L'Anfiteatro di Rimini. Archivio.
Testi di Antonio Montanari

Rimini "vetrina" di Roma
L' "impostura" dell'anfiteatro.
30 luglio 2000. Anfiteatro, auto-abuso comunale
5 agosto 2000. Auto-abuso comunale. Foschi al muro
Un monumento da redimere
Dietro i lustrini del gran circo

Anfiteatro/Rimini "vetrina" di Roma
Rimini era la "vetrina" di Roma. Come prima città del territorio italiano, appena varcato quel confine che non si sa dove fosse (ogni fiumiciattolo può essere stato benissimo il "Rubicone degli antichi"…), essa aveva il compito di offrire l'immagine grandiosa dello Stato di cui faceva la sentinella. Era stata fondata in età repubblicana come base militare per conquistare la Valle Padana, ed era diventata un'importante roccaforte non solo militare ma pure commerciale. Questo suo ruolo spingeva il governo in epoca imperiale ed anche i suoi abitanti, a trattare la città in una maniera particolare: il primo colpo d'occhio era quello che contava (diversamente da oggi, che chi entra a Rimini dalla via Emilia resta spaventato dall'incuria del ‘paesaggio' e dalla sporcizia nelle strade).
Da questo ruolo dell'antica Ariminum come "vetrina" di Roma, è partita Maria Grazia Maioli, archeologo-direttore presso la Soprintendenza archeologica dell'Emilia Romagna, nella sua esposizione, dotta, lineare ed avvincente, per parlare di Rimini dalle origini al primo secolo dopo Cristo, in una serata speciale (intitolata "Antico Presente" ed organizzata dalla Civica Biblioteca Gambalunghiana), alla quale ha partecipato anche la prof. Eva Cantarella docente di Diritto Romano all'Università di Milano. Autrice di numerosi studi specialistici e divulgativi, la prof. Cantarella ha trattato di Pompei per illustrare anche la vita culturale e politica della società latina.
La manifestazione, svoltasi giovedì 19 agosto 1999 all'antico anfiteatro, ha avuto un grande successo: i posti a sedere si sono presto esauriti e chi è arrivato in perfetto orario ha avuto a sua disposizione soltanto i ruderi od il prato. Per il prossimo anno, ha detto nella presentazione Marcello Di Bella, direttore della Gambalunghiana, si provvederà alla costruzione di tribune che permettano lo svolgersi di manifestazioni con maggiore capienza.
L'anfiteatro, edificato nel II sec., ha spiegato Maria Grazia Maioli, ospitava in genere lo scontro dei gladiatori; e proprio una statuetta locale, raffigurante uno di quegli ‘atleti', sarà esposta in una prossima mostra dedicata a questa costruzione riminese, una delle poche esistenti nella nostra regione.
Anche questo particolare testimonia sulle caratteristiche della città, abitata da gente ricca, capace di spendere un occhio per abbellire le proprie abitazioni, come l'intarsio su lastra di vetro importato forse dalla Siria, scoperto nello scavo di piazza Ferrari e mostrato in assoluta anteprima, che aveva un valore superiore all'intera casa.
Questo scavo ha portato alla luce degli attrezzi chirurgici, perciò si è parlato di una "domus del chirurgo". Ma sarebbe più esatto chiamarla del farmacista, perché pare che nell'edificio (del II/III secolo) si vendessero anche medicine: ed allora come oggi non c'era soltanto la farmacopea ufficiale, ma si preparavano pure intrugli sottobanco da offrire a caro prezzo, come certi afrodisiaci il cui uso potrebbe gettare qualche ombra sui vitelloni nostrani dell'epoca, uomini ‘in carriera' forse stressati dai troppi affari e dal desiderio di guadagno.
Allora, al tempo dell'anfiteatro e del chirurgo o farmacista che fosse, Rimini non era una città di mare; l'acqua c'era, lì vicino dove adesso sorge la stazione, ma non c'era la spiaggia. Non luogo di villeggiatura, dunque, ma sede di coloni, alle origini la città ed il suo territorio subirono uno sfruttamento intensivo: soltanto con Augusto, essa assume quel volto austero, monumentale che oggi resta documentato dall'arco che costituiva la porta meridionale, mentre a nord sorgerà il ponte di Tiberio che completa l'immagine politica di Ariminum.
Maria Grazia Maioli ha ricordato poi che attorno all'arco sorgono due importanti siti. Nella zona a mare sembra trattarsi di un impianto termale; in quella a monte, a suo parere, doveva trovarsi una grande casa privata. Tra queste ipotesi e tanta passione, il lavoro archeologico procede per restituirci un'idea sempre più completa del passato.
La duplice conferenza dell'anfiteatro, prima manifestazione culturale dopo l'"inaugurazione" musicale di un anno fa, ha raccontato come si viveva nell'Italia di Roma, prima e dopo Cesare, e nella nostra città, tra fatiche d'ogni giorno, sogni di grandezza ed anche paure e distruzioni che i barbari provocano con il loro devastante arrivo nel III secolo: le case bruciano, e non sono più ricostruite. Sotto le fiamme cadono i tetti, qualcosa si salva per noi posteri, come nella domus di palazzo Diotallevi dove sorgerà poi una fornace.
Degli antichi splendori restano soltanto le ombre che oggetti deformati conservano ancora, proiettandole su di noi: sono gli oggetti eleganti che quella famiglia usava nei banchetti. Erano conservati in un armadio di legno. Il fuoco lo ha distrutto, ma cerniere e serrature sono rimaste sepolte ed oggi, grazie al lavoro degli studiosi della Soprintendenza e del nostro Museo, possono narrarci le loro storie segrete.
Anfiteatro/L' "impostura" dell'anfiteatro. [Ponte 32/05.09.1999]
Uno scavo del 1763: documenti inediti all'Archivio Comunale

Due inediti documenti del 1763 (custoditi presso l'Archivio Storico Comunale di Rimini) raccontano di una sconosciuta e privata campagna di scavi nell'anfiteatro di Rimini. Il muratore Stefano Innocenti chiese ed ottenne in quel settembre "di poter aprire un muro della Città sotto la Clausura de' Padri Cappuccini", la cui chiesa risaliva ai primi del ‘600, quando vennero alla luce alcuni resti del monumento romano.
I lavori di Innocenti produssero "moltissima terra" che fu gettata in un terreno comunale dato in appalto al signor Giuseppe Antonio Fabri il quale si lamentò di non poter più seminare il fondo, coperto di quella terra "e dalli rottami".
A dicembre il muratore è invitato a concludere i lavori. Aveva infatti avuto abbastanza tempo per "fare quelle osservazioni, che bramava, ed appagare abbondantemente la propria curiosità", inoltre era "necessario impedire quei scandali sotto la Clausura […] di rigorosa esemplarità" dei Cappuccini. Scandali che derivavano dalla rottura del "volto reale, che la copriva", per cui rimaneva "aperta la communicazione dell'esterno delle mura della Città colla Clausura" medesima. I Cappuccini avevano presentato "giuste doglianze" per questa "disdicevole" situazione. Occorreva accontentarli.
Innocenti non si era mosso per proprio conto, dietro di lui c'era lo speziale Angelo Cavaglieri, il cui "genio", a suo stesso dire, era quello di studiare "le cose antiche" della città. Quando al muratore impongono di chiudere il piccolo cantiere archeologico, lo speziale si rivolge al Cardinal Legato perché ad Innocenti siano concessi altri sei mesi per indagare sul "supposto Anfiteatro", spiegando che "questa sua impresa non è di pregiudizio, né ai muri della Città, né a verun altro". Attraverso quegli scavi, aggiunge, il muratore "non tende ad altro che a liberare la Città da un'impostura, che corre su questo Anfiteatro".
Lo speziale, parlando di "impostura", riassume bene il ‘clima' dell'epoca a proposito dell'anfiteatro. Pochi anni prima, il Temanza (1741) e poi il Marcheselli (1754) avevano negato agli avanzi di quel sito archeologico ogni carattere di antichità.
Ripercorriamo brevemente la storia delle conoscenze sull'anfiteatro, con l'aiuto di Luigi Tonini. Nel 1486 un atto notarile lo cita impropriamente come "teatro antico", con fornici allora detti volgarmente "le tane". Nel 1543 si fanno scavi: si scoprono marmi ed una statua senza testa e senza gambe, giudicata di Diana. Nel 1606, erigendo il convento dei Cappuccini, si trovano "cellae, seu camerae pro balneis".
Temanza parla solo di "alcune muraglie di antico edificio […] creduto in altri tempi reliquie d'Anfiteatro".
Per dimostrare appunto che non si trattava di resti importanti, lo speziale avvia la sua personale campagna di scavi. La richiesta di proroga, secondo i Consoli di Rimini, non aveva valore perché la pratica (anche allora la burocrazia non scherzava) era stata aperta dal muratore Innocenti. Non sappiamo come sia andata a finire, questa piccola, ma forse significativa vicenda.
Gli scavi decisivi furono quelli del 1843-44 che convinsero "anche i più ritrosi", fra i quali Tonini inserisce se stesso. Altri scavi ci furono dopo il 1927, ma oggi, da quando (nell'immediato dopoguerra) parte del luogo (dove sorse l'"Asilo svizzero") è stata riempita di macerie, ci troviamo nella stessa situazione del 1844.
il Rimino n. 39. 30 luglio 2000. Anfiteatro, auto-abuso comunale.
Muro di cemento armato senza licenza.
La vicenda ha dell'incredibile. Il Comune prima innalza un muro abusivo di cemento armato all'Anfiteatro romano. Poi deve abbatterlo.
Sabato 29 luglio ha scritto il Corriere di Romagna che il dirigente comunale Pierlugi Foschi si assume ogni responsabilità, ammettendo di avere sbagliato. L'assessore alla Cultura Stefano Pivato spiega che si tratta di qualcosa di mostruoso e di illecito.
Il Resto del Carlino rivela curiosi retroscena. Ecco che cosa ha pubblicato domenica 30 luglio:
"Della serie storie da 'garbino'. Giovedì pomeriggio, in consiglio, Gioenzo Renzi, An, chiede: sindaco, cosa c'entra quel muro in cemento che è spuntato nel bel mezzo dell'anfiteatro romano? L'assessore alla cultura, Pivato, prende cappello: "Tutto autorizzato dalla Soprintendenza", replica pensando ad una lieve soletta varata per sostenere una tribuna di tubolari destinata ad ospitare il pubblico di prossimi eventi. Tornando a casa Pivato, però, passa davanti all'anfiteatro e scropre un 'mostro': altro che soletta! Chiama il tecnico comunale e si sente confessare che si tratta di un suo errore. Un errore che equivale ad un 'abuso' edilizio compiuto nel bel mezzo di un monumento. Domani, comunque, scatteranno le ruspe. Martedì ne discuterà la giunta per prendere provvedimenti a carico del funzionario, appena privato del ruolo di coordinatore del museo per passare a quella di responsabile degli interventi sugli edifici storici. Ruolo anche questo dal quale sarà verosimilmente rimosso. Qui smette di soffiare il 'garbino' per lasciare spazio alla tramontana. La giunta fa di tutto per chiamarsi politicamente fuori da questa storia. Del resto il responsabile ha confessato. D'accordo, ma il funzionario è stato vittima di un colpo di sole o di errori nella sua carriera ne ha compiuti altri, visto che da tempo il suo ridimensionamento era nell'aria? Se quest'ultima ipotesi sta in piedi, allora la giunta non può cavarsela dicendo che con quel 'muro' non c'entra. Il problema non è tanto il 'muro', ma quello che c'è eventualmente dietro."
 
Il giorno prima, sabato 29 luglio, il Resto del Carlino aveva invece scritto:
"Finirà per rappresentare la bandiera della 'riminizzazione'.
E' una struttura in cemento armato con un fronte di circa 20 metri, larga non meno di 5, protetta da un muro di sostegno alto circa 5 metri.
Dove è stata realizzata una struttura così destinata ad ospitare tribunette per spettacoli e curata dai tecnici dell'assessorato alla Cultura?
Niente meno che nel cuore dell'anfiteatro romano, proprio di fronte all'ingresso principale.
E' stato Gioenzo Renzi, An, a denunciare, ieri sera in consiglio comunale, questo "abuso edilizio commesso dal Comune in un'area nella quale il prg prevede la demolizione degli edifici soprastanti, la ripresa degli scavi archeologici, la sistemazione a verde". Renzi ha chiesto se la Soprintendenza e gli uffici comunali abbiano autorizzato questo blocco di cemento armato al centro dell'anfiteatro e se esso non sia, in ogni caso, da radere al suolo.
C'è quasi da scommettere che nel giro delle prossime ore le ruspe entreranno in azione per abbattere il mostro. Da quanto è stato possibile accertare ieri sera l'opera in cemento armato, fatta così, non avrebbe l'ok della Soprintendenza. Si vedrà."
il Rimino n. 41. 5 agosto 2000
Anfiteatro, auto-abuso comunale.
Il caso del muro costruito dal Comune di Rimini nel proprio Anfiteatro.
Fatti di ordinaria cultura riminese.
Gli sviluppi del caso Anfiteatro.
Alla fine Foschi è finito al "muro"
Il sindaco ha tolto ieri all'architetto Pier Luigi Foschi e passato all'ingegner Massimo Totti l'incarico di responsabile degli interventi di restauro sui beni di interesse storico. E' il primo provvedimento fatto scattare sulle spalle del dirigente comunale resosi responsabile del varo del muro in cemento armato, del tutto abusivo, realizzato nel bel mezzo dell'anfiteatro romano. Sempre ieri la giunta ha nominato l'ingegner Italo Delli Ponti quale collaudatore del muro in questione. Delli Ponti deve verificare l'entità del manufatto, realizzato per abbracciare una tribuna, e garantire che la sua eliminazione non faccia franare il terreno sovrastante sul quale insiste parte dell'asilo svizzero.
Non è detto che il muro sia fatto fuori (sempre che sia possibile tirarlo giù) prima del 13 agosto quando scatterà una rassegna di film muti nell'anfiteatro. Primo film, denso di assonanze, 'Gli ultimi giorni di Pompei'.
Anfiteatro, «un monumento da redimere» ["il Ponte", 46, 2002]
Attualità di un saggio di Aurigemma del 1933

Un antico (1933) e breve saggio di Salvatore Aurigemma sull'Anfiteatro romano di Rimini, è riproposto da Ghigi editore in un piccolo volume che reca la preziosa presentazione di Martina Faedi. I nostri lettori conoscono già la sua firma e la qualità dei suoi studi, grazie agli articoli che va presentando su «Il Ponte», ricavati dalla propria tesi di laurea in Archeologia.
Martina Faedi ripercorre qui, con la consueta lucidità e documentazione, la storia moderna dell'Anfiteatro, partendo dalla fine del XV secolo quando s'incontra in un documento notarile (1486) la prima menzione di quei resti romani, detti allora «Le Tane».
L'Anfiteatro, uno dei tre grandi simboli cittadini dell'età antica assieme ad Arco e Ponte, rappresenta allegoricamente qualcosa anche per le vicende del 1900. Cito soltanto pochi elementi, per lasciare al lettore il gusto di leggere direttamente le pagine della nostra studiosa.
Nel 1926, Salvatore Aurigemma, Soprintendente alle Antichità dell'Emilia Romagna, inizia una campagna archeologica che fa seguito a quelle ottocentesche e che prosegue nel 1930, con l'intenzione (ricollegabile al culto fascista della «romanità») di «riportare il da sempre bistrattato e dimenticato anfiteatro romano alla dignità e alla maestosità» degli altri due monumenti cittadini. Nel 1932 «il Comune decise lo splateamento ed il livellamento generale dell'antica area», con lavori che iniziano due anni dopo.
Nel 1935 Aurigemma scrive al Podestà che l'area degli scavi era diventata un campo da gioco per i ragazzi e, secondo voci circolanti a Rimini, anche luogo di esercitazione per i militari della caserma d'artiglieria di via Castelfidardo.
Saltiamo al dopoguerra, quando anche per l'Anfiteatro si censiscono danni causati dalle bombe alleate, e quando, come scrive Martina Faedi, «la situazione, se possibile, peggiorò ulteriormente». Parte dell'area fu poi ceduta all'«Asilo Svizzero», mentre il resto è una comoda discarica pubblica, nonostante i divieti comunali.
Gli interventi succeddutisi fino al 1963 e i restauri degli anni Ottanta, per quanto benemeriti, hanno lasciato invariata una situazione critica, se non drammatica, sino alla fine di quelli Novanta, quando l'area archeologica è stata aperta al pubblico.
Aurigemma, nel suo articolo apparso sulle «Vie d'Italia» (rivista gloriosa del Touring Club), definiva l'Anfiteatro un «monumento da redimere». E così concludeva: «Rimini possiede la sua ridentissima spiaggia e i suoi gloriosi monumenti. Un tale patrimonio, mentre è gloria e fortuna, è anche impegno d'onore». Le sue parole valgono anche per l'oggi. Come osserva in fondo al suo saggio Martina Faedi, l'area dell'Anfiteatro ha «grandissimo valore» e, «se curata bene, potrebbe portare ulteriore lustro» alla nostra città.

["il Ponte" 1, 2003]
Cari lettori, nel mio articolo sul saggio di Martina Faedi (v. ultimo «Ponte» del 2002), alla fine non ho più parlato di Aurigemma (che definiva l'Anfiteatro un «monumento da redimere»), ma erroneamente di Mansuelli.
Dalla memoria è saltato fuori a sproposito quel cognome che c'entra in apparenza come i cavoli a merenda, ma che invece è dovuto ad un (senile) accavallarsi di ricordi corretti: perché come osserva anche la collega nel testo (alle pp. 16-17) ed elenca nella nota bibliografica al suo interessante lavoro (p. 21), Guido Achille Mansuelli pure lui scrisse di anfiteatro e di Rimini, anzi di «Ariminum», come s'intitola il suo testo uscito a Roma nel 1941.
«Cara Rimini». Dietro i lustrini del gran circo.
...una lettera per descrivere la città, o da scrivere a lei.

[Da "Pagina Aperta" ("il Ponte", n. 27, 21/7/1996) riproduco la lettera "alla Città" Dietro i lustrini del gran circo, che intendeva aprire un dibattito. Nessuno riprese il discorso sulle colonne del Ponte, in compenso l'idea fu realizzata dal Carlino riminese. (Cfr. "Storia del Ponte" 1996: "La pubblicità turistica ufficiale definisce Rimini con "undici parole al sole": "Mitica. Vicina. Solare. Complice. Soave. Dinamica. Notturna. Aperta. Nobile. Intelligente. Instancabile".)]

Nelle mie private intenzioni, quest'articolo vuole essere una lettera per descrivere la nostra città, o da scrivere a lei (ad essa, per i puristi). Dovrebbe servire a spiegare concretamente una proposta che ho fatto in fretta al direttore del nostro giornale: affidare alla penna di alcune persone, che vivono ed operano tra noi, il compito di svolgere lo stesso tema di queste righe.
Il direttore ha già capìto di che cosa si tratti, ma adesso devo comprenderlo io. «Confidando nella pubblicazione della presente», siccome non sono un teorico mi faccio un esempio a mio uso e consumo: credo che avesse ragione «don Benedetto» (Croce) quando scriveva che uno non può dire di avere in testa un bel quadro, bisogna che lo dipinga.
Lo so. Le parole di Croce sono più intelligenti ed eleganti delle mie. Dato che (come derideva Palazzeschi), «ci sono professori, oggidì, a tutte le porte», per chi legge armato di matita rossoblù mi corre l'obbligo di fornire giusta etiamque legittima citazione. Allora, vedasi B. Croce, Aesthetica in nuce, Laterza, III ed. (1954), pag. 21, al capitolo intitolato «Intuizione ed espressione»: «Un'immagine non espressa, che non sia parola […] parola per lo meno mormorata tra sé e sé […] è cosa inesistente».
Proviamo a mormorare qualche parola, entrando direttamente nel tema. Cominciamo da una pagina pubblicitaria che ho sotto gli occhi, dai settimanali di giugno, dove si legge: «Rimini. Undici parole al sole». Segue l'elenco. «Mitica. Vicina. Solare. Complice. Soave. Dinamica. Notturna. Aperta. Nobile. Intelligente. Instancabile». Per la verità, stando al buon senso le «parole al sole» dovrebbero essere soltanto dieci. Come fa ad essere al sole anche la Rimini «notturna»? E poi, ma non per pignoleria, la Rimini «solare» che sta «al sole» non è un'inutile ripetizione?
Questa pubblicità ci obbliga a riprendere almeno uno di quegli undici aggettivi, o al contrario ci autorizza a scartarli, non citandoli per non apparire privi di fantasia?
La Rimini «nobile» qual è? E che cos'è? È l'eleganza dei suoi monumenti, sono le geometrie del pensiero umanistico che traducono nelle linee armoniose del tempio di Sigismondo un sogno di perfezione che alimentò le utopie dei filosofi del Quattrocento italiano? È la luce che il tempo aveva offuscato, e che i restauri hanno restituito al suo originale splendore, il quale commuove il visitatore odierno, obbligandolo a riflettere che quella tonalità cromatica, che la patina dei secoli aveva deturpato e cancellato, è la stessa che videro i Malatesti, l'Alberti, gli uomini e le donne della sua corte?
Ma per contrasto, la Rimini «nobile» potrebbe anche essere quella decaduta, abbandonata ed avvilita dell'anfiteatro, l'illustre e sconosciuto monumento romano che potrebbe diventare simbolo delle incurie pubbliche, avendo in buona compagnia sia il palazzo Lettimi (ancora lì con le sue macerie della guerra), sia il teatro che non c'è, che rassomiglia agli scenari di cartapesta dove i fotografi di inizio secolo facevano infilare la testa di una persona, per ritrarla con un vestito o su di uno scenario dipinto. Del teatro c'è la facciata, ci sono due sale, ma non c'è l'anima stessa da cui discende la parola. Non c'è un palcoscenico, non c'è una platea. E continuano a chiamarlo teatro.
La Rimini «nobile» è quella dei ricordi del Kursaal distrutto non dalle bombe ma dagli uomini, come pure la chiesa di Sant'Antonio sul porto canale, all'inizio della ricostruzione post-bellica?
Dal punto di vista sociale, Rimini è più «nuova borghesia» che «vecchia nobiltà» (l'osservazione è pertinente, o vado fuori tema?). Non ho scritto «vecchia borghesia» di proposito: questa aveva certi galatei che adesso non usano più. Rimini è la città dalle mille vetrine di lusso, una delle più ricche d'Italia, dove i consumi sono altissimi, dove l'ostentazione è un mito sociale che affascina e coinvolge senza più distinzioni ideologiche, e purtroppo senza moralità alcuna.
«Instancabile», Rimini produce altissimi redditi per un numero sempre più limitato di persone. Ma impone modelli di comportamento, rispetto al quale non tutti riescono a tenere il passo. Mi si potrebbe obiettare che tutta l'Italia è così. Non ci credo. Basta informarsi un poco, leggere, guardare certe immagini televisive (sui giornali sono scomparsi i reportage fotografici: va di moda mettere a fianco di un articolo la scena di un film). Non tutti possono scialare, vivere lussuosamente.
Rimini fa moda fuori di Rimini. Chissà perché, quello che avviene qui fa tendenza. E non sempre con le cose migliori. Quei ragazzi meridionali che ogni mese salgono dal Sud per un fine settimana, da vivere ballando o sballando, spendono, lo dicono loro, sulle 400 mila lire per volta. Questo tipo di vita che finisce per essere assorbito anche dal proletariato urbano (mi scuso per l'uso di queste vecchie categorie socio-economiche che suonano antiquate nel marmellatume corrente), è più «mitico» che «intelligente». Ma a cosa servono i miti?
Rileggevo alcuni giorni fa un articolo di Giorgio Tonelli, apparso dieci anni fa sul Ponte a proposito del libro di Federico Fellini intitolato La mia Rimini. Tonelli riassumeva, con la maestrìa abituale, il senso delle pagine felliniane: la sua Rimini era tutta romana, tutta inventata, tutta di sogni (e di cartapesta nella realizzazione filmica).
Dove sta il «mito»? È quella visione poetica, illusoria (o allucinante) del passaggio del Rex che, testimone la generazione di Fellini, a Rimini non è mai passato? Il mito è, oggi, lo slogan pubblicitario che «qui non è mai tardi»? Ma dietro questa facciata da esportazione, dietro la pubblicità, qual è il vero volto della città? È quello della vita estiva? Ma la nostra economia non è solo turismo. È quella del corpo esibito sulla spiaggia nella sua snellezza abbronzata, o anche il passo incerto di tanti anziani, di tanti giovani a cui la vita ha riservato un diverso destino?
Parlando dell'«anima Rai», un suo vecchio dirigente, Pierluigi Celli, l'ha definita «variopinta. Un circo. E non lo dico con disprezzo. Io sono di Rimini e ho un gran rispetto per il circo, in senso felliniano. Un luogo fatto di decadenza e lustrini». E se anche Rimini fosse un po' circo, nel senso felliniano di «decadenza e lustrini»?
Noi ci barcameniamo, a livello anche politico, nel pensare una città che d'estate lavora e d'inverno deve stare in letargo, per cui ai problemi (grandi o piccoli) non si può pensare d'estate, e d'inverno è meglio lasciar perdere.
Esagero? Un esempio, per non farla lunga. Al traffico sono stati dedicati sondaggi, rilevamenti, progetti, indagini, inchieste. Ma l'anello intermedio tra vecchia e nuova circonvallazione, con il previsto (fine anni Sessanta!) ponte sul Marecchia non si è completato, e la circolazione è strozzata. E così il gemello (o in alternativa il tunnel) al ponte di Tiberio è rimasto una pia intenzione.
Abbiamo quei parcheggi sotterranei, promessi, garantiti sulla carta, previsti dall'oggi al domani? In compenso, tassiamo anche la sosta al mare. Le amministrazioni comunali hanno fame di soldi. Governare i Comuni costa. Lapalissiano. Ma è possibile che si debbano introdurre nuovi balzelli tipo «gratta e sosta»? Può ancora definirsi «aperta» questa città che accoglie il turista, allungando la mano, richiedendo una forma nuova e legalizzata di elemosina (per non parlare delle multe vigilesche)? Una città simile è ancora «intelligente»?
Cara Rimini (a differenza dei tuoi amministratori, vecchie conoscenze personali, che dopo aver io scritto qui sopra certi articoli di critica verso di loro, quando m'incontrano fingono di non vedermi per non aver il piacere di salutarmi), non te la prendere per la mia sincerità. «Amor mi mosse, che mi fa parlare».
Post-scriptum. «Ma c'è chi non capisce/ e preferisce il mondo/ così com'è: immerso in un pattume» (E. Montale).

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