Antonio Montanari
Anni Cinquanta
I giorni della ricostruzione visti da un bambino, 1948-1953
Ed. Guaraldi 1994

2. "Obbedite al capoclasse!"

La divisa scolastica diventava un po' ridicola per gli alunni ripetenti. Nonostante la forzata frugalità che caratterizzava i pasti della gente in quei giorni, i corpi di alcuni fanciulli crescevano a dismisura. Le stoffe invece restavano ferme in un disegno primitivo che spesso risentiva di un'ereditarietà mortificante, trasmessa da un precedente fratello maggiore a quello minore che, a sua volta, precedeva qualcun altro, e che non si sa se concludesse la serie. Non era colpa di nessuno, se l'ultimo nato in famiglia aveva avuto uno sviluppo osseo superiore a chi lo aveva preceduto. In questi casi, il grembiule restava come la sintesi di se stesso, un accenno di indumento che lasciava trasparire la sua crudele insufficienza da tutte le parti. Il contenuto eccedeva il contenente, contro ogni regola di fisica elementare. C'era in ogni classe un buontempone più fortunato degli altri, perché la sua appartenenza ad una famiglia contadina gli forniva alimenti sostanziosi a poco prezzo. Era sempre rubizzo e s'ingrassava in continuazione. Quando faceva la prima, quelli che non lo conoscevano, gli chiedevano: "Farai mica la terza?".
Un altro effetto provocato da quella maggiorazione del fisico del bambino che s'ingrandiva come un ragazzo, era nei voti che raccoglieva sulle pagelle, in modo inversamente proporzionale alla crescita. Più invecchiava, meno riusciva nel lavoro scolastico. Ai nostri tempi, c'era ancora l'abitudine di mettere nei libri di testo le immagini pinocchiesche degli studenti asini, con il cappello della berlina che spuntava da dietro la lavagna. Non esisteva allora il reato di lesa maestà infantile, per i maestri, nel definire asino un proprio scolaro. E questi bambini poco capivano, poco avevano voglia di fare. Spesso lavoravano tutto il pomeriggio a casa per le necessità della famiglia, e quando finalmente potevano riposarsi a scuola, accettavano di buon grado qualsiasi offesa alla loro dignità intellettuale, pur di rilassarsi, se non dormire spudoratamente alla faccia di tutta l'Istituzione. Se piangevano, lo facevano di nascosto, umiliati ma non offesi, senza meditare vendette, senza pregustare vittorie sindacali o rivendicazioni sovversive.
Il sapere si trasmetteva con una stratificazione sociale che era alla base di quello stesso sapere. La scuola rispecchiava il mondo nelle sue varie fette, ogni classe dipingeva entro le mura di un'aula scolastica la realtà esterna, le sue differenze e le sue ingiustizie. A vincere questi scompensi, bastava l'amicizia, non quella deamicisiana del ricco che doveva amare il povero per spirito cristiano, compassione borghese o convinzioni socialiste, ma l'istinto che lega i fanciulli nel gioco, nella birichinata, nell'affascinante avventura che la fantasia sa creare pure dentro una grigia stanza scolastica. Anche a chi sentiva come sacro dovere della patria rispettare la Massima Rappresentanza dell'Istituzione, cioè l'Insegnante, faceva tuttavia sommo piacere vedere che si poteva tentare di creare norme diverse da quelle imposte dalla Cattedra. I birichini, i ribelli, erano simpatici eroi d'un momento, ammirati ma non celebrati, contesi nelle "bande", non invitati però nelle case di chi non voleva far sfigurare il proprio bambino con le "cattive compagnie". Con la loro voce rauca, ti scimmiottavano se recitavi bene la poesia, si divertivano a spingerti nel gomito per farti fare sgorbi ed errori sul foglio del disegno o del quaderno di "bella copia".
L'ordine, la precisione erano una fissazione nella didattica dei nostri maestri, che poi mi hanno trasmessa e che mi è rimasta come abitudine di vita. Ma non tutti apprezzavano il lavoro scolastico così come era imposto. Le ribellioni erano piccole piccole. Gli scherzi che la severità poteva permettere, erano cose molto modeste, che tuttavia apparivano inconcepibili agli insegnanti, forse soltanto per effetto di quella finzione pirandelliana del "gioco delle parti" che è la vita. I maestri ci recitavano il loro ruolo di guardiani severi. Tifavano per chi osava non condividere tutte le regole della clausura scolastica? A scherzi e ribellioni, seguivano le regolari punizioni in nome della Norma e della Legge.
Il sistema aveva le sue basi ferree nel potere dell'insegnante, che veniva talora delegato momentaneamente ad un capoclasse, il quale però, nelle emergenze, doveva sempre vedersela con un altro superiore istituzionale, la Bidella. Quando il maestro si assentava per qualche minuto dall'aula, imponeva agli alunni: "Obbedite al capoclasse". (Perché parlo di Bidella, e non anche di Bidello? La guerra aveva fatto tante vedove: alle elementari, ho incontrato soltanto donne in questa funzione). I capiclasse erano di due tipi. C'erano quelli transitori e quelli permanenti. Per i transitori vigeva una regola di rotazione (quasi sempre settimanale), su base elettorale. I permanenti invece erano prescelti dall'insegnante, a suo insindacabile giudizio. Quali criteri venissero adottati, in tali occasioni, non si sa. Prevalevano metodi lombrosiani che, per quanto odiosi e superati, una loro certa validità debbono pur avercela, nonostante tutto, se chi appare ligèra nel suo aspetto, ligèra poi di fatto è. Madre natura ha fatto bene i suoi calcoli, fornendo a noi suoi figlioli prediletti una specie di targa, con la quale presentarci agli altri, facilitando loro il compito di riconoscerci, e a noi togliendo l'obbligo di dire tante parole, oltre ad una frase modesta come: "Guardatemi in viso, son tutto qui"?
Il capoclasse doveva avere, per soddisfare questa scelta, una faccia intelligente. E non so da che cosa si capisse allora l'intelligenza, se dalla pulizia delle persona o se dal modo con cui si costruivano sul quaderno i "pensieri" che erano obbligatori per tutti, come la bontà e la diligenza, specialmente nelle occasione delle feste, quando si dovevano scrivere le letterine ai "Cari GenitoriŠ". L'insegnante, con una specie di diritto d'origine divina come ai tempi dell'assolutismo, non solo delegava al capoclasse il potere dell'Istituzione di imporre la propria volontà agli altri; ma gli lasciava anche esercitare una sorta di sapienza sacra, consistente nella distinzione tra bene e male, quando si obbligava l'alunno incaricato della sorveglianza a dividere su due colonne, nella lavagna, i buoni dai cattivi. Erano i momenti in cui la recita della vita aveva gli effetti meno educativi e più esilaranti. O perché esilaranti, essi erano anche (e soprattutto) educativi?
I buoni gareggiavano con ipocrisia, senso della convenienza, egoismo e superbia nell'esercitare il proprio ruolo, per ricevere una ricompensa inesistente, forse il voto in condotta (morale e civica, come stava scritto sulle pagelle), un plauso che doveva essere l'immaginaria medaglia appuntata sul petto del meritevole. I cattivi erano tali non per predisposizione naturale. Nell'inevitabile contrasto dialettico che anima l'esistenza, davanti a tante mummie (che, se avessero potuto, avrebbero trattenuto il respiro fino a diventar cianotiche, perché così voleva la Norma), erano gli unici a dimostrare che la sofferenza del silenzio non valeva alcunché. Era meglio ridersela alla faccia di tutti, in primis del capoclasse, simbolo dell'Ordine, mentre notoriamente il mondo deriva dal Caos.
In quella divisione manichea tra buoni e cattivi, c'era il riflesso di vicende pubbliche e private. Chi sono i buoni della Storia? "Quelli che comandano, Signora Maestra, che si sacrificano per il Bene di tutti", poteva essere una risposta immaginaria, pensata oggi e considerata adatta a quei tempi. Ma quelli che comandano chi sono? "La gente comanda uno alla volta, e chi comanda ha sempre ragione, è sempre il più buono, il più giusto, il più bravo". Queste cose non le diceva nessuno, ma un dialogo così non era del tutto impossibile, in quei giorni nei quali il recente frastuono della guerra avrà pur suscitato nei maestri qualche ricordo meditativo, qualche riflessione pedagogica, facendogli forse domandare che cosa ci si aspettasse dal domani. Ma quei vecchi insegnanti, ne avevano probabilmente viste troppe per chiedersi qualcosa, ed allora si procedeva per inerzia. Come si era sempre fatto, così si poteva continuare: chi li obbligava a cambiare le regole del Gioco?
In seconda classe, il maestro Alessandro Feliciangeli, anche lui alla soglia della pensione, era un'alta figura severa, come la maestra della prima, che aveva sostituito: sembrava un fantasma. Si animava accendendo il sigaro, e poi combatteva gli effetti del fumo, succhiando le compresse di Formitrol, confezionate in un tubetto di latta verde. Mio padre mi aveva insegnato che quando ci si rivolgeva al maestro, bisognava dire: "Sissignore". Soltanto per questo motivo, fui fatto una volta capoclasse? Ma nel momento di scrivere alcuni nomi nella lista dei cattivi, qualche bastiano che era il doppio di me, con una semplice occhiata, mi convinse a lasciar perdere.

Sommario
1. Camicia nera della ricreazione
2. «Obbedite al Capoclasse!»
3. Ci curavano alla Molière
4. I piombi di Viserba
5. L'aquilone del nonno
6. A Montefiore Conca
7. Dettato all'americana
8. Alla «dottrina»
9. I temi della Cesira
10. Post-scriptum


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