Così la penso io (qualche pagina)

Gare di dolore

Qualche settimana fa, rispondendo ad una ragazza crudelmente ferita, ho scritto: "Non è vero che il dolore non serve a niente". Questa frase è stata variamente interpretata e molto discussa.
   "No, Brunella", scrive per esempio Maria B., "il dolore non serve mai a niente, è una condanna inutile inflitta a tutto il genere umano per peccati non da noi commessi". Be', non risaliamo troppo "per li rami", adesso; lasciamo perdere Adamo, Eva e il serpente, è di noi che stiamo parlando, dei nostri errori e dolori. Io penso tuttora che il dolore possa servire: se non altro a maturare. A volte però può anche inacideire, corrodere, spegnere. Non esageriamo dunque coi poteri educativi e taumaturgici della sofferenza. La scuola del dolore non mi persuade affatto.
   " E' limitativo dire che il dolore può servire a qualcosa", scrive invece una lettrice che si firma, non a caso, Dolores. "Il dolore, e solo il dolore, serve a formare gli esseri umani! Io sono stata cotta nel dolore. Disgrazie, malattie familiari, ma soprattutto la miseria, una miseria degradante che ha bollato la mia esistenza come un marchio. Tu che parli di dolore, Brunella, che ne sai del patire inenarrabile della miseria? Che ne sanno le tue lettrici? Niente, meno di niente. E per questo non hanno imparato a vivere. Io invece dopo tanto patire ora sono forte, serena, superiore a tutte le piccinerie umane, che non possono più toccarmi. Il dolore patito mi ha elevato sopra tutto e tutti, è rimasto in me come una grande eredità, un prezioso retaggio. Compiango i figli di papà che non avranno mai il prezioso retaggio del dolore."
   Per prima cosa, contesto questa identificazione del dolore con la miseria. Forse che i figli di papà, solo perché esenti dalla miseria materiale, sono esenti anche dalle malattie, dagli inganni, dall'amore ferito, dalla morte di chi amano, dalle tante imprevedibili facce del dolore? Ci sono esposti come tutti: con la differenza che forse (dico forse), essendo cresciuti nella cosiddetta bambagia, non saranno in grado di difendersi col coraggio e con la volontà di chi è cresciuto tra le spine e ha dovuto sempre lottare per vivere. Se è questo che si intende dire, mi associo. Ma se si intende fare un panegirico del dolore come grande scuola, inestimabile eredità, prezioso retaggio e così via, allora no, mi dissocio energicamente. Ad eccezione dei fachiri e dei masochisti, soffrire non piace a nessuno. I martiri volontari, gli idolatri del dolore, mi ispirano diffidenza o irritazione. Rispetto il dolore, non la retorica che lo accompagna.
   Forse io non sono stata abbastanza "temprata" dal dolore. Non lo so. Io non porto, è vero, il "marchio" della miseria. Ma ho dentro di me, come tutti, altri marchi. Non ne farò l'elenco: queste gare di dolore mi sembrano grottesche e mortificanti, oltre che noiose. Dirò solo che alcuni di questi marchi, ancora oggi brucianti, mi hanno "forse" maturata: ma certo non mi hanno resa "superiore". Essere superiori vuol dire poter guardare con distacco l'umanità che ci sta intorno. Io questo distacco non l'avrò mai. Non voglio averlo. L'eredità che il dolore mi ha lasciato è stata, credo, proprio l'opposta: quella di farmi sentire più intimamente parte di questa umanità, col suo bene e il suo male, le sue lotte, i suoi vaneggiamenti, la sua brancolante precarietà.
   Questa, io penso, dovrebbe essere la scuola del dolore: non scuola di elevazione, ma di partecipazione. Sarà che manco di spiritualità. Ma anche l'allegria e la speranza, secondo me, sono un retaggio prezioso.


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