei primi anni '40, vigeva una scienza che aveva canoni successivamente cancellati, se non smentiti da nuove conoscenze. (D'altro canto, liberi dal Fascio, siamo stati gli ultimi bambini vittime della "fasce", un rituale medievale senza dubbio, che forse risale a qualche popolo barbarico: venivamo immobilizzati, nella illusoria convinzione che la rigidità del corpo favorisse la perfezione dello sviluppo osseo. Più che un sistema igienico, era il segno d'una pedagogia che voleva imporci la passività, insegnandocela concretamente sin dai primi giorni di vita).
Dunque. In caso di febbre, succedeva questo. Venivamo protetti da tante coperte, mentre oggi si suggerisce di stare con pochi panni sul letto, affinché il corpo possa disperdere il calore in eccesso. Oggi, si obbliga l'ammalato a reintegrare i liquidi che si perdono con la sudorazione prodotta dalla febbre. A noi, invece, venivano imposti sistemi completamente opposti. Si doveva procedere ad una pulizia interna che faceva perdere altri liquidi e che, quindi, in teoria, peggiorava le nostre condizioni.
Si usava quel sistema che lo scrittore Roberto Ridolfi ha definito, in una sua godibilissima pagina, "il mattinal purgatorio", pensando al quale tornano in mente i celebri versi che Torquato Tasso ha posto all'inizio della "Gerusalemme liberata": "a l'egro fanciul porgiamo aspersi / di soavi licor gli orli del vaso". Il metodo purificatorio (e propiziatorio del recupero della salute), era prescritto dal medico con la massima serietà e puntualità, ad ogni rialzo febbrile.
E si sa che, chi abbia un abbonamento a qualche bronchite cosiddetta recidivante, ha diritto alla conseguente grata esenzione dalla frequenza scolastica, a causa di quel malanno che si sarebbe tradotto in una pura gioia ascosa, se il contrappasso (inevitabile) non avesse poi provocato un perfido risveglio, antelucano più del solito, onde favorire l'effetto lubrificante e temporalesco del tremendo olio di ricino. Bisognava soprattutto cogliere la vittima con ancora gli occhi chiusi, in maniera che non tentasse alcuna ribellione.
Allora, non esisteva il prodotto rettificato ed inodoro, ma quello grezzo e puzzolentissimo, simbolo di un disprezzo che si era quantificato storicamente nelle dosi punitorie di fascistica memoria. Ignoro quali colpe dovesse far scontare alla nostra innocenza bambina, la medicina del tempo che non aveva neppure il senso del ridicolo, acquisibile ove fosse il caso, come in effetti lo era, attraverso la lettura del molièresco dottor Purgone nell'"Ammalato immaginario".
L'astuzia ingannatrice di cui parlava già il Tasso sul finire del '500 (vecchio trucco, dunque, che però funzionava sempre), consisteva nel mascherare il fetidume oliaceo con un amarissimo caffè in una tazza poi strofinata al bordo con del limone, per ingannare gusto ed olfatto nel momento supremo del sacrificio digestivo, in cui venivo imboccato rapidamente, seguendo una formula fisica per cui la velocità dell'assunzione venefica doveva essere direttamente proporzionale al suo grado di perfidia odorosa.
Che il discorso sulle "fasce", abbia una sua dignità pedagogica, l'attesta un passo dell'"Emilio" di Gian Giacomo Rousseau (1782): "Donde viene quest'usanza irragionevole? Da un'altra contro natura. Quando le madri, disprezzando il loro primo dovere, non hanno più voluto allattare i loro bambini, è stato necessario affidarli a donne mercenarie, che trovandosi così madri di bambini estranei, per i quali la natura non dettava loro nulla, non han cercato altro che risparmiar fatica. Su di un bambino lasciato in libertà sarebbe stato necessario esercitare una continua sorveglianza. Ma quando è ben legato, lo si getta in un angolo senza curarsi dei suoi pianti...".

Sommario
1. Camicia nera della ricreazione
2. «Obbedite al Capoclasse!»
3. Ci curavano alla Molière
4. I piombi di Viserba
5. L'aquilone del nonno
6. A Montefiore Conca
7. Dettato all'americana
8. Alla «dottrina»
9. I temi della Cesira
10. Post-scriptum


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