ANTONIO MONTANARI
Aurelio Bertòla politico, presunto rivoluzionario.
Documenti inediti (1796-98)


[da "Studi Romagnoli" XLVIII (1997), Cesena 2000, pp. 549-585]

1. Un filosofo della Storia
Nato a Rimini nel 1753, Aurelio De’ Giorgi Bertòla è costretto dalle scarse fortune della famiglia a diventare monaco olivetano a quindici anni. Nel ’74 debutta sulla scena letteraria con la Notte in memoria di Clemente XIV, a cui faranno seguito nel ’76 Versi e Prose, un libretto erotico che gli dà fama duratura. Dal ’76 all’83 insegna Storia e Geografia all’Accademia navale di Napoli. Nell’84 ottiene la Cattedra di Storia Universale a Pavia. Nel ’95 rinnova il successo dell’attività poetica, con il Viaggio sul Reno, un diario dai toni romantici che affascina le nuove generazioni europee. Tra ’96 e ’98, anno della morte, l’invasione napoleonica lo mette duramente alla prova. Bertòla aveva creduto in un riformismo di stampo illuministico, considerato capace di garantire all’Europa un tranquillo progresso sociale ed economico.
Le sue idee politiche sono esposte nella Filosofia della Storia (1787), un’opera dalla complessa architettura e dallo stile contorto (1), la quale raccoglie il frutto dell’insegnamento svolto a Napoli ed a Pavia. Bertòla è consapevole che nella vita degli uomini e della Natura nulla è eterno ed incorruttibile. Tuttavia ritiene che i governi del suo tempo avrebbero potuto «lor forza e prosperità mantenere per un giro di secoli», grazie ad un’attività legislativa «che fa tutto derivar da un principio, che tutto dirige ad un fine». Si sarebbero così evitati sconvolgimenti che l’Europa non temeva più, perché le «rivoluzioni ordinarie» erano «più rare assai, gagliarde assai meno»" (2). La stessa visione ottimistica è presente in due manoscritti, anteriori alla Filosofia della Storia, cioè la Breve Introduzione dello studio della Storia, redatta a Napoli nell’81, ed il Ragionamento intitolato Disposizioni necessarie allo studio della Storia onde si fanno per essa eccellenti cittadini, composto a Pavia nell’86 (3).
Nella Breve Introduzione [p. 1], considera la Storia, come "maestra de’ più grandi uomini", e come "il più eccellente principio che possa darsi alla educazione" politica e morale dei popoli. La politica è "la sublime arte del governo" e "la maniera di condursi lodevolmente nella società, ciascuno secondo la propria condizione; sì riguardo al sovrano, come riguardo ai cittadini". Con la morale, "si intende la riforma del nostro cuore, l’acquisto dell’amore per la virtù, e dell’odio pe’ i vizj". L’educazione è tutto, commenta in una postilla: "Noi veggiamo inoltre nel quadro generale delle rivoluzioni del genere umano la prova evidente di questa verità, che tutte le Nazioni che hanno osservato le leggi dell’ordine, prosperano in una maniera particolare, e che periscono tosto che non ascoltando la voce della ragione universale, si abbandonano al disordine e all’ignoranza".
Nel Ragionamento [p. 28], dopo aver distinto una politica limpida e benefica che garantisce la "floridezza delle nazioni" da quella dei protagonisti "freddi egoisti, raggiratori" che non s’impegnano "pel bene degli uomini", Bertòla assicura che l’Europa non avrebbe più subito "catastrofi strepitose", mancando "le smoderate conquiste" che rovinano il mondo (4). La tempesta napoleonica lo obbligò forse a rimeditare questi temi, nel segreto del suo animo, per verificarne la validità in rapporto ai fatti accaduti. Non sappiamo se egli pensasse di poter adattare alla figura di Napoleone le parole usate a proposito di Tiberio: "Tacito, nell’atto che ci fa detestare l’anima di Tiberio, offre de’ talenti di questo principe un’idea così grande, egualmente che de’ raggiri, onde egli conduce la sua cupa e nera politica, che una specie di rispetto viene insensibilmente mescendosi nell’orror che ci viene ispirato" [Ragionamento, p. 8].
Il richiamo al mondo antico è tipico delle pagine storiche bertoliane, forse per la convinzione, espressa nel Ragionamento sulla scia ancora di Tacito, che il tempo "cangia successivamente il nome degli attori che compariscono sulla scena del mondo; ma i caratteri restano gli stessi". In un altro passo, seguendo Guicciardini, Bertòla critica però Machiavelli per la "soverchia facilità nell’applicare gli esempj particolari" tolti dal mondo romano. Ma subito, a proposito delle differenze "de’ caratteri fra gli antichi e moderni", ripropone i modelli che "formarono i più grand’uomini di Atene, di Sparta, di Roma!". [Ragionamento, pp. 26-30] In questi lavori, Bertòla è prigioniero di una sfera intessuta tutta di eruditi rimandi alla classicità, che gli impediscono di considerare la parte di Storia moderna che va dalla rivolta dei Paesi Bassi (1566-1581) sino alla Dichiarazione d’indipendenza (1776), passando attraverso le vicende inglesi con Cronwell (1642-45) e la "gloriosa e pacifica rivoluzione" (1688).
Non abbiamo incontrato documenti che dimostrino un Bertòla che, come Ugo Foscolo, credesse in Napoleone "liberatore". Dubitiamo che se ne possano rintracciare. Troppe sono le differenze tra il nostro poeta e l’autore dell’Ortis, a cominciare dall’età e dalla complessione fisica (non ancora ventenne, il riminese era scappato dal monastero per arruolarsi in Ungheria, ma subito si era ammalato, per cui era mestamente rientrato in patria, tra i confratelli). Certo è che, apparso Bonaparte sulla scena italiana, Bertòla si trovò invischiato in tali complesse trame che, da "filosofo della Storia", gli fu impossibile meditare a tavolino una strategia di opinioni e di comportamenti, probabilmente constatando che è inutile fare previsioni attraverso la lettura dei libri o con l’aiuto della filosofia; e che sopravvivere è un’arte da apprendere dalla vita pratica (uomini dotti o ignoranti, non fa differenza), davanti ad una sorte ignota la quale ci rende tutti eguali, non proprio nel senso che avevano inteso gli Illuministi.

2. La paura della "mendicità" (1795-96)
La campagna d’Italia inizia il 12 aprile 1796. Il 9 maggio è firmato l’armistizio con Parma, il 12 con Modena. L’avanguardia francese giunge a Milano il 14. Napoleone vi entra da trionfatore il giorno successivo. Tra 18 e 23 giugno Bonaparte occupa le Legazioni pontificie, e costringe la Santa Sede all’armistizio di Bologna, impegnandosi a sgombrare la Legazione di Ravenna di cui fa parte Rimini. Dopo la firma dell’armistizio, avvenuta il 23 giugno, il generale divisionale dell’Armata francese Pierre Augerau (braccio destro di Napoleone) scende in Romagna, mentre il Cardinal Legato, a cui era stato "fatto intendere di allontanarsi da Ravenna", si rifugia a Pesaro. Augerau, che a Forlì è accolto dalle sassate del "Popolo in fermento", convoca per lunedì 27 giugno a Ravenna un "Congresso provinciale", allo scopo di sapere dagli amministratori delle singole città "se volevano essere liberi o soggetti al Papa" (5).
Al "Congresso" partecipano due rappresentanti di ogni Comunità: da Rimini, racconta il cronista Zanotti (6), intervengono Marco Bonzetti, "buon cattolico, schietto, ed amato da tutti", ed il conte Nicola Martinelli, "soverchiamente politico, mondano, e generalmente malveduto". Martinelli era parente ed amico di Bertòla. I deputati romagnoli rispondono ad Augerau che, per evitare gli inconvenienti tipici di ogni cambiamento violento, "amavano di continuare a vivere sotto il governo" del Papa (7). Augerau ordina che la Romagna paghi alla Nazione francese, entro tre giorni, una contribuzione stabilita con "preciso riparto" tra le singole città. L’armata francese, ritiratasi verso Imola il 26 giugno, ridiscende il 28 su Forlì, Ravenna e Cesena, per una veloce rapina di "ciò che vi si trovò appartenente al Papa", per risalire infine sino a Bologna.
L’arrivo di Napoleone in Lombardia e le vicende militari in Emilia e Romagna, si succedono mentre Bertòla giace infermo nello splendido isolamento di San Lorenzo in Monte, sulle colline della città, in un "casino" che ha potuto acquistare il 20 marzo 1794, grazie all’aiuto economico della giovane contessa cesenate Orintia Romagnoli in Sacrati. Dalla primavera del 1793 Bertòla non siede più sulla Cattedra pavese, a causa delle precarie condizioni di salute. Nel ’93 aveva trascorso serenamente le consuete vacanze estive, prima di esser costretto a letto da una malattia che il suo primo biografo Pompilio Pozzetti definisce "gagliarda" (8). Era partito da Milano il 14 agosto, si era recato a Verona per incontrare Elisabetta Contarini Mosconi madre di una sua figlia naturale, Lauretta (9) ; ed il 10 settembre era andato a Venezia, dove aveva riabbracciato una nuova fiamma, Isabella Teotochi, moglie del nobile Marin. A novembre era tornato a Verona, diretto a Pavia, ma dal giorno 11 era stato costretto a letto. Il 16 [FPS, 63.186] aveva chiesto alla Conferenza Governativa di Milano il congedo da trascorrere a Rimini, allegando un certificato medico stilato dal dottor Leonardo Targa, in cui si parlava di reumi al petto. Al conte di Keunküller [ib.], aveva confidato di temere che, nel "misero stato" di salute in cui si trovava, presso molti si risvegliassero "idee poco favorevoli" al suo zelo di docente.
Da Milano Bertòla aveva ottenuto la licenza di andare "a respirare per qualche mese l’aria nativa". A dicembre si era così trasferito da Verona a Rimini. L’amico Ippolito Pindemonte [PL, p. 123, 4 dicembre 1793], gli aveva augurato di risanare presto, per tornare a ricevere a Venezia un certo "sorrisino". Ma per tutto il ’94 Bertòla non aveva potuto lasciare Rimini ed il "nido", così lo chiama lui stesso, di San Lorenzo. Nell’aprile ’95, ha temuto di essere affetto da un nuovo disturbo, "l’esistenza di un corpo estraneo nella vescica". Senza "fede ne’ chirurghi di questo paese [Rimini]", progettava di farsi visitare da quelli di Venezia. [FPS, 63.184] Una lettera di Pindemonte del 19 settembre ’95 [PL, p. 142] ci informa che Bertòla nell’estate ’95 si è effettivamente recato "a Venezia per consultare que’ Professori nel timore di patir di renella": non era quello il vero male che lo molestava, ironizza Pindemonte accennando sulla passione dell’amico verso Isabella Teotochi.
Tornato a Rimini, il 29 ottobre Bertòla ha chiesto alla Conferenza Governativa di Milano un’altra licenza a passar l’inverno lungi da Pavia, con un certificato del medico riminese Michele Rosa, il quale attestava che il poeta non avrebbe potuto applicarsi senza suo grave danno "e nemmeno affacciarsi a un clima più rigoroso" (10). Lo stesso giorno Bertòla aveva implorato "pietà" dal plenipotenziario imperiale, il conte Johann Joseph Wilczeck (11): "Son presso a vedermi nella mendicità". Per timore della giubilazione, già ordinata dalla Conferenza Governativa, aveva chiesto un impiego diverso dalla Cattedra, ed aveva ricordato che quanto percepiva non gli bastava "a vivere": "Oltre alla salute", aveva aggiunto, "potrei accennare altri titoli; i servizi in biblioteca (12) senza soldo, il servizio prestato con somma cura nelle Scuole Minori (13), e le diverse opere pubblicate ecc.". [FPS, 63.185]


3. Partenza da Rimini (21 ottobre 1796)
Nelle carte bertoliane c’è un silenzio che dal 29 ottobre ’95 giunge al 14 maggio ’96, data di un’altra lettera di Pindemonte [PL, p. 143], nella quale leggiamo che al riminese era stata tolta la pensione dell’Università. L’11 agosto Pindemonte, fa un enigmatico accenno: "Mi rallegro con voi per Vienna" [ib.]. L’11 ottobre 1796 Bertòla comincia a compilare la seconda parte di un Diario (14), della cui esistenza abbiamo dato notizia nel 1994, anticipandone alcune parti in un breve scritto (15). Oltre agli spostamenti di luogo ed alle spese sostenute, Bertòla nel Diario registra le lettere spedite, con il nome del destinatario e, quasi sempre, un brevissimo sunto di ogni epistola.
Sotto la doppia data del 14-15 ottobre, c’è l’annuncio ("mi scriva a Bologna"), dato ad un amico e collega pavese, l’olivetano padre Cesare Baldinotti, docente di Logica e Metafisica, di un viaggio che Bertòla compie la settimana successiva, partendo in diligenza da Rimini la sera di venerdì 21 ottobre 1796, e facendo tappa ad Imola. Il giorno seguente Bertòla raggiunge Bologna: si ammala subito, per cui è costretto a rimanervi fino al 2 dicembre. Bertòla lascia credere a molti dei suoi corrispondenti di aver abbandonato Rimini per recarsi a Pavia, allo scopo di ottenere nuovamente la pensione e di riscuoterne gli arretrati (16). La verità è un’altra. Nel Diario, sempre in riferimento a Baldinotti, il 1° novembre leggiamo: "non potea più restare in patria; né poi maneggiarmi: venuto qui per poi passare a Firenze a passare il verno: intanto adoperarsi per la pensione".
Nel progetto di Bertòla, Firenze (governata da Ferdinando III di Lorena, fratello dell’imperatore d’Austria Francesco II), era soltanto una tappa intermedia del suo peregrinare, da concludere a Vienna, dove era ben conosciuto e dove aveva soggiornato nel ’78 all’epoca della Nunziatura del riminese Giuseppe Garampi, grazie al cui intervento ebbe la Cattedra pavese (17). Di tale progetto, oltre che nella citata frase di Pindemonte ("Mi rallegro con voi per Vienna"), abbiamo conferma in una lettera del 25 agosto 1796 [FPS, 63.33] inviata a Bertòla da un corrispondente veneziano (dalla firma indecifrabile) che scrive da San Pietro d’Arzignano: "Perché mai a Vienna? parvi egli il momento, mio caro Amico, d’andar fra’ Tedeschi? L’impoverimento, la spopolazione, l’avvilimento, il malumore, il sospetto conseguente debbono render diabolico quel soggiorno! E poi quel climaccio freddo, umido, rattristante! O’ no; mi non abbandonerete l’Italia, che vi ama, che vi stima, che à una temperatura confacente alla debole vostra salute. E il vostro ritiro per la vecchiaja che diverrebb’egli se ci abbandonaste? Uno spinoso a capo di due anni. […] Credete a me; non v’allontanate che a discreta distanza dagli alberi che avete piantato".
Bertòla "non potea più restare in patria" a causa del clima politico creatosi all’interno dello Stato della Chiesa dopo l’armistizio del 23 giugno 1796. "La corte di Roma", secondo il cronista faentino don Saverio Tomba, "uditi i vantaggi degli Austriaci sul Reno conseguiti, e l’accrescimento delle forze imperiali verso l’Italia, che davano risoluti segni di voler recuperare gli Italiani possedimenti, cominciò a detestare gli umilianti articoli della tregua come nei giorni dello spavento li aveva prudentemente ricevuti" (18). In settembre il governo del Papa ha appreso di "un tradimento tramato dai francesi" ed ha rotto le trattative di pace in corso con Parigi a Firenze, cercando di "stabilire a Vienna un trattato di alleanza" (19). Napoleone minaccia: "Infelici Ravenna, Faenza, Rimini".
Il 4 ottobre il Pontefice ha chiamato a raccolta i sudditi "a difesa dei suoi Stati". L’8 il Senato di Bologna ha dichiarato che né la città né il suo territorio appartenevano più allo Stato ecclesiastico. Il 12 ottobre il Cardinal Gregorio Barnaba Chiaramonti (il futuro Pio VII) è fuggito da Imola "per timore di rimanere catturato nelle mani de’ Francesi". Il 14 cominciano a transitare per Rimini i dragoni pontifici diretti a Faenza. Il 16 ottobre per volontà di Napoleone si è riunito a Modena un Congresso con i rappresentanti di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, deliberando la fondazione della Confederazione Cispadana. Lo stesso Congresso il 17 ottobre ha emanato l’invito ai popoli della Romagna di unirsi ai Liberatori e di aderire alla Confederazione. Esaltando il governo della Chiesa come ispirato alla libertà, i papalini rispondono: "Noi ambiamo il suffragio vostro: noi dispregiamo quello dei vostri Oppressori".
Il 18 ottobre a Rimini è pervenuta la notificazione pontificia spedita il 3 ottobre a tutti i governatori delle province per una nuova difesa dello Stato della Chiesa. Lo stesso 18, mentre a Bologna veniva piantato l’Albero della Libertà e s’incendiava una caserma dei birri, Pio VI "per li nuovi sospetti o minacce dell’armi francesi allo Stato Pontificio", ordinava "guerra difensiva ai suoi sudditi". Da Forlì il 16 era cominciata in tutta la Romagna la cattura dei giacobini, trasferiti il 18 a Rimini e di lì nel forte di San Leo il giorno successivo. La repressione colpisce intellettuali, professionisti e parecchi nobili che avevano visto nell’arrivo dei francesi un "tramite, magari doloroso, verso la formazione di una diversa classe dirigente finalmente laica ed estranea alle commistioni fra il temporale e lo spirituale" (20).
Anche l’"illuminato" Bertòla correva il rischio di essere incarcerato, nella caccia ai sostenitori del partito oltremontano. È in questo scenario che egli tenta di "passare il verno" a Firenze, per stare lontano dalla Romagna e dalla Lombardia. Si profilava la ripresa della lotta tra Stato della Chiesa e Repubblica francese, e il precipitare della situazione politico-militare avrebbe potuto comportare per lui gravi conseguenze. Ma il destino ha voluto che la malattia lo bloccasse il 22 ottobre in quella Bologna che dal 16 dello stesso mese faceva parte della Cispadana.

4. La malattia a Bologna (novembre 1796)
Il periodo trascorso da Bertòla a Bologna è dominato da un’inquietudine fatta di incertezze sul presente e di paure per il domani. Le relative pagine del Diario ci restituiscono, nell’apparente, contraddittoria successione di notizie, il variare degli stati d’animo del poeta: ne presentiamo una scelta delle più importanti, riducendo al minimo ogni artifizio narrativo.
Alla Sacrati il 2 novembre scrive: "che mi procuri il sussidio; e torno al nido [San Lorenzo]; ma nell’incertezza m’espongo alla mendicità". A Nicola Martinelli (il 5): "che il mio più o meno restar qui [a Bologna], dipende dalle lettere di Lombardia; che in ogni modo non ci rivedremo durante il verno" a Rimini. Ad altro corrispondente (dal nome illeggibile) lo stesso giorno precisa: "le lettere di Milano mi obbligano a partire subito", verso Pavia. Sotto la triplice data del 6, 7 ed 8 novembre conferma: "Sono avvisato che per aver la pensione bisogna che io vada" (a Fortunata Sulgher); "parto per Pavia" (ai veneziani Zacco e Storti); ed al fido Baldinotti: "parto fra 3 o 4 dì: le sue ragioni soprattutto mi fan coraggio di andare; per lui se non è certo d’esser tranquillo non vada". Il 9 a diversi corrispondenti garantisce di partire per Pavia sabato 12. Però non si muove, come scrive a Martinelli, "per saper de’ mercanti di Livorno". Con il milanese Ridolfi invece dice di stare ad aspettare le trecento lire di arretrati richieste al medico Dell’U, "Rappresentante presso l’Amministrazione generale della Lombardia", e necessarie per "pagar la locanda e fare viaggio".
Il testo della lettera al dottor Dell’U reca: "Io sono qui ormai da tre settimane malato, poi convalescente in una locanda, senza conoscenze, non che senza amici. La somma destinata a fare il viaggio mal basta alle enormi spese qui occorsemi. Scrissi a Milano e a Pavia perché mi fosse prontamente procurato qui il sussidio di sole 300 lire degli arretrati, né veggo questo sussidio; né so da qual parte volgermi. […] La mia situazione è la più disgraziata che dar si possa. Beneficate l’uomo, se l’uomo di lettere non vi par degno in questo caso" (21).
Nel Diario sotto il 15 novembre troviamo: (a Baldinotti), "che sono ancor qui per ragioni che dirò poi; […] che all’Amministrazione generale [della Lombardia] ho chiesto 300 lire pel viaggio": nessuno finora ha risposto "fuor che Ridolfi" ; per il 16 (a Nicola Martinelli): "non posso tornare alla residenza [Pavia]: dirò poi le ragioni: […] o tornare a casa, o a Venezia". Ad altra persona, lo stesso 16, specifica che non si è mosso "per tosse e per aspettar denaro", ed il 19: "che non vo più in Lombardia". Il 22 a Baldinotti: "se ricevo sabato i denari ch’è segno di accettazione, parto, se no domenica a Rimini. Mando intanto attestati de’ medici di dover durante il verno trovarmi in clima dolce […]: ajuti avuti qui da due amici" (22). Il 23 novembre scrive a Nicola Martinelli: "che farò qualche modificazione a ciò che consiglia, a vista delle mie circostanze […]. Ritenga le mie lettere fino a mio avviso, che intanto mi si procuri l’ingresso in Venezia: ch’è difficilissimo: strade malsicure tra Rovigo e Padova. Ma io non posso affrettare di alcuna cosa; ed ho tempo di aspettare la buona occasione". Lo stesso giorno ad altra persona (23): "che le mie circostanze mi richiamano a Rimini, ove forse passerò il verno".
Il 25 novembre il dottor Dell’U, in maniera ufficiale, informa Bertòla che l’Amministrazione generale della Lombardia ha decretato in suo favore il pagamento, da parte della Cassa di pubblica Istruzione, delle cifra richiesta di trecento lire. [FPS, 63.1] I soldi non arrivano a Bertòla prima della sua partenza da Bologna: in calce alle pagine di novembre del Diario, troviamo infatti annotato un debito con il locandiere Babbi di 60 scudi e 40 bajocchi (24). Il 26 novembre Bertòla chiede all’Ateneo pavese un congedo di tre mesi: "se il mio non soddisfare durante un tal tempo ai doveri della mia cattedra non mi può far degno di percepire emolumento alcuno, io sarò contento della mia povertà, sol che mi sia conservato l’onore di appartenere a una Università così illustre, di cui sono membro da tredici anni" (25). Lo stesso giorno Bertòla spedisce all’Amministrazione generale della Lombardia il "certificato di Martinelli", che ipotizziamo essere una raccomandazione a garanzia di fedeltà agli ideali rivoluzionari.
Il congedo richiesto viene subito concesso a Bertòla che il 29 novembre comunica a Zacco [Diario]: "proroga di tre mesi da Pavia". L’Università di Pavia ha riaperto i suoi battenti da poco: "Si è detto che dovesse subire delle Riforme, e correzioni sia nel metodo e qualità degli studi, come di alcuni Professori, ma finora non è a mia notizia che siasi innovato nulla, né che sia stato escluso veruno", ha scritto a Bertòla da Milano il 15 novembre Angelo De Vecchi, riferendo semplici "dicerie", ed accennando ad ipotesi di epurazione tra i docenti compromessi con il passato governo. [FPS, 62.218] Bertòla gli ha risposto il 22, chiedendo i suoi buoni "uffizj" per la pratica della pensione.
Sempre nel Diario del 22 novembre è elencata una lettera a Zacco. Bertòla deve riscuotere a Venezia un credito di trecento fiorini: "ho incaricato diversi: si minaccia lite: senza la mia presenza non li posso avere. Mio bisogno dei medesimi. Da Rimini, dove i medici voglion ch’io passi il verno, meglio di qui andrò a Venezia: mi procuri la licenza per pochi dì: sia egli mallevadore". Zacco [FPS, 62.260] si adopera invano per fargli ottenere la "desiderata permissione", cioè un passaporto come "commerziante".

5. Ritorno a San Lorenzo (3 dicembre 1796)
Il 17 dicembre il tipografo e libraio veneziano Giacomo Storti [FPS, 62.164], rimprovererà Bertòla ormai ritornato a Rimini: "Ella non ha accettato il suggerimento del Zacco che era ottimissimo cioè allora quando si trovava a Bologna di passar a Padova, egli veniva allora a prenderla, ed in compagnia sua ella passava come veneziano" (26). A Padova, ha scritto Zacco a Bertòla il 3 dicembre [FPS, 62.261], c’era l’armata austriaca. Il debito da riscuotere (da tale signor Waxentropp), sarebbe stato per Bertòla un comodo alibi con cui presentarsi agli amici della Repubblica di Venezia (ancora neutrale), senza rivelare le vere intenzioni della sua trasferta, cioè prendere contatto con Vienna. Bertòla aveva deciso diversamente: la ricordata parte del Diario del 22 novembre dedicata a Zacco, termina con queste parole: "mi scriva a Rimini". Qui Bertòla fa ritorno la sera del 3 dicembre ("Legno fino a Rimini in tutto 60 [scudi]"), recandosi "in villa" nella "solitudine consueta" di San Lorenzo dopo un "tristo viaggio" (27).
Nel Diario appare quasi subito (8 dicembre) il nome di Roma, come meta di un viaggio imminente. Ed il 9, a proposito di Zacco, riaffiora il progetto veneziano: "che spero ancora nel permesso". Il 28 dicembre a Baldinotti: "Forse a Roma donde mi si fa sperar soccorso". Gli unici viaggi che adesso Bertòla può compiere, sono quelli da San Lorenzo a Rimini: scende in città mercoledì 21 in portantina, e vi torna "di pié fermo" due giorni dopo. Tra 24 e 26 dicembre il Diario consta soltanto di note di spese: un frontino dal parrucchiere, mancia allo stesso, soldi alle donne di casa Maria e Marianna, e trenta scudi alla famiglia Martinelli.
L’ultimo giorno dell’anno, Bertòla lo dedica alla stesura di una lettera al Cardinal Legato, che ci è giunta integralmente nella minuta [FGM]. È il ringraziamento ad "un così umano e caldo protettore delle lettere e di chi le coltiva", per la benignità accordatagli e concretatasi in prove definite generose. Ricordando poi di aver scritto della grandezza del Legato al conte Nicola Martinelli, Bertòla pare accennare discretamente all’amico riminese come ad un intermediario adopratosi in suo favore.
Mentre formula questa lettera così ossequiosa, Bertòla ha presenti le obiezioni di Orintia Sacrati circa il suo allontanamento da Rimini, così come non può dimenticare i suggerimenti ricevuti dall’amica cesenate per le scelte future. Di tutto ciò abbiamo abbondante materiale nel Diario. Il 13 novembre si legge: "Su le ragioni del mio partire: nessuno può accusarmi d’aver mancato né qual cattolico né qual suddito. Dunque son tranquillo. Non so quel che farò. Se può mi giovi; resterò qui [a Bologna] ancora; dica e mediterò". Ed il 16: "Se vuole, tornerò nel Ritiro; mi ajuti".
Infine il 28 c’è un lungo passo che inizia con il riassunto di una lettera della stessa Sacrati, "che contiene: "Di tornare al casino; che bisogna dar prova di sentimenti, né basta averli: che pigli i cento scudi e di ricorrere a Vienna per mezzo di M[onsigno]r Albani, cui scriverà essa"". Bertòla riporta di seguito la risposta alla Sacrati: a Pavia, su trentadue docenti, ne sono tornati venti, anche lui dovrebbe presentarsi; "per Vienna è vano; avendo io tentato: fino alla pace non si vuol dar nulla agli impiegati: ma e della pensione a cui ho diritto ora ancor più di prima? Per pietà me la ottenga. Sono senza un soldo. […] Quella piccola pensione mi basterà fino a miglior sorte".
Il rientro di Bertòla nel nido di San Lorenzo è avvenuto per le premure della contessina cesenate che seguiva il poeta con una pietà filiale, succeduta all’invaghimento tipico in tutte le donne che lo hanno avvicinato (28). Orintia gli ha suggerito di spiegare che il motivo della "gita" a Bologna, era stato per "consultar Martinelli". Bertòla accetta il consiglio come se fosse un ordine, e lo stesso 28 novembre conferma alla Sacrati: "Intanto dica essa e dirò io che venni qua [a Bologna] per consultar Martinelli".
Del "politico, mondano" Nicola Martinelli, "generalmente malveduto" e "prototipo del Partito Rivoluzionario" riminese, Zanotti dice anche che era "abilissimo e di fina politica". Martinelli in effetti si rivela un sottile mediatore: contemporaneamente riesce a trovare ascolto presso il Cardinal Legato, a mantenere contatti con i francesi a Milano (vedi il "certificato" per Bertòla), ed a viaggiare in tranquillità fra la Romagna papalina e la Cispadana. Durante la caccia ai giacobini è rimasto a Rimini, con il merito d’esser andato da Augerau a dichiarare che i suoi concittadini "amavano di continuare a vivere sotto il governo" romano. Rispettato dai reazionari pontifici, riesce ad avere rapporti con i nemici ufficiali, quei francesi con i quali successivamente collaborerà, ricevendone in cambio alta stima. È un diplomatico segreto, più gradito che tollerato, attraverso il quale gli amministratori di Rimini riescono ad avere notizie di prima mano, preziose in vista di cambiamenti che si preannunciavano traumatici: si temeva l’arrivo delle truppe napoleoniche non meno della condotta del governo pontificio.
Bertòla, illudendosi che la caccia ai giacobini fosse terminata, è ritornato nello Stato della Chiesa con la fiducia di trovarsi in un ambiente politicamente sereno. Ha preferito seguire i pareri di un’aristocratica legata al potere temporale, piuttosto che avventurarsi nei territori sottoposti al dominio napoleonico. Anziché la calma di cui abbisognava la sua salute, a Rimini trova invece altri guai.

6. In fuga a Roma (15 gennaio 1797)
Il Diario del gennaio 1797 s’interrompe sotto la data di domenica 15 quando Bertòla, sono parole sue a Mascheroni, esce da Rimini al fine di sottrarsi "all’imminente pericolo di esser arrestato e condotto in assai miser luogo, come uomo di opinioni infette e perverse" (29): fatto oggetto di "una persecuzione del Governo Romano verso la metà di Gennaio passai a Roma: arguite come io fossi sicuro della mia innocenza", scriverà a Pindemonte (30). Il biografo Pozzetti [p. 12] narra che Bertòla "in un col gen. Colli a Roma s’incamminò".
Michele Colli era giunto a Rimini all’alba del 13 gennaio, proveniente da Ancona ed accompagnato da "ufficiali tutti al servizio al Papa" (31). Era andato a Faenza e ritornato la sera del 15 a Rimini, dove partecipa ad una festa in teatro prima di avviarsi per Roma. Zanotti racconta che Colli era stato dall’imperatore d’Austria "accordato alle tante istanze del S. Padre", per fargli assumere il comando delle truppe pontificie. Colli aveva servito anche il re di Sardegna. Circa il viaggio di Colli in Romagna, Zanotti osserva: "Non dié questo generale veruna bellica disposizione in momento tanto importante. La sua visita si valutò una comparsa vana ed inutile".
A Roma Bertòla si ferma un mese. Con Mascheroni, subito dopo l’accenno "all’imminente pericolo di essere arrestato", aggiunge: "E poiché una crudele persecuzione aveva menato un nuovo colpo alla meschina mia salute, deliberai di andare a passare il resto dell’invernata a Napoli" (32). Dai documenti non riusciamo a sapere se questa "crudele persecuzione" sia successiva all’episodio riminese della "persecuzione del Governo Romano" ricordata con Pindemonte, o se debba identificarsi con esso (33).
Appreso da Ridolfi che Milano gli ha pagato ottocento lire, Bertòla cambia programma: rinuncia a Napoli e va in Toscana, dividendo "due mesi fra Siena e Firenze", dove riabbraccia "tanti amici non più veduti da 22 anni addietro"; infine, sofferente di aneurisma, torna in villa a San Lorenzo "sul finire di aprile". [PL, p. 155]
Dall’aggiunta al Diario, relativamente al periodo 6-10 marzo 1797 [FPS 63.50], si ricavano le solite incertezze sulla destinazione del viaggio: Bertòla si trova a Siena, e non sa se dopo Firenze e Bologna andrà a Pavia o a Rimini. Negli stessi giorni perviene a Bertòla da Milano, spedita l’8 marzo da De Vecchi [FPS, 60.371] a nome di Ridolfi, una cambialetta di duecento lire, pari a 173,183 lire fiorentine: "cambio assai caro, ma le circostanze non accordano meglio". "Lo stato di guerra in cui più o meno trovasi l’Italia", prosegue De Vecchi, "produce un’indispensabile incaglio nel corso delle lettere". Da Roma, sempre l’11 febbraio, Bertòla ha spiegato a Mascheroni che lì non giungevano notizie dai territori pontifici e dagli Stati italiani: "Pregovi di dirmi come siami stata accordata la proroga e per quanti mesi, e quali uffizj io debba ancor fare: anzi vi pregherò ancora di fare per me questi uffizj subito, se li credete importanti. Per pietà, non mi abbandonate".
Una lettera senza firma e senza luogo, datata 17 marzo [FPS, 63.42] informa Bertòla: "Il Corriere di Francia proveniente da Roma giunto qui ieri mi recò la risposta del noto Amico. Esso mi rimanda la di lei memoria, che ella troverà qui acclusa unitamente all’articolo della di lui lettera, che ne adduce il motivo. Poco io posso in questo, o in altri oggetti […]". Anche questa "memoria" aveva forse per oggetto la sua situazione a Pavia.
Nell’epistola che De Vecchi invia il 19 marzo a Bertòla [FPS, 60.372] incontriamo una frase ("Nuove del tutto mi riescono le vostre strane vicende"), che lascia intravedere come il comportamento del poeta riminese venisse considerato poco entusiasta se non ambiguo, da parte di chi era vicino al potere napoleonico. Nella stessa missiva, De Vecchi aggiunge che la "cambialetta" gli era stata inviata per ordine di Ridolfi il quale non "accennò punto il motivo del vostro viaggio" (a Firenze): "Trovo savio il partito di non inoltrarvi verso Pavia" fino alla buona stagione; "non mancherò intanto di farvi sapere nel modo che potrò la situazione vostra, ma sarebbe più regolare e cauto lo faceste direttamente per via di Ridolfi e per il canale uficiale del Rettor Magnifico; credo certissimo che una tal misura di confidenza otterrà l’intento, e se vi uniste l’appoggio di cotesto Ministro della Repubblica Francese, sarebbe un nuovo legale attestato non essere difetto di buona volontà, ma delle disgrazie che vi han perseguitato doppiamente". Il 4 aprile Bertòla scrive al Rettor Magnifico, Rasori [63.177]: "Imploro la vostra mediazione, perché la mia assenza non paja quello che non è; e perché non mi sia ascritto a colpa ciò ch’à volere della propria fortuna".
Il 20 maggio [FPS, 60.373] De Vecchi rassicura Bertòla: "vi è in voi il titolo della buona fede, appoggiato dall’acquiescenza del Governo, né vi è per questo lato da temere atti arbitrarj, ed improvvisi contro il tenore delle leggi vigenti, e delle regole di giustizia". De Vecchi ipotizza che si proceda a riformare la pianta dell’Istruzione Nazionale, in seguito ai mutamenti costituzionali repubblicani in atto: dopo le riunioni modenesi del Congresso cispadano concluse il 1° marzo, Napoleone ha infatti deciso di fondare la Cisalpina che, come si è visto, nascerà ufficialmente il 29 giugno.
Bertòla soggiorna a Firenze dal 15 marzo [FPS, 63.148] al 22 aprile. Il foglio volante del Diario (1° aprile-11 maggio), ce lo mostra dapprima "incerto ancora" sul suo destino e sopra i propri "affari", anche perché "le strade di Romagna infestate" non lo invogliano a muoversi. Ed introduce una novità rispetto alle annotazioni senesi. Bertòla ha scelto: "andrò poi a Rimini. Miseria e guai d’ogni sorte" lo costringono ad avviarsi in patria, con la volontà però di ritornare "entro il maggio" a Firenze. L’11 aprile chiede a Nicola Martinelli se può "per qualche dì andare a casa sua, e se son sicure le strade". Da Rimini, il 18 Martinelli [FPS, 61.17] gli risponde: "Vieni presto, e vieni in casa mia. Dormirai nella piccola biblioteca, e mangerai col Generale Comandante della provincia [Sahuguet]. Domani parto per Forlì, dove mette sede la Centrale, che sloggia da Ravenna. Io vado a rinunciare il mio impiego di Municipale, perché la fatica e il malino hanno pregiudicata la mia salute (34). Vieni, che mi sei necessario, perché il malino divien serio". Il 4 febbraio Napoleone ha creato l’Amministrazione Centrale della Legazione di Romagna (35), stabilendola a Ravenna: di essa fanno parte nove persone, tra cui lo stesso Nicola Martinelli. Il 21 aprile la sede dell’Amministrazione Centrale è trasferita a Forlì (36).
Nel Diario fiorentino il 18 aprile Bertòla appunta circa una lettera a Mascheroni, relativa alla sua posizione universitaria: "con l’attestato di Frank che solo ho creduto migliore perché noto in Lombardia" (37); "che non avendo qui più come vivere, torno a Rimini, dove avrò qualche soccorso da’ parenti". Il 22 aprile Bertòla parte da Firenze. A Bologna soggiorna il 23 ed il 24. Il 25 giunge a Forlì. Il 26 è a Rimini: si ferma "in città", malato ma tranquillo, "presso l’amico" Martinelli. La Romagna è in mano delle truppe napoleoniche da quasi tre mesi.

7. L’invasione francese ed il caso Martinelli
Il 1° febbraio 1797 Bonaparte ha emesso da Bologna un editto con cui dichiarava rotto l’armistizio del 23 giugno 1796: all’articolo quattro, si ricordava che il Papa aveva ordito trattati con Vienna, ed aveva posto le sue truppe sotto il comando di generali ed ufficiali venuti dall’Austria. Tra loro, c’era quel Colli con cui Bertòla era fuggito a Roma. Il 12 gennaio alla Mesola i francesi avevano intercettato un corriere diretto a Venezia con missiva del Segretario di Stato Cardinal Busca, indirizzata al Prelato Albani inviato del Papa a Vienna. Nella lettera si parlava dei negoziati per concludere un’alleanza, della condotta dello stesso generale Colli e di "bande" austriache da far giungere in Romagna (38).
Mentre Mantova si arrendeva ai francesi il 2 febbraio, Napoleone riprendeva le ostilità contro lo Stato della Chiesa. Le operazioni militari di Bonaparte travolgono le truppe pontificie, come testimonia lo stesso Colli [FPS, 63.35] in questo breve messaggio a Bertòla, datato 10 febbraio 1797: "Che fatali circostanze l’esser generale d’un’armata che fugge, d’un paese che non vuol difendersi, ed esservi chiamato per essere testimone di tanta calamità senza potere di salvare questo buon Pontefice, ed i buoni" (39). Colli si trovava nei pressi di Foligno. Il 19 febbraio, con la pace di Tolentino, il Papa ha dovuto cedere la Legazione di Romagna.
Il 3 febbraio, all’indomani dell’attacco francese a Faenza e dopo la fuga da Rimini a San Marino del Vescovo Ferretti (40) e del Governatore, e mentre le "più distinte e doviziose famiglie […] si trasferiscono nei loro beni in villa", Martinelli si è attivato per far assumere dal civico Consiglio i provvedimenti necessari a non lasciare la città in balìa di se stessa e per prevenire (come racconta Zanotti) danni e disordini dell’invasione. Avvenuta il 4 febbraio l’occupazione di Rimini, Martinelli nella sua veste di presidente della Municipalità difende gli interessi della città: il 4 aprile non cede alle pesanti richieste economiche del generale Victor Perin che si rifarà della sconfitta saccheggiando la vicina Santarcangelo. A Martinelli, che da un trentennio era tra le figure di spicco della vita pubblica locale, vanno lodi e ringraziamenti per aver coraggiosamente salvato le sostanze dei suoi concittadini.
Diversa è la reazione della Giunta di Difesa della Cispadana che lo accusa con un velenoso pamphlet di essere sempre stato uno sfrontato doppiogiochista. Dopo i "felici successi delle Truppe Francesi contro gl’Insorgenti Montanari" il 26 marzo, Martinelli ha polemizzato: fu soltanto "l’affare di mezz’ora" l’attacco a Santarcangelo contro un’"orda di banditi", la cui azione, "ultimo sforzo della Romana debolezza", "non merita l’onore della nostra paura". La Giunta gli risponde: "voi antico Calunniatore del Governo [romano], e deciso fautore di tutte le novità", siete stato sempre protetto e favorito; "quando tutta la Romagna sapeva, che voi eravate alla testa di tutti i complotti, adunanze, conventicole contro il Principato; quando i Superiori n’erano informati; quando il popolo, perfino le Donnicciuole vi mostravano a dito, come il nemico del Governo Pontificio; voi pacificamente ve ne stavate in casa sicuro del fatto vostro: in tempi di pericolo, e di qualche energia del Governo contro i Novatori voi trovaste il modo di salvarvi ad onta delle declamazioni, che facevate fare dai Neofiti vostri".
Con segreti maneggi ed opportune raccomandazioni mentre dirigeva "operazioni arcane", Martinelli ha evitato "processi ben meritati". Egli è stato il maggior nemico del Principato, un seduttore del Popolo, un segreto macchinatore di novità nel Governo: "I Superiori della Provincia lo sapevano, lo vedevano, lo toccavano con mano: ognuno si meravigliava, che voi respiraste impunemente l’aria della vostra patria da voi corrotta e nella massima e nel costume: nei giorni, che vi accovacciavate per timore di essere scoperto, e per avere ozio sicuro ad oggetto di deludere l’altrui vigilanza, come nei giorni, che persuaso della vicina vostra risurrezione radunavate il vostro consiglio, e presiedevate alla Loggia rustica".
"Facilissima cosa", prosegue la requisitoria della Giunta, "sarebbe tessere il catalogo dei vostri associati risparmiati tutti dalla clemenza di Roma", elencare "i viaggi dei vostri Confidenti, gli odj cangiati in istretta amicizia per ordire la trama, e le finte relazioni con soggetti di tutt’altro sistema ad oggetto di tenervi mascherato". Il Governo romano era bene informato sulle mosse di Martinelli: "si conosceva, e si confessava, che voi eravate il Suddito più pericoloso, e di carattere più proditorio; e contuttociò vi si lasciò tutto l’agio di condurre a fine la macchina, che maneggiavate con tanta destrezza, ed attività". A Rimini Martinelli aveva organizzata la Municipalità con gente "ottusa, e nata nell’aria di Beozia" (41).
Se la politica è l’arte del possibile, Martinelli ne è un esemplare tanto perfetto da riuscire a primeggiare comunque, nonostante sospetti ed accuse: nello stesso ’97 diventa presidente dell’Amministrazione Centrale romagnola, e Seniore del Dipartimento del Rubicone nella Cisalpina, oltre che candidato alla prestigiosa carica di ambasciatore presso la Corte di Vienna (42). Ricacciati i francesi nel ’99 dagli austro-russi, gli Amministratori riminesi stilano un riservato riconoscimento dell’attività di Martinelli allorquando da Milano la Commissione generale di Polizia richiede "un’esatta informazione" sulla sua condotta dopo l’invasione e l’occupazione da parte di soldati di Napoleone. La risposta sottolinea che tale condotta "lontana dall’aver ispirato cattiva opinione di se stesso è stata piuttosto riconosciuta plausibile in rapporto all’interesse, che indefessamente in sì terribile occasione ha adoprato per migliorare la funesta sorte della stessa sua Patria invasa dal Nemico, come altresì per lo zelo, ed impegno dal medesimo addimostrati per conservare il buon ordine, e la pubblica tranquillità, essendovi in ambidue gli oggetti riuscito per quanto lo portavano le in allora luttuose circostanze" (43). Non per nulla, alla sua scomparsa nel 1805 a 63 anni, si meriterà questo elogio da parte del cronista Giangi: "È morto il conte Nicola Martinelli, l’uomo più bravo in politica che avevamo".

8. Il "cittadino" Bertòla a Rimini (26 aprile 1797)
Al ritorno in patria, Bertòla non è più un "nobil uomo" come tutti lo avevano chiamato sino ad allora nelle lettere, bensì un comune "cittadino", secondo i costumi importati ed imposti dai napoleonici. Anche per lui viene l’ora di infranciosarsi. Quanta cum voluntate possiamo intuirlo dalle lettere e dai diari, da noi citati con un’abbondanza rivolta a dimostrare che non risponde al vero quanto autorevolmente affermato (44) circa la scarsità di documenti sugli ultimi anni della sua vita.
L’accettazione dell’ideologia imposta dal potere delle armi, è in Bertòla frutto non di libera scelta ma di avverse circostanze, determinate dai gravi motivi economici da lui stesso descritti. Troppo acuto nelle sue analisi è il poeta riminese, per non sapere che lo "spirito illuminato del secolo" (45) di cui Amaduzzi gli aveva parlato dalle proprie lettere ed opere, era altra cosa rispetto agli umori rivoluzionari diffusi attraverso la conquista militare. Per questo motivo, l’iniziale riformismo bertoliano non va considerato quale fase di partenza di un lineare processo di sviluppo politico approdato all’inevitabile adesione giacobina. Né dobbiamo considerare attività ed impegni politici di Bertòla tra ’96 e ’98 come segno di una partecipazione convinta alla causa dei francesi. Anche per lui valgono le parole usate da Piero Bargellini (46) a proposito dell’"infame carnefice di Apollo" (47) Vincenzo Monti il quale il 3 marzo 1797, con sicurezza ed intenzioni diverse da quelle di Bertòla, s’era allontanato da Roma per correre verso l’abbraccio della Milano napoleonica: "I tempi erano così duri, che poteva essere, se non scusato, compatito" per le sue ambiguità e contraddizioni: "Brutta consigliera la paura!".
Il Bertòla che lavorerà per la rivoluzione non è né un capopopolo né un ideologo di professione, come invece talora lo raccontano (48). È soltanto un poeta costretto a bussare a soldi. Vorrebbe vivere inosservato nel suo buen retiro collinare, invece il bisogno lo trascina sulla scena politica. Per la fama del suo nome, deve recitare un ruolo da protagonista. La sua voce è stanca, e la mente preoccupata da mille cose: i ricordi della "persecuzione" papalina, i conti che non tornano, i soliti debiti da saldare, i denari da riscuotere, e soprattutto la necessità di costituire un piccolo capitale con cui garantirsi per quella vecchiaia che non verrà.
L’entusiasmo che traspare da certe sue carte, è fatto unicamente di cortesie e di obblighi convenzionali per grazie ricevute. Amaduzzi gli aveva scritto nel 1780 [FPS, 8.342]: "Voi avete comune con Orazio l’eccellenza della lirica poesia e l’eccezione del levior cortice ["uomo leggero e vano"], che gli dava la stessa sua bella". Potremmo aggiungere che un altro tratto accomuna Bertòla al grande autore latino: anche Bertòla cercava una "chiusura protettiva dello spazio", quell’angulus che lo salvasse dal "trauma del mutamento e dell’ignoto" (49). E proprio nel momento in cui instabilità politica ed economica sembrano travolgerlo, Bertòla avverte con maggiore intensità questo desiderio di un rifugio tranquillo.
A Ridolfi in marzo Bertòla aveva scritto da Siena [FPS 63.50]: "Il Gen. Bonaparte sa le mie vicende". Ad informarlo è stato forse Mascheroni, intimo di Bertòla e "consigliere" di Napoleone, secondo una definizione di Strocchi [FPS, 471.62]. Gli aiuti che Bertòla riceverà dall’autorità politica sono frutto, oltre che dell’interessamento di amici riminesi e romagnoli, di una protezione che premiava meriti passati e contingenze presenti, ma non subordinazioni ideologiche. Tutti i potenti vogliono essere magnanimi. Così i francesi lo furono con Bertòla.
 
9. Il "Piano dell’educazione letteraria" (maggio 1797)
Il 3 maggio 1797 il deputato dell’Amministrazione Centrale romagnola, Gian Maria Belmonti Stivivi, un nobile riminese conosciuto come gran fautore dei francesi, prima di partire "per una spedizione importante presso Bonaparte" (che aveva ospitato in casa propria al suo arrivo a Rimini nella notte tra 6 e 7 febbraio), scrive da Forlì a Bertòla: "Se voi non potete servir la Repubblica col braccio potete farlo, ed anche meglio, colla penna" [FPS, 63.2]. È l’annuncio dell’incarico che il 6 maggio [FPS, 63.3] l’Amministrazione Centrale affida a Bertòla per "concorrere a formare un Piano dell’educazione letteraria per questa nostra Provincia", attribuendogli la direzione dell’apposito Comitato i cui altri componenti sono Michele Rosa e Dionigi Strocchi, molto legati al poeta riminese. Il decreto dell’Amministrazione Centrale spiega che "la prima base d’ogni Governo libero e rettamente costituito si fonda principalmente sull’educazione morale degli uomini", raggiungibile attraverso la "più estesa comunicazione dei lumi, di retti principi, di sagge massime" che rendono più facile l’esercizio dei doveri i quali mantengono "la vera eguaglianza fra gli uomini", e sono "il più saldo appoggio d’una bene ordinata Repubblica". Nel Diario troviamo elencata la risposta di accettazione di Bertòla sotto il 9 maggio. Lo stesso giorno, informando Ridolfi di stare peggio, gli fa osservare: "non può negarmi gli alimenti"; ed invia a De Vecchi a Milano un attestato del generale Sahuguet, sottolineando: "Miseria". L’11 maggio Bertòla è costretto a vendere un "cameo", ricavandone nove scudi d’oro. È l’ultima, simbolica annotazione che chiude il Diario.
Il 29 giugno nasce la Repubblica Cisalpina. L’Amministrazione Centrale romagnola inizia trattative con Milano, che preludono ad un suo scioglimento e che suggeriscono di non impegnarsi in progetti di riforme irrealizzabili come quello affidato a Bertòla. Il 27 luglio l’ex Legazione di Ravenna confluirà nella Cisalpina. A Bertòla l’Amministrazione Centrale scrive il 2 luglio annunciandogli la sospensione dei lavori del Comitato per l’educazione [FPS, 63.6]: "Avete già avuto un pegno non vano della nostra stima, e del riguardo che non abbiamo mancato d’avere per le vostre dispiacevoli circostanze colla nostra del 20 maggio passato. Diamo poi ordine che per un conveniente indennizzamento del viaggio (50) e della pena che vi siete data vi siano passati dalla Cassa di questa pubblica azienda cento pezze colonnate per una sola volta". Bertòla è tuttavia invitato a presentare copia del suo "Piano"
Il 20 maggio [FPS, 63.11] gli è stato promesso un "beneficio ecclesiastico vacante", per indennizzarlo "in parte de’ sagrifizj" che era "disposto di fare all’Emilia" (51). Il 31 maggio [FPS, 63.4] l’Amministrazione Centrale, "impegnata sempre a premiare il merito dei dotti, ed utili Cittadini", ha deliberato su premura del generale Sahuguet "Comandante della Romagna", di ricompensare lo "zelo, che lo stesso Bertòla dimostra, e servigio, che ripromette prestare all’Emilia per la riordinazione della pubblica Istruzione", con una pensione annua di duecento scudi "da levarsi dalle Rendite, e Proventi de’ Beni della già vacata Badia di S. Orsola posti nel territorio di Cesena". È facile immaginare che l’interessamento del generale Sahuguet fosse stato sollecitato da Nicola Martinelli il quale, come si è già visto, lo ospitava nel proprio palazzo. Bertòla deve aver espresso gratitudine a Martinelli, se questi il 3 giugno [FPS, 61.18] gli scrive: "Tu dici più di quello, che devi, ed io ho fatto meno di quello che meriti".
Lo stesso 3 giugno [FPS, 63.178] Bertòla ha ringraziato Sahuguet per aver voluto con delicatezza "relever par un soutien permanent une triste existence". Dopo parole di riconoscenza, il poeta riminese augurava al generale gloria e felicità, associandosi all’omaggio di tutta la provincia, "heureuse vraiment de voir se realizer en son faveur le plus beau des réves politiques, le pouvoir entre les mains de la philosophie". In Bertòla sembrano riaffiorare quei pensieri che avevano alimentato la sua fiducia nel riformismo dei sovrani illuminati. Sarebbe troppo facile sottolineare lo stridente contrasto tra quei pensieri e la realtà determinata dalle truppe napoleoniche, se non pensassimo al valore formale di questo documento che è un ringraziamento per quanto concesso, non una pagina di filosofia della Storia. Lo stesso spirito di riconoscenza e devozione Bertòla esprime il 3 giugno [FPS, 63.178] all’Amministrazione Centrale di Forlì: si augura di mostrarsi "meritevole della protezione" del generale Sahuguet per poter corrispondere alle beneficenze ricevute, e promette di accettare qualunque opera alla quale sarebbe stato destinato, con un impegno fatto di desiderio e speranza di "giovare altrui".

10. Le Letture patriottiche (agosto 1797)
Il 22 agosto [FPS, 63.8] l’Amministrazione Centrale affida alla "celebre penna" di Bertòla il compito di redigere un "giornale patriottico", che s’intitolerà Letture istruttive per il Popolo dell’Emilia, con l’invito a trasferirsi a Forlì, in località Forniolo nel soppresso convento "detto di Fornò", dove avrebbe trovato "ricovero e tavola". La lettera è firmata dal presidente dell’Amministrazione Centrale, Nicola Martinelli, subentrato a Lorenzo Orioli. Nella risposta con l’accettazione dell’incarico [27 agosto 1797, FPS., 63.168], Bertòla accenna alla propria "salute, sconvolta oggi più dell’ordinario", per cui non può muoversi da San Lorenzo. Un mese dopo, il 23 settembre [FPS, 63.139], con un altro componente dell’Amministrazione Centrale, Giuseppe Masini, Bertòla torna sull’argomento delle sue pessime condizioni fisiche, aggiungendo che le "domestiche circostanze" gli frapponevano ostacoli, "i quali però io peserò in ogni modo, qualora o la mia incombenza non possa qui esser pienamente adempiuta, o qualora l’Amministrazione vegga la necessità, ch’io costà [a Forlì] mi trasferisca per servirla". Già il 29 maggio [FPS, 63.147] Bertòla ha scritto a Maria Martinelli, figlia di Nicola, di essere "infermo pericolosamente" e di vivere in una condizione "deplorabile": "il mio male è minaccioso quanto bisogna per atterrire anche i più coraggiosi" (52).
Dopo la confluenza della Romagna nella Cisalpina, che era già stata auspicata fervidamente da Belmonti Stivivi presso Bonaparte (53), gli sviluppi militari portano alla pace di Campoformio del 17 ottobre 1797. Il 3 novembre la Romagna è divisa nei Dipartimenti del Lamone e del Rubicone, quest’ultimo con dodici rappresentanti e capoluogo a "Rimino" (54). Nicola Martinelli diventa uno dei quattro Seniori del Rubicone. Con Campoformio si chiude una fase di incertezze ben testimoniate a Bertòla da Michele Rosa il 17 maggio [FPS, 63.5]: Bologna si era trovata nel momento di "massimo ondeggiamento; tanto si sa poco di quel che debbesi temere o sperare in tanta piena di voci spesso contraddittorie, per lo più assurde, dall’oracolo del sommo disponitore delle cose d’Italia". A molti faceva paura una frase pronunciata da Napoleone: "Voi siete gli eredi necessarii del Papa". Il 13 giugno [FPS, 61.14] da Forlì l’Amministratore Centrale Nicola Martinelli si era sfogato con Bertòla: "Spero di far ribassare la macina del quarto. Oh che fatica a far il bene!".
Intanto Bertòla ha cominciato a produrre i fogli delle Letture. Il primo numero, con la data del 29 settembre 1797 anno sesto della Repubblica Francese e primo della Repubblica Cisalpina, illustra le finalità del giornale: istruire per far conoscere a tutti i cittadini i diritti e i doveri introdotti dalla "magnanimità de’ nostri conquistatori" (55).

11. La "giubbilazione" da Pavia (ottobre 1797)
A giugno Bertòla ha ottenuto la somma di 164 lire dall’Amministrazione generale milanese, concessagli dopo aver ricevuto un suo "cenno di urgenza" [FPS, 60.374]. Il 14 settembre l’Università di Pavia ha riconosciuto anche a lui un acconto sui futuri stipendi, assicurando la riapertura dell’Ateneo "pel prossimo anno". Nella comunicazione leggiamo pure: è stato "stabilito che a’ Professori assenti non si proseguirà il salario". Bertòla deve scegliere: rinunziare alla Cattedra o "recarsi presto a Pavia". [FPS, 61.306] Rinunzia. Il 30 ottobre [FPS, 63.19] il ministro degli affari interni della Cisalpina gli comunica che il Direttorio ha soppresso la Cattedra di Storia Universale da lui "coperta con lode e con pubblico vantaggio", e gli ha accordato "la giubbilazione": "sarà eterna presso l’Università la memoria del vostro nome" (56).
Tra novembre e dicembre 1797 Bertòla acquista quattro piccoli fondi vicini al casino di San Lorenzo (57). Un prestito di duecento lire gli era stato accordato da Ambrogio Tealdi di Pavia il 26 maggio [FPS, 62.17] che vantava già un credito verso di lui. Bertòla aveva contratto altri debiti con Olivieri di Pavia: questi gli suggerì poi di "far un po’ di quaresima" anziché pregiudicarsi decoro e quiete. [FPS, 61.305-306]. A settembre Bertòla si era rivolto a Strocchi [FPS, 63.152]: "Non avrei proposto l’affare, se non avessi capitali, o fondi che sieno. Di questi potete assicurarvi facilmente. […] Voi mandatemi qualunque forma d’obbligo e lo sottoscriverò, e impegnerò, se volete, oltre al mio fondo notissimo a tutti anche la mia pensione di 200 scudi".
Strocchi gli aveva fatto balenare la proposta di una Cattedra liceale a Faenza. Bertòla gli aveva risposto il 19 agosto [FPS, 63.151]: "bisognerebbe pur sapere e alcun tempo dianzi l’apertura degli studj, che ragiono sarà a novembre, quale stipendio si voglia o possa fissare, su qual materia. A me parrebbe che sarebbero da unirsi in una la storia, l’etica, la geografia fisica; dove non si volesse una cattedra a parte di geografia fisica. Parlate di ciò a chi ha le mani in pasta, e rescrivete". Soltanto la vicinanza di Strocchi avrebbe consentito a Bertòla di allontanarsi dal proprio nido, come dimostra il passo di un’altra lettera allo stesso Strocchi del 4 novembre [FPS, 63.153], quando il poeta riminese non acconsente al "desiderio" di Mascheroni per un trasferimento a Bologna: "che volete che io faccia, là dove non ho un filo che mi unisca ad alcuno? ed io vivo dell’amicizia". Bertòla ricorda "la salute sempre mal concia", la sua poca disposizione a piegarsi "a incombenze fisse e metodiche", e soprattutto la necessità di avere una "nicchia" in cui vivere confortato dagli amici, con i quali imbandire le consuete "cenette" per le quali lui stesso, Strocchi e Michele Rosa "dimenticavan tosto Virgilio". "Io sono nel mio eremo: se la salute fosse buona, mi terrei più che un re", aveva scritto sempre a Strocchi il 28 luglio [FPS, 63.150]: più che una confessione, era l’espressione di un auspicio che rivelava i suoi veri sentimenti. Anche politici (58).
A fine novembre 1797 Luigi Oliva e Vincenzo Monti sono inviati come Commissari ai Dipartimenti romagnoli. Il 12 dicembre [FPS, 63.15] essi comunicano a Bertòla di aver invitato le Amministrazioni del Lamone e del Rubicone "a continuare la delegazione" allo stesso "per l’estensione di un foglio patriottico". Sempre il 12 dicembre [FPS, 61.16] Nicola Martinelli scrive a Bertòla "per la continuazione della gazetta. […] Continuerai dunque a percepire i tuoi emolumenti".

12. L’ultimo viaggio a Milano (gennaio 1798)
A metà gennaio 1798 con Nicola Martinelli (59) Bertòla si reca a Milano, la città in cui durante gli anni dell’insegnamento pavese ha abitato in contrada de’ Bigli, presso i coniugi Airoldi. Si ammala nuovamente. A fine febbraio deve subire cinque cavate di sangue. Il 14 marzo [FGM], a Francesco Martinelli fratello di Nicola, scrive di "star meglio. Io disegno di pormi in viaggio accompagnato da Bajocco il dì 23 o 24" (60). E il 24 marzo [FPS, 63.137] allo stesso Francesco: "A me non scrivete più; perch’io o fra quindici giorni son vivo, e non sarò più qui; o son morto, né so che vi sia posta per l’altro mondo".
Nicola ha ricevuto da Rimini lamentele sul "passaggio immenso" di truppe francesi. Ne ha parlato ad alcuni membri del Direttorio, ricevendo una risposta che "non ha replica": "la Cisalpina non comanda alla Francia, ma la Francia alla Cisalpina" [FPS, 63.133].
Tra fine marzo ed inizio aprile, Bertòla ritorna a Rimini, a San Lorenzo. È qui che Nicola Martinelli il 5 maggio [FPS, 61.20] gli invia l’ultima lettera del suo carteggio: "Scrissi a Checco, che vi dicesse che la politica andava come la vostra salute. Ve lo confermo. Vi soggiungerò solo, che non pare lontano lo sviluppo. È rientrata in Genova la flotta, dicesi per ordine di Parigi. Dunque non si taglierà più l’istmo. Tutte le lettere assicurano che si ritirano le truppe destinate allo sbarco in Inghilterra. Dunque pare non lontana la pace universale. Come sarà? Le opinioni sono discordi come prima" (61).
Il poeta è gravemente infermo, e Francesco Martinelli si offre di ospitarlo nel proprio palazzo, dove Bertòla si trasferisce nel periodo compreso tra il 17 ed il 22 giugno (62). Alle cinque del pomeriggio del 30, muore. Il cronista Giangi annota: "È passato a miglior vita il Professor Aurelio Bertòla di anni 44 con sentimenti di vero cristiano e con aver ricevuto (da lui richiesti) tutti li sacramenti". Nella stessa sera il suo corpo viene trasportato "privatim" nel vicino Tempio Malatestiano (63). Il 1° luglio è sepolto nella tomba degli avi (64), con una cerimonia frettolosa e senza pompe, forse proprio per motivi politici.
Bertòla aveva appoggiato quei nemici della Chiesa i quali, instaurata la Repubblica a Roma, hanno costretto Pio VI a lasciare la sede apostolica il 20 febbraio. Nel primo dei suoi scritti per le Letture (29 settembre 1797), si era illuso che la condotta dei repubblicani francesi fosse "mirabilmente in armonia colla religione de’ nostri Padri": aveva inquadrato il discorso politico particolare in quello filosofico più generale, ricordando (con lo stesso ottimismo degli scritti di dieci anni prima), che "la natura tende invariabilmente a un ordine fisso e conservatore", lo stesso a cui mirava il "nuovo Governo" della Cisalpina. Nell’ultimo articolo che compone per le Letture (65) prima di morire, Bertòla appare un pensatore tutto diverso, più disincantato e problematico, rispetto a quello della Filosofia della Storia. Non è "vano osservare", scrive, come "dagli stessi principj" possano "derivare talvolta conseguenze differentissime; come queste stesse conseguenze finanche sembrino non di rado essere una cagione; come degli avvenimenti contrarj sieno l’effetto degli stessi assiomi; come s’incontrino da per tutto eccezioni, riserve, modificazioni; e come la verità sembri voler più fuggire chi più qui l’insegue".
Bertòla era stato un rivoluzionario pacifico. L’unica battaglia da lui combattuta, è quella con un cane che, su sua richiesta, il cittadino Daniele Felici dell’Amministrazione Centrale dell’Emilia gli aveva fornito nell’agosto 1797, quale "fedel compagno del giorno come terribile sentinella notturna". Appena ricevuto il dono Bertòla, con una comunicazione ufficiale allo stesso Felici, rinunciava a quell’animale che gli aveva "fatto temer di tal guerra da non finir così presto e da esser soggetto di poemi e di poesie". Una guerra, aggiungeva, "per cui non siam nati" (66).

NOTE AL TESTO
1 L’abate philosophe Giovanni Cristofano Amaduzzi, pur definendola "pregevolissima", considerò la Filosofia della Storia opera difficile per lo stile "cinquecentistico", nuovo nella penna di Bertòla, e "faticoso ad esser compreso di primo lancio da chi la legga per solo diletto": cf. lettera a Bertòla, 11 marzo 1789, minuta in Fondo Amaduzzi, Biblioteca Accademia Filopatridi, Savignano sul Rubicone [in seguito FAF], codice 4. [La riproduzione è fedele ai manoscritti. Le nostre integrazioni all’interno delle citazioni sono indicate entro parentesi quadre. Le parti sottolineate sono rese in corsivo.]
2 Cf. Filosofia della Storia, libro III, capo V, § XXI e § XXII; e libro II, capo IV.
3 Cf. rispettivamente Fondo Piancastelli, Biblioteca Saffi di Forlì [in seguito FPS], 64.11 per la Breve Introduzione, e FPS, 64.16 per il Ragionamento. La data della Breve Introduzione è determinabile in base ad un passo all’inizio, nel paragrafo intitolato Elementi di Cronologia. Il Ragionamento fu utilizzato da Bertòla negli anni accademici 1786/87 e 1787/88, come si ricava da annotazioni autografe. I due mss. non sono numerati nelle pagine. [Nelle citazioni epistolari, la sigla "FPS" sarà usata nel nostro testo tra parentesi quadra, facendola seguire dal numero relativo della classificazione. L’epistolario tra Bertòla e Ippolito Pindemonte, da cui ricaveremo alcune notizie, è stato pubblicato in E. M. Luzzitelli, Ippolito Pindemonte e la fratellanza con Aurelio De’ Giorgi Bertòla, Foggia, 1987, pp. 89-156: nelle citazioni useremo la sigla "PL", seguita dal numero di pagina e dalla data, sia per le lettere di Bertòla sia per quelle di Pindemonte. I documenti provenienti dal FPS sono quasi tutti inediti: soltanto alcuni, infatti, sono stati ripresi brevemente, e talora con errori, in alcune biografie di Bertòla, sempre però per sostenere la tesi che egli sia stato un acceso rivoluzionario.]
4 Altri giudizi sulla realtà contemporanea si possono ricavare dai due discorsi massonici tenuti a Milano nel 1788, di cui diremo in una nota successiva.
5 Le notizie che presentiamo sono tolte da cronache locali e documenti riprodotti in numerosi luoghi da A. Dolcini nel suo Napoleone il "bifronte", Bologna 1996, e dall’Atlante per il Dipartimento del Rubicone a cura di G. Gattei e P. G. Pasini, "Romagna arte e storia", n. 6, 1982.
6 Cf. M. A. Zanotti, Giornale di Rimino per gli anni 1796 e ’97, SC-MS. 314-315, Biblioteca Gambalunghiana di Rimini [in seguito BGR], passim.
7 Cf. A. Bianchi, Storia di Rimino dalle origini al 1832, manoscritti inediti a cura di A. Montanari, Rimini 1997, p. 169. Bianchi (che fu bibliotecario alla BGR), riferisce però a prima dell’armistizio di Bologna l’episodio, ignorato da Zanotti e dagli storici che si sono rifatti al suo Giornale.
8 Cf. P. Pozzetti, Notizie per l’elogio di Aurelio De’ Giorgi Bertòla, Rimini 1779 (BGR, 13.MISC.XII.49), p. 12.
9 Sui rapporti tra Bertòla e la Mosconi, cfr. A. Montanari, La filosofia della voluttà. A. Bertòla nelle lettere di E. Mosconi, Rimini 1997. Lauretta è nata nel 1785.
10 Cf. A. Baldini, La malattia di Aurelio Bertòla, in "Nozze Malaguti-Montanari", Garattoni, Rimini 1929, p. 52.
11 Luzzitelli (op. cit., p. 20) scrive che Wilczeck era Gran Maestro della Gran Loggia Provinciale della Lombardia austriaca. A Wilczeck (ib., p. 25), Bertòla aveva dedicato le Operette in verso e in prosa nel 1785.
12 "Pindemonte mi scrive che tu sei fatto anche Bibliotecario dell’Università": cf. nel cit. La filosofia della voluttà, p. 26. È una lettera della Mosconi a Bertòla (1784).
13 Bertòla il 19 giugno 1788 [FPS, 63.16] era stato nominato dal Regio Imperial Consiglio di Governo "Reggente delle Scuole minori del Gesù", in sostituzione del can. don Carlo Corti, con il compito di "regolare il metodo di dette Scuole, ed introdurvi il buon gusto, col sistemarle in tutti i loro rapporti".
14 Questo Diario si compone di tre parti. Le prime due constano di piccoli fascicoli, la terza di un foglio volante. Il primo fascicolo (cm 13,4x18,4), è di 36 pp. e comprende il periodo dal 14 giugno 1793 al 28 gennaio 1795. Il secondo fascicolo (cm 13x18,6), è di 8 pp. (di cui l’ultima senza testo), e si riferisce al periodo dall’11 ottobre 1796 al 15 gennaio 1797. Infine il foglio volante (quattro facciate, cm 9,9x27,2), comprende il periodo 1° aprile 1797-11 maggio 1797. Nel corso del presente lavoro citeremo anche un’aggiunta (6-10 marzo 1797), dal retro della lettera FPS, 63.50.
15 Cf. i quattro articoli apparsi in RiminiLibri, nn. 7, 8, 9, 12 e poi raccolti in A. Montanari, Un "Diario" inedito di Aurelio Bertòla, "Quaderni di Storia", n. 1, Ed. Il Ponte, Rimini 1994. Gli originali del "Diario" sono conservati in Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese [in seguito FGM] della BGR, cartella "Bertòla De’ Giorgi, A." assieme ad altre carte che citeremo in seguito.
16 Che il viaggio fosse diretto a Pavia, lo attesta anche la lettera FPS, 62.260 di C. Zacco a Bertòla (del 26 novembre 1796).
17 Mons. Garampi fu Nunzio apostolico a Vienna dal 1776 al 1785, anno in cui viene nominato Cardinale: sull’argomento, cf. il volume di U. Dell’Orto, La Nunziatura a Vienna di GiuseppeGarampi, Città del Vaticano, 1995. Erano gli anni di Maria Teresa (morta nell’80) e del figlio Giuseppe II (1780-90). A quest’ultimo succede il fratello Leopoldo II, imperatore sino alla morte nel ’92, quando gli subentra il figlio Francesco II (l’altro figlio è il Granduca di Toscana Ferdinando III).
18 Cf. in Dolcini, Napoleone, cit., p. 288.
19 Anche questi brani sulla situazione storica romagnola, sono ricavati da Dolcini, Napoleone, cit., passim.
20 Cf. A. Varni, L’Emilia Romagna nell’Italia napoleonica, in "Storia dell’Emilia Romagna", Bologna 1980, vol. III, p. 30. Scrive don Saverio Tomba che in quei giorni del ’96 era molto "periglioso" essere qualificato "giacobino" (Dolcini, Napoleone, cit., p. 291).
21 Cf. G. Scotti, La vita e le opere di Aurelio Bertòla, Milano 1896, p. 25.
22 I "due amici" potrebbero essere Orintia Sacrati (cf. infra nel nostro testo), e Nicola Martinelli.
23 Questa persona è indicata come Serafini, ma in realtà si tratta di Serafina Mularoni, una giovane che Bertòla aveva preso sotto la sua protezione, e che poi finì al suo servizio.
24 La somma risultava da 24 scudi e 20 bajocchi per vitto ed alloggio, 20 bajocchi per acqua di tabacco, e 36 scudi prestati al cinque per cento.
25 Cf. A. Baldini, La malattia, cit., p. 53.
26 Questa lettera viene recapitata a Bertòla dal mercante riminese Nicola Giangi, noto anche come autore di cronache (che citeremo): cfr. BGR, SC-MS. 340 (1782/1809), dove incontriamo la notizia della morte della madre di Bertòla, Maddalena, di anni 84 circa, avvenuta la sera del 13 gennaio 1789; e quella della scomparsa dello stesso poeta, che riportiamo in seguito. Circa Storti, va ricordato che Bertòla collaborò con lui alla redazione del Nuovo giornale enciclopedico italiano dopo la morte della curatrice Elisabetta Caminer, come risulta da vari passi del "Diario" e da varie lettere [FPS ] non soltanto dello stesso Storti. Da una minuta di Bertòla a Storti del 29 novembre 1796 [FGM], apprendiamo che il riminese aveva chiesto a Zacco (cfr. la cit. lettera di risposta di Zacco, FPS, 62.260), di fargli ottenere il permesso di ingresso a Venezia proprio adducendo, come "vera ragion mercantile che so esser la migliore", quella di lavorare per il Giornale. La lettera di Storti del 17 dicembre sembra esser la risposta a questa missiva di Bertòla del 29 novembre. Sull’argomento, cf. A. Montanari, Bertòla redattore anonimo del Giornale Enciclopedico. Documenti inediti, in "romagna, arte e storia" n. 50/1997, pp. 138-141.
27 Il viaggio era iniziato, secondo quanto risulta dal Diario, il giorno precedente. Nell’aprile ’97 l’identico viaggio da Bologna (partenza il 24) a Rimini (arrivo il 26), come vedremo, sarà interrotto da una sosta a Forlì (il 25).
28 Si vedano le insinuazioni della Mosconi a proposito di Orintia nel cit. La filosofia della voluttà, p. 73.
29 La lettera è datata Roma 11 febbraio 1797 ed indirizzata al "cittadino Lorenzo Mascheroni professore all’Università di Pavia": cf. G. Gervasoni, Dodici lettere inedite di A. B., in "Studi su A. B. nel II centenario della nascita (1953)", Bologna, s. d., p. 140. Il 14 gennaio Bertòla aveva segnato nel Diario l’acquisto di "un tavolino da scrivere in piedi".
30 L’epistola reca la data del 24 ottobre 1797 [PL, p. 155]. C. Tonini nella sua Coltura letteraria e scientifica in Rimini, Rimini 1894, II, p. 374, riferisce erroneamente l’espressione "fuggendo una persecuzione del Governo Romano" non alla partenza di Bertòla da Rimini, ma a quella successiva da Roma. Così pure Scotti, op. cit., p. 26, ed A. Piromalli, La storia della cultura, in "Storia di Rimini dal 1800 ai nostri giorni", V, Rimini 1981, p. 26. Secondo il cit. Gervasoni, Bertòla fuggì da Rimini perché ai "locali giacobini" dovette "sembrare troppo conservatore, e dare ombra di cultura e di fama" (p. 140, nota 33). Piromalli (ib.) ipotizza motivi opposti a quelli esposti da Gervasoni, scrivendo che è "molto più verosimile" che Bertòla sia fuggito "per i tumulti riminesi contro i magistrati della città sospettati di favorire i Francesi" (che però, come lui stesso aggiunge, non erano ancora entrati in città), "e per i movimenti dei contadini intimoriti dalla notizia della venuta dei Francesi". Sia Gervasoni sia Piromalli sono lontani dalla verità a causa dell’errore di Tonini (che oltretutto attribuiva la lettera di Pindemonte al Rubbi).
31 Così Nicola Giangi nel cit. SC-MS. 340.
32 Bertòla avrebbe voluto recarsi a Napoli con l’amico Antonio Di Gennaro, duca di Belforte, abitante in quella città: cf. FPS, 63.37.
33 "L’accusa di aristocratico lo bandiva anche da Roma": cf. A. Roffi, Studi su A. Bertòla, Forlì 1914, p. 18, dove però non troviamo la fonte della notizia, inserita oltretutto in un contesto cronologicamente errato. Infatti si dice che il ‘bando’ da Roma avvenne mentre Bertòla "scriveva le Lettere [recte: Letture] istruttive". Come vedremo, l’incarico al poeta di compilare le Letture è successivo e risale all’agosto del ’97. Pozzetti nelle citt. Notizie, p. 12, non parla del motivo della partenza di Bertòla da Roma, scrivendo soltanto: "Rivide anche in questo torno la bella Firenze, e quei letterati, che apprezzavanlo grandemente, donde fece ritorno a Rimino".
34 La richiesta di Martinelli è accolta il 21 aprile 1797 dall’Amministrazione Centrale con lettera (da Forlì) diretta alla Municipalità di Rimini: "La di lui esenzione sarà durevole quanto lo saranno i bisogni di sua salute, e niente più" (cf. AP 901, Epistolario 1797-1798, Archivio Storico Comunale di Rimini, in Archivio Stato Rimini [in seguito ASR], n. 124, c. 321). Martinelli viene sostituito da Luigi Ferrari (cf. AP 503, Copialettere 1797, ASR, 25 aprile 1797, pp. 281-282).
35 Il vero titolo dell’Amministrazione Centrale era "dell’Emilia".
36 Il cit. documento n. 124 di AP 901 [ASR], è il primo, tra quelli inviati quotidianamente alla Municipalità di Rimini, ad essere spedito da Forlì: esso ci permette di stabilire che la data dell’effettivo trasferimento da Ravenna a Forlì dell’Amministrazione Centrale è appunto il 21 aprile, mentre l’annuncio ufficiale (datato 15 aprile) parla del giorno 18 (AP 901, c. 29r). Tale annuncio è tratto dal foglio a stampa della stessa Amministrazione Centrale (cf. in M. A. Zanotti in Raccolta diStampe, SC-MS. 1195, BGR, c. 84).
37 Il prof. Peter Franck (direttore generale della Medicina per la Lombardia al tempo della dominazione austriaca), è una vecchia conoscenza di Bertòla: con lui ha compiuto il celebre viaggio sul Reno.
38 C. Botta, Storia d’Italia dal 1789 al 1814, 1824, p. 146.
39 La lettera in FPS è erroneamente catalogata con l’anno 1795 e di mittente ignoto.
40 La Repubblica di San Marino, "richiesta di "estradare" il vescovo di Rimini, Vincenzo Ferretti […] si prestò ubbidiente alla pretesa di Bonaparte (anche se, non potendo consegnare il vescovo che aveva già preso il largo da Senigallia, restituì soltanto il suo bagaglio), ricevendone in cambio l’attestazione ufficiale del rispetto francese per l’indipendenza della piccola Repubblica e, più concretamente, l’esenzione dalle contribuzioni militari, una congrua sovvenzione di cereali e quattro cannoni (che, a vero dire, i sammarinesi non si curarono mai di richiedere)": cf. il cit. Atlante per il Dipartimento del Rubicone, p. 51. Mons. Ferretti fece ritorno a Rimini il 13 aprile. La Municipalità gli scrisse il 18: "Abbiamo tutta la compiacenza che il Generale Francese vi abbia restituito alla vostra greggia. Ce ne congratuliamo vivamente certi di sperimentare propizj effetti del vostro ristabilimento" (cf. AP 503, ASR, pp. 237-238).
41 Le citazioni riportate sono tolte dalla Lettera al Conte Nicola Martinelli Presidente della Municipalità di Rimino, Foligno 1797, passim. L’opuscolo consta di 24 pp., e contiene quattro documenti: [I] la lettera della Municipalità di Ravenna del 1° Aprile 1797 (p. 3) che trasmette [II] "una Stampa della Giunta di Difesa generale" del 28 marzo, indirizzata "Agli Abitanti dell’Emilia" (pp.4-6); [III] la risposta della Municipalità riminese, firmata da Martinelli (pp. 7-8); e [IV] la replica a Martinelli stesso della Giunta di Difesa (pp. 9-24), nella quale ci si riserva di dire "molto di più" in altra occasione "in cui occorra parlare" di Martinelli, o di scrivere la storia della sua vita politica. Per quanto ci risulta, l’unico accenno a tale Lettera è quello contenuto nel ms. Zanotti [SC-MS. 315, cit., pp. 126-127], ove si ricorda che l’affermazione di Martinelli (sull’"affare di mezz’ora" e sull’"ultimo sforzo della Romana debolezza"), "era molto dispiaciuta": "Un soggetto di riguardo, che gli fù compagno in Collegio non volle trascurare l’offesa, che venne fatta alla Corte medesima, onde con severo, e critico scritto in forma di lettera reso pubblico colla stampa in Foligno, gli dimostrò qual fù la vera debolezza Romana nella tolleranza di tanti di lui maneggi non solo, ma ben anche nella mal spesa beneficenza verso di lui, e de’ suoi sì largamente praticata, e caratterizzò quindi il Conte come credé meritare". Il "soggetto di riguardo" autore della risposta è il presidente della stessa Giunta di Difesa, Giuseppe Luosi, che in seguito sarà ministro della Giustizia nella Cisalpina. La Lettera è segnalata nell’unica scheda intitolata a "Martinelli Nicola" esistente nel CatalogoGambetti, BGR. In testa alla p. 3 della Lettera, il tradizionale motto "Libertà-Uguaglianza" (che appare in tutti i documenti ufficiali), è sostituito dalla beffarda triade "Chimera-Empietà-Impossibilità". Un esemplare della Lettera è in BGR, 11.MISC.RIM.113,17. (Sul frontespizio non è indicato il tipografo, ma soltanto il luogo di stampa.) Merita attenzione l’accenno alla "Loggia rustica", che pare indicare in Martinelli un esponente della Massoneria: nella quale si potrebbe ipotizzare la garante di tutta l’attività politica svolta dal conte riminese e che non risultava gradita alla Giunta di Difesa. Il dissidio tra la Giunta e Martinelli potrebbe infine confermare l’esistenza di due anime all’interno del movimento ‘giacobino’ locale.
42 La notizia su Nicola Martinelli "destinato ambasciatore in Vienna", che è del tutto inedita, si ricava dalle lettere FPS, 63.133-134 di Bertòla a Francesco Martinelli, delle quali parliamo in seguito. Sull’attività politica di Martinelli all’inizio del sec. XIX, cf. G. C. Mengozzi, Figure e vicende del Risorgimento, I. L’età napoleonica, pp. 61-62, in "Storia di Rimini dal 1800 ai nostri giorni, I. La storia politica", Rimini 1978.
43 Copia della lettera (del 5 novembre 1799) è conservata in ASR, AP 545, Lettere Segrete della Magistratura.
44 Cf. A. Piromalli, op. cit., p. 25: "Di questi ultimi anni i documenti sono scarsi e sarebbe interessante conoscere i rapporti di idee del Bertòla con Nicola Martinelli".
45 Amaduzzi, discutendo degli atteggiamenti del "puro Antiquario", aveva fatto notare a Bertòla come fosse difficile che tali atteggiamenti stessero "perfettamente a livello collo spirito illuminato del secolo" [FPS, 8.290, 24 dicembre 1776]. Dello stesso Amaduzzi si debbono ricordare i tre importanti Discorsi filosofici.
46 Cf. P. Bargellini, Pian dei Giullari, IX, Il primo Ottocento, Firenze 1962, p. 37. Monti fu in rapporto di viva amicizia con Bertòla, come testimoniano le sue lettere ("Preparaci un’accoglienza tutta Petrarchesca perché vogliamo esser Platonici, e tutto sentimento" [1797, FPS, 311.111]: cfr. G. Pecci, Le relazioni di A. B.col Metastasio, col Monti e col Foscolo, "Studi Romagnoli", V, 1954, p. 504).
47 La cit. è tolta dal sonetto ironicamente intitolato Elogio a Vincenzo Monti di Fusignano, ed attribuito a padre Lorenzo Fusconi: cf. U. Foschi, Un sonetto contro Vincenzo Monti, La Piê, n. 2/1997, p. 52.
48 Ha scritto F. Del Beccaro ne Il viaggio renano del Bertòla, in "Studi su A. B. nel II centenario della nascita (1953)", op. cit., p. 51: "non si dimentichi l’apporto del Bertòla ai moti emiliani del 1797, che taluno vorrebbe preparati anche dallo stesso abate nove anni prima con certi discorsi, rimasti inediti, che il Bertòla pronunciò a Milano". Esaminiamo in breve questi due discorsi [FPS. 64.2]: il primo è un retorico elogio della "più fina filantropia", buono anche per qualsiasi istituzione caritatevole contemporanea; nel secondo, Bertòla narra dei suoi "studiosi pellegrinaggi" in Alemagna, con riferimenti alle divisioni interne alla Franca-Massoneria, a Cagliostro e alla setta tedesca degli Illuminati (allora in crisi), sostenitori di "una specie di nuova repubblica platonica" capace secondo alcuni di "recare un fatale sconvolgimento" nei governi. Nel primo discorso, Bertòla sostiene che la Massoneria, intesa quale aristocrazia intellettuale e morale, grazie alla sua sapienza è passata indenne "fra lo stupir delle rivoluzioni". Nel secondo, accenna alle "rivoluzioni improvvise che sono già accadute" (per colpa delle "miserie altrui", cioè dei non massoni), e a quelle "onde siamo minacciati": "È un nembo che s’avanza rapidamente […]; noi lo vedremo avvicinarsi senza temerlo; e lo vedremo dileguarsi senza averlo provato". È difficile trovare in questi due discorsi la preparazione ai moti emiliani del ’97. (Un estratto del secondo discorso è in A. Bertòla, Diari del viaggio inSvizzerae in Germania (1787), a cura di M. e A. Stäuble, Firenze 1982, pp. 309-314.)
49 Cf. il saggio di A. Traina in Odi e Epodi, Milano 1994, p. 17. Amaduzzi si riferiva ad Odi, III, 9. 22.
50 Il 25 giugno a Forlì (cf. lettera dell’Amministrazione Centrale del 13 giugno, FPS, 63.12), Bertòla, Rosa e Strocchi erano stati convocati per affrettare il compimento del progetto del "Piano". Nicola Martinelli aveva scritto il 13 giugno (FPS, 61.14): "Alla fine del mese dovrai venir qua con Strocchi, e Rosa". Rosa abitava anch’egli sulle colline di Rimini, a poca distanza dallo stesso Bertòla ("Rosa è al suo casino discosto dal mio cammino di mezz’ora", FPS, 63.154), mentre Strocchi era a Faenza. Bertòla a Pindemonte parla di "due corse" fatte a Forlì nell’estate del 1797 (cf. la cit. lettera del 24 ottobre in PL, p. 155). Se la prima è quella di giugno, la seconda è determinabile a settembre in base alla lettera inviata appunto da Forlì a Strocchi in data 11 [FPS, 63.152]. Il Piano è stato pubblicato nel 1893 da A. Tambellini, cfr. BGR, 13.MISC.CVI.23, con notizie inesatte (nella prefazione) sulle vicende di Bertòla politico.
51 Da un successivo documento [FPS, 63.14, del 5 ottobre 1797], si ricava che il beneficio era in territorio di Forlimpopoli.
52 Per non restare "abbandonato in una solitudine, privo di ogni assistenza", Bertòla chiedeva l’interessamento di Maria Martinelli presso la famiglia del marito Luca Soardi, allo scopo di trovare una persona che lo assistesse a San Lorenzo.
53 Cf. il cit. Atlante per il Dipartimento del Rubicone, p. 62: "Uniteci alla Lombardia o a quella tale repubblica che il vostro cuore generoso donerà all’Italia alla conclusione della pace", aveva scritto pubblicamente a Napoleone.
54 Il capoluogo sarà trasferito da Rimini a Forlì il 1° settembre ’98 con il decreto del Direttorio della Cisalpina che riorganizzava il suo territorio riducendo i Dipartimenti da venti ad undici, e facendo scomparire quello del Lamone: "mentre l’Imolese veniva nuovamente separato dalla Romagna ed annesso al Dipartimento del Reno, l’intero territorio tra il Senio e l’Adriatico era unificato in un unico Dipartimento del Rubicone" (cf. il cit. Atlante per il Dipartimento del Rubicone, p. 79).
55 Non possiamo, per evidenti ragioni di spazio, analizzare qui tutto il contenuto delle Letture [BGR, C.214], sul quale ci ripromettiamo di intervenire in altra occasione.
56 Michele Rosa aveva attestato l’aggravamento delle condizioni di Bertòla, in un certificato che accompagnava (il 2 luglio, secondo quanto scrive A. Baldini, La malattia, cit., p. 53), la domanda di giubilazione presentata dal riminese. Alcune delle espressioni contenute nel certificato riportato da Baldini ("è combattuto da sì gagliarda e continua palpitazione di cuore, accompagnata da sibilo e da un fremito straordinario, esteso a tutta la regione de’precordi, che incute a medici stessi un fondato timore che il male sia già passato ad una lesione organica de’ precordi medesimi"), si trovano citate e commentate in una lettera dello stesso Rosa a Bertòla del 22 maggio 1797 [FPS, 627.30], che esamina la situazione fisica del poeta e contiene il suggerimento: "non terreri nimis, nec fidare". Probabilmente, tale lettera del 22 maggio aveva accompagnato il certificato inviato a Bertòla, e poi da questi spedito a Milano il 2 luglio. (Il certificato è pure in Scotti, op. cit., p. 26.) Della giubilazione si parla anche in FPS, 471.64: "Le dure circostanze hanno fatto che nulla più si sia potuto ottenere se non il terzo della giubilazione per l’aureo celeberrimo Bertòla. […] Ma per Bertòla spero bene che ci saranno quanto prima in Repubblica altri porti". Il testo è in lettera di Strocchi, ma di altra mano (forse di Ronconi).
57 Cf. Libbro Volture del 1774 al 1799 intitolato Catastro de’ Nobili, III, pp. 87-88, ASR. Di uno di questi acquisti, registrato dal notaio Franchi il 18 novembre 1797, troviamo traccia anche in un appunto di mano di Bertòla sul documento FPS, 63.41, relativo al "Campo delle Monache di S. Eufemia". Forse si riferisce a questo fondo il passo della lettera a Strocchi [FPS, 63.152] in cui si parla di una spesa di scudi 1.146. Sui debiti lasciati dal poeta, cf. il cit. "Diario", passim. Nicola Martinelli ed Orintia Romagnoli quali creditori fecero causa a Serafina Mularoni, nominata erede universale di Bertòla.
58 Sulle idee di Strocchi, basti questo passo da una lettera a Bertòla del 22 settembre 1797 [FPS, 471.65]: "La nostra causa piace agli dei, che mi sembrano aver dichiarato il loro favore alli Francesi".
59 Martinelli va a rinunciare alla carica di ambasciatore a Vienna perché la sua salute non sopporta climi rigidi: cf. la lettera di Bertòla a Francesco Martinelli da Milano, del 3 febbraio 1798 [FPS, 63.133]. In FPS, 63.134 [Milano, 7 febbraio ’98] Bertòla scrive allo stesso Francesco che suo fratello Nicola "destinato ambasciatore in Vienna, ha per ragioni di salute presentata la sua rinunzia"
60 Qui leggiamo poi: "Vostro fratello […] vi commette di salutare in suo nome il Cittadino Alessandro Belmonte […], e dirgli che gli spiace di non essersi ingannato ne’ suoi vaticinj". Non sappiamo di che si tratti: possiamo immaginare soltanto previsioni infauste sulla dominazione napoleonica, anche in base alla cit. lettera FPS, 63.133.
61 La spedizione in Egitto parte da Tolone il 19 maggio 1798.
62 Il periodo si determina in base ad una serie di documenti e di atti notarili. Cf. "Diario" cit., pp. 8-9. Il palazzo Martinelli sorgeva nell’omonima via (ora Serpieri).
63 Cf. l’Atto di morte steso da padre Francesco Maria Veroli, parroco di Santa Maria in Trivio (chiesa di San Francesco, cioè Tempio Malatestiano), in Libro dei Defonti, Archivio Diocesano, Rimini, p. 69. Copia dell’Atto è in una scheda del cit. CatalogoGambetti, BGR.
64 Secondo G. Pecci, op. cit., p. 510, la sepoltura avvenne "nella cappella della Madonna dell’Acqua".
65 Tale articolo era stato steso per il n. XL (previsto in uscita con la data del 30 giugno, la stessa della scomparsa di Bertòla): assieme al precedente per il n. XXXIX, è conservato manoscritto in FGM. Entrambi appartengono alla serie intitolata "Studi democratici", della quale sono rispettivamente il quinto e sesto capitolo. La collezione delle Letture in BGR, C.214 si ferma al n. XXXVIII.
66 Cf. FPS, 63.9 e 63.17.

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1652, 02.05.2012. Modificata, 02.05.2012, 17:55/Rev. grafica 13.04.2015
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