Antonio Montanari.
Fame e rivolte nel 1797.
Documenti inediti della Municipalità di Rimini.

Appendice. Una fame da morire. Carestia a Rimini, 1765-1768.


il Rimino - Riministoria
Quand [les paysans] se virent réduits à l’extrémité, le désespoir leur fit détruire leur propre bien et prendre un fusil pour errer dans les montagnes, y guetter les passans et faire le métier de voleurs et d’assassins sous le nom de milice."
M-H. De Saint-Simon, Histoire de la guerre des Alpes ou campagne de 1744 par les armées combinées d’Espagne et de France, Amsterdam 1770 *

Sommario
Capitolo 1. La crisi del 1796, anarchia e miseria
Capitolo 2. "Infestazione della Campagna", gennaio 1797
Capitolo 3. "Governo Francese", 5 febbraio 1797
Capitolo 4. Petizione al Cittadino Bonaparte
Capitolo 5. Plebe, briganti e ribelli
Capitolo 6. "Disturbo della Fiera di Morciano"
Capitolo 7. Perdonati i ribelli di Sogliano
Capitolo 8. Incursioni a San Mauro e Santarcangelo
Capitolo 9. La repressione militare
Capitolo 10. Tavoleto brucia
Capitolo 11. Dopo la clemenza, la fucilazione


1. La crisi del 1796, anarchia e miseria

Dopo la pace di Tolentino del 19 gennaio 1797, una serie di disordini si manifesta nelle Municipalità di "montagna" tra Romagna e Marche e nei territori del Riminese. L’episodio più celebre è l’incursione armata compiuta da drappelli di malviventi "montanari" fra il 21 ed il 26 marzo a San Mauro ed a Santarcangelo, allo scopo di "prender il grano" [1]. Messi in fuga dalle truppe francesi, i "sediziosi" si ritirano al Castello di Tavoleto che il 29 marzo è saccheggiato ed incendiato dai soldati napoleonici: muoiono diciotto paesani, tutti maschi tra cui un bambino di circa nove anni ed un anziano sacerdote gravemente malato, don Gregorio Giannini.
L’episodio, al pari di molti altri, è solitamente inserito nel vasto quadro dell’"insorgenza in Romagna" (1796-1801) contro l’invasore d’Oltralpe ed a sostegno dello spodestato regime pontificio. Le notizie inedite che possiamo ricavare dai documenti della Municipalità di Rimini (e che riporteremo dettagliatamente in seguito), ce lo mostrano invece come conseguenza di una situazione di profonda crisi economica, le cui origini politiche sono anteriori all’occupazione francese. L’arrivo dei soldati di Bonaparte non fa altro che aggravare la condizione sociale precaria e squilibrata che già esisteva nel giugno 1796, al primo affacciarsi delle armate repubblicane in Romagna, quale risultato di alcuni fenomeni strutturali, come l’inadeguatezza delle istituzioni centrali nell’azione di governo, e la conflittualità permanente tra il potere romano (incapace di dettare norme rispondenti alle necessità reali), e quello locale, costretto a fronteggiare senza mezzi e risorse le emergenze di vario tipo che si manifestano di continuo nell’ordinaria gestione della cosa pubblica.
Da tali emergenze derivano istanze che sono legate ad interessi di singoli gruppi sociali oppure a particolari situazioni di città e paesi, e che si scontrano prima con un sistema burocratico ormai senza più prospettive, e poi con gli effetti dell’invasione francese. All’apparire di Napoleone, anche nella società civile riminese troviamo una divisione che oppone fazioni repubblicane (ma non sempre filo-francesi) a gruppi conservatori o reazionari. La gestione della vita politica diviene sempre più incerta, a tutto vantaggio dei "conquistatori", e con l’aggravamento delle condizioni delle classi poste alla base della piramide sociale. A tali classi, le quali avvertono immediatamente le prepotenze del nuovo potere, subendo i danni delle requisizioni e dei furti commessi dai soldati, non interessa granché difendere il passato governo, dal quale hanno subìto soltanto torti ed angherie, né tanto meno rimpiangerlo in un inutile sogno di restaurazione, ma soltanto preme di sopravvivere con il ricorso a gesti poi variamente interpretati [2].
A parlare di insorgenti sono ufficialmente le autorità francesi il 6 marzo 1797, per bocca del Comandante della Piazza di Rimini Lapisse, riferendosi ai protagonisti di quanto accaduto nell’Urbinate [3]. La Municipalità di Rimini qualifica come insorgenze le imprese dei contrabbandieri [AP 503, 26.3.1797], dopo aver parlato di "Insorgenti ne’ Territori di San Giovanni in Marignano, e di vari Luoghi limitrofi dell’Urbinate" in una notificazione del 2 marzo, che vedremo in seguito; mentre la Chiesa romagnola, costretta a sposare la causa repubblicana e ad ordinare la "sommissione, e ubbidienza agli ordini della Potenza che comanda" [4], può deprecare soltanto che "lo spirito della discordia, coperto col manto della Religione, abbia spinto un numero di forsennati ad impugnare le armi" [5]. Dopo il tramonto definitivo dell’astro napoleonico la Chiesa riprenderà a considerare i francesi come nemici della Religione, e si ricorderà dei giorni del 1792, quando aveva cercato invano di contrastare la bufera rivoluzionaria che, dopo il successo di Valmy, aveva investito l’Europa [6]. Saranno così considerati insorgenti e sostenitori del potere romano anche quei "tumultuarj, e seduttori" che assieme ad "altri simili Briganti" ed ai "torbidi Paesani", secondo il pensiero di Lapisse, avevano agitato "la quiete, e la tranquillità dei Comuni" nel 1797. Gli storici di parte laica considereranno gli insorgenti in maniera molto diversa, ed in relazione unicamente al 1799: secondo Farini, "la solita vanguardia dei nuovi signori" ("Tedeschi e Papa") è costituita da quegli "insorgenti o briganti" che formano le "orde di facinorosi" che terrorizzano la Romagna [7]. Antonio Bianchi, un cattolico sufficientemente conservatore per non apparire reazionario, rammenta che nello stesso 1799 "molti villani sollevati" fanno crescere il disordine, commettendo "molte ladrerie ed insolenze sotto il manto di proteggere la religione; e da quest’epoca quando si dice un "viva Maria" (motto ch’era sempre in bocca di quella canaglia), s’intende un birbante ladro" [8].
Nella valutazione di eventi come quello di San Mauro, Santarcangelo e Tavoleto, spesso prevale un metodo di indagine che privilegia non l’analisi dei singoli episodi, ma la loro classificazione in corrispondenza di categorie storiche predeterminate e finalizzate alla dimostrazione di una specifica tesi. In tal modo, l’antica e complessa questione su che cosa debba intendersi per "insorgenza", perdendo di vista i dati di fatto, si riduce ad una serie di dilemmi, se quegli eventi siano cioè momenti di ribellione ideologica oppure strumenti di conservazione; espressioni di istanze sociali oppure sfruttamento di primari bisogni economici a scopo politico.
Il termine di "rivolta" usato nel nostro titolo, intende richiamare quei "disordini" e quelle "divisioni" [9] che si presentano come rifiuto della legge, proprio in momenti nei quali non si sa che cosa essa sia, e da quale autorità promani. Questo succede non soltanto nei giorni drammatici del 1797 dopo l’occupazione, quando il potere sorge dalla violenza di un governo imposto manu militari, ma anche nel luglio ’96, allorché dalle località di campagna si chiede un intervento contro "Sedizioni, e Prepotenti" alla Municipalità di Rimini, la quale risponde ai Priori di San Giovanni in Marignano di confidare che qualcuno prima o poi si adoperi per punire "chi turba la pubblica quiete, e non si presta all’obbedienza delle Pubbliche Rappresentanze": "siamo al momento di aver già i Francesi, e di vedere stabilito nel Governo l’Eminentissimo Legato [10]; dagli uni o dall’altro dei quali si attendono gli opportuni provvedimenti", in vista dei quali si raccomanda "la più fine prudenza per tenere dolcemente in freno codesti Sedizioni, e Prepotenti" [11].
Il suggerimento della "prudenza" sembra nascere dall’impossibilità di controllare la vita pubblica. Anche ai Consoli di Talamello [AP 502, 3.7.1796], si esprime analogo concetto. È stata sospesa la spedizione della somma relativa alla contribuzione dovuta ai francesi in base all’armistio del 23 giugno, "per non esporla al furore de’malcontenti" [12]. La decisione è approvata come epressione di zelo e prudenza. Si propone di effettuare l’invio con sicurezza "in un momento di quiete" e con la scorta del Parroco. (Non sempre il clero, come leggiamo a proposito del "tumulto" di San Vito [AP 502, 8.7.1796], ha la necessaria "cura" di calmare gli animi in rivolta, preferendo darsi alla fuga nel momento del pericolo.) Pure ai Consoli di Talamello quelli di Rimini propongono di avvertire i "dissidenti dell’imminente arrivo in questa Città delle Truppe Francesi, e del prossimo ritorno dell’Eminentissimo Legato nella sua Residenza, onde in riguardo di quelle, e di questo, cessino dalla colpevole loro opposizione al comun destino" [AP 502, 3.7.1796, cit.].
Le due forze nemiche (il Legato e l’invasore repubblicano), per la Municipalità riminese avrebbero potuto vicendevolmente surrogarsi sul campo, anziché eliminarsi in base alla più elementare delle regole politiche, secondo cui il comando lo si esercita uno per volta, altrimenti è guerra con un nemico (interno o straniero che sia). La speranza, non diciamo la pretesa, che i francesi od il Legato punissero comunque "dissindenti", "sediziosi" e "prepotenti", maschera la volontà di non giudicare il significato delle singole rivolte. Si finge di ignorarne scopi e caratteri, ponendo involontariamente le premesse per ipotetiche, beffarde situazioni in cui i "papaloni" avrebbero corso il rischio di esser colpiti proprio da chi sostenevano, così come gli spiriti rivoluzionari più o meno accesi avrebbero potuto incontrare la repressione da parte dei loro idoli in armi. Forse l’aspettativa più caldeggiata era quella che i contendenti si neutralizzassero a vicenda, confidando nell’impossibile equipollenza delle forze in campo. Ma anche questo era un modo di schierarsi ideologicamente contro ogni potere, considerato come estraneo e soltanto repressivo, in un sogno municipalistico [13] che lo Stato coincidesse soltanto con le mura della città, e non si estendesse in quel complesso di legami che rimandano a più vasti orizzonti, troppo spesso attraversati dalle guerre e dai loro bagagli di sofferenze, miserie e paure, duramente sperimentate nel corso di tutto il Settecento.
I Consoli di Rimini confermano la loro sensazione di impotenza in un "Pro Memoria" [AP 502, 12.7.1796] inviato al Governatore della città ed in copia al Legato di Romagna, entrambi espressione della stessa autorità centrale. Rimini è percorsa "continuamente da Forastieri appiedi provenienti dalla parte di Roma, i quali ànno l’aspetto di persone o fuggiasche, o vagabonde". A Roma (lo si è appena appreso dal "corrier di Venezia"), era stata minacciata un’insurrezione ed "i timori non erano per anche cessati". "Questi nuovi incidenti esigono che nel Governo vi sia ora unità, fermezza, e fors’anche severità. Disgraziatamente però accade tutto il contrario".
Al Legato si chiede di pronunciarsi se le "disposizioni esecutive per il buon ordine, e per la tranquillità pubblica" debbano esser emanate dai Consoli medesimi oppure dal Governatore, facendolo ritornare "nella piena autorità" di cui disponeva prima dell’invasione francese [14]. Occorre, si aggiunge, uscire da un’"incertezza" da cui "nasce una debolezza, una lentezza, ed un conflitto nelle provvidenze, che si prendono, che si può temere vada a finire in un’Anarchia" rovinosa.
"La Guardia Civica, che à finora servito con buona volontà, con attività e prontezza", osservano i Consoli nello stesso documento, "è caduta per le anzidette ragioni in un languore pericoloso, e che può fors’anche divenire funesto". Quando il Legato dismette la Guardia Civica, con il bando del 18 luglio [15] con il quale notifica pure il suo ritorno in sede [16], il Governatore di Rimini informa i Consoli [AP 502, 19.7.1796] che il suo ufficio "non è provveduto di un numero sufficiente di Birri" a causa della bassa paga, due scudi al mese contro i sei sborsati dalle città di Bologna, Ferrara e Lugo che così si accaparrano sul mercato gli uomini necessari, lasciandone privi la nostra. I Consoli, a loro volta, con un altro "Pro Memoria" [ib.] avvisano il Legato che, non potendo aumentare tale paga di due scudi, sono costretti a far continuare la Guardia Civica per "non compromettere la Pubblica Tranquillità"; e denunciano che, per il servizio del Bargello, la Comunità paga ogni anno alla Reverenda Camera Apostolica la relativa tassa di 451 scudi (quasi 38 al mese), mentre dalla stessa Camera il Bargello riceve soltanto 8:60 scudi al mese, che debbono bastare per lui, per un "conveniente" numero di uomini e per il carceriere [AP 502, 16.11.1796]. Quei 451 scudi versati a Roma, si sottolinea nel "Pro Memoria", basterebbero per soddisfare una compagnia di sei birri pagati sei scudi al mese, per un totale annuo di 432 scudi.
Lo scarso stipendio passato ai birri provoca il fenomeno delle "estorsioni": "Di fatti è loro costume di mettere in contribuzione i Forastieri, e i Cittadini, esigendo da quelli una mancia pel loro passaggio, e riposo, e da questi generalmente una dose di ogni sorta di comestibili che vendono, o in natura, o in danaro, e talvolta ancora l’uno, e l’altro reiterandone l’esazione, se non per ogni Individuo ammeno per ogni squadra. I gravati si dolgono secretamente per non esporsi alle Loro avanie, e si riffanno della perdita sul prezzo, o sul peso delle robbe che vendono"[17].
I Consoli riminesi si trovano costretti dal Legato [18] ad aumentare le paghe ai birri [19], dopo aver proposto di poter "ritenere nel conto dei Pesi Camerali" l’importo delle nuove paghe, "a propria reintegrazione". La decisione della Comunità riminese riassume una condizione di disinteresse e di abbandono da parte dell’autorità centrale, intenta unicamente a raccogliere denaro dai propri territori, e non ad amministrarli secondo le precise esigenze che da essi emergevano. In un secondo tempo, il Legato promette di far compensare "o in tutto, o in parte su quella somma, che da codesta Comunità si paga in Camera a titolo di Bargello" [AP 496, 30.11.1796, c. 42v.].
La temuta "anarchia" in effetti esiste già. Nessuno sembra voler più obbedire alle norme in vigore. Quando all’inizio del luglio ’96 i Consoli di Rimini, "su istanze de Molinaj, e del Popolo", spediscono a Verucchio la Cavalleria civica per impedire la deviazione delle fosse Patara e Viserba verso le coltivazioni di orti e risaie in quel territorio (con danno dei mulini a valle, impossibilitati a funzionare), non c’è soltanto la prevedibile e violenta opposizione di quella popolazione, organizzatasi in drappelli "di gente armata" per garantire "i deviatori delle acque", ma pure quella dello stesso Governatore di Verucchio che avrebbe dovuto conoscere la legittimità dell’intervento riminese al fine di ristabilire il rispetto delle convenzioni stipulate [20].
Le prepotenze dei verucchiesi, come si denuncia in un esposto al Legato [AP 502, 10.8.1796], fanno correre il rischio all’Annona riminese di esser messa in ginocchio: se il furto delle acque fosse continuato, essa si sarebbe trovata costretta ad inviare a macinare il grano nella città di Fano. Le deviazioni compiute oltre che a Verucchio anche (seppur in misura minore) a Scorticata e Santarcangelo, aggravano una situazione di forte siccità e di "evidente pericolo della fame" [AP 502, 12.7.1796]: si è al momento di vedere impedito del tutto l’esercizio dei mulini "ed affamata una numerosa popolazione, senza speranza che le farine altrove proccurate con molta spesa dall’Annona possano supplire al bisogno di tutti quelli che non possono macinare e che sono perciò costretti provvedersi ai pubblici spacci di quel pane che in diverso caso fabbricherebbero le proprie case" [AP 502, 10.8.1796].
Il raccolto del 1796 è di "non molto" superiore a quello del 1795, quando per soddisfare le esigenze della città fu necessario provvedere a "diverse compre e prestanze" di grano: l’Annona romana ne fornì duecento staia, subito "ridotti in farina, e consegnata al fornaro, ed allo spacciatore senza esserne immagazzinata né in natura né in farina"; il Vescovo di Rimini mons. Vincenzo Ferretti ne offrì altre duecento; la parte a carico dei produttori (il 67,33 per cento del raccolto "quotizzabile", dopo aver cioè detratte decime, sementi, parte colonica e "consumo dei Possidenti"), fu di 5.294 su 7.862 staia. Le "compre" assommarono a 3.491 staia, per raggiungere un totale di 9.185 staia. [21]
Quando nell’agosto 1796 il Legato intima di provvedere il grano necessario alla città nella stessa misura minima dell’anno precedente [22], gli Abbondanzieri di Rimini gli fanno presente che, per semplice "conseguenza matematica", da un raccolto prevedibile di poco superiore alle 7.862 staia del ’95 non si sarebbero potute prelevare le 9.185 staia rimediate nell’anno precedente con prestiti a Roma, regali del Vescovo e le ricordate "compre": "È manifesto che l’esecuzione di quest’ordine è intrinsecamente impossibile", non potendosi costringere i proprietari a "dare di più del totale" del loro raccolto [AP 99, 1.9.1796].
Inoltre, se nel 1795 l’Annona è stata in grado di acquistare parte del grano necessario, ora si trova con le casse vuote, né può costringere i proprietari a fornire tutto il raccolto anziché la sola quota del 67 per cento. Circa la mancanza di fondi, gli Abbondanzieri osservano che il danaro necessario non si trova perché la città è "senza credito" fuori dallo Stato, e dentro di esso "siamo senza danaro effettivo, perché la contribuzione, le spese necessarie hanno esaurite tutte le casse". Il crear debiti contro cedole farebbe aumentare il prezzo del grano del 30 per cento ed anche più. Circa l’ipotesi di costringere i proprietari a fornire tutto il grano anziché i due terzi del raccolto "quotizzabile" rinunciando alla vendita della parte restante, gli Abbondanzieri sostengono che, se la misura fosse adottata, si creerebbe "un incaglio generale in tutte le Arti, in tutte le professioni". Ne deriverebbero "incalcolabili" conseguenze: "Toltine pochi Facoltosi, gli altri tutti, se di giorno in giorno non fan danaro in proporzione delle spese che ànno colle vendite della quasi unica derata preziosa, che posseggono, quale si è il grano, non sono più in caso, né di pagar mercedi, né le Tavola, né gli Artisti, e molto meno i pesi del Principe" [ib.].
C’è da tener presente un altro dato: "Una buona parte de migliori Artisti, e di Persone, ch’esercitano professioni liberali, non vivono del Pane dell’Annona. In Rimino poi specialmente tutti i Marinaj, che formano una Classe di circa tre mila Persone [23], non vivono, né viver possono di Pane a minuto". I marinai infatti "e per abitudine, e per necessità si provveggono del grano a minuto nel pubblico Mercato due volte la settimana. Fabbrican essi per mezzo delle loro famiglie una qualità di pane particolare per gusto, e per la forma, che trasportano in Mare: né potrebbero, o saprebbero adattarsi a quello dell’Annona, che non può resistere ai dieci, o dodici giorni di navigazione. Quando l’Annona avrà fatto suoi tutti i grani, dove si provvederanno gli Artisti, dove i Marinaj?" [ib.].
D’altra parte non si può pretendere che, a soddisfare i bisogni della città, intervengano le Comunità del Contado e di altri Territori, perché sarebbe "distrutta ogni circolazione del grano", e quel poco che fosse sottratto alla "Generale inquisizione" salirebbe "a prezzi eccedenti": ecco "un nuovo funestissimo effetto non meno per la pubblica tranquillità che per la Annona medesima" [ib.]. Non essendovi più quel calmiere il quale assicurava tranquillità alle Annone [24] e la giustizia a proprietari e poveri, per evitare che il ritiro del grano a "quasi tutti i venditori" ne provochi l’aumento di prezzo, si suggerisce al Legato di confermare la regola "di assicurare una parte dei grani riscossi per l’Annona, lasciando l’altra a comodo della pubblica circolazione, onde prevenire i mali gravissimi di sopra indicati, che sicuramente nel sistema proposto sarebbero innevitabili, sì pel Povero, che pel Ricco, che per la Pubblica Cassa" [ib.].
Il prezzo del grano lievita da 5,40 a 6,25 scudi al sacco, con un aumento del 15,74 per cento [25]. Sale anche il compenso per i molinai [26], da essi sollecitato con un’istanza [27] provocata dall’"aumento generale delle spese" e dal mancato adeguamento della tariffa al costo del grano: il compenso in vigore di dodici baiocchi per staio, è lo stesso di quando il grano si vendeva a tre scudi il sacco, mentre i privati per macinare danno "quindici scodelle di grano" al sacco, equivalenti a trenta baiocchi. I molinai espongono anche i costi del servizio, che così elencano: quattro baiocchi per il "trasporto del grano, e della farina", uno per nolo dei sacchi, uno "pel trasporto della farina al magazzeno supperiore", ed un altro infine "per l’aiuto necessario in portar la farina dalla pesa al magazzeno", per un totale di sette baiocchi sui dodici riscossi. Con quei cinque baiocchi che restano, dichiarano i molinai, "non possono vivere".
Gli Abbondanzieri si adoperano per tutelare gli acquirenti di granaglie a misura (e non apeso) dal "furto mal accettato, impunito", commesso da "Possidenti, Affittuarj, e Mercanti, Venditori" che ottengono un frutto illecito del tre, quattro o più per cento, usando in maniera scorretta la "cassella" ("recipiente di legno formato a bigoncio", capace di un quarto di sacco), e la "rasina", "che serve a radere quel di più di grano, che sopravanza in colmo sopra l’orlo della misura". Quanti comperano a misura, cioè in piccola quantità, appartengono alla fascia economicamente più debole della società: la loro capacità di acquisto è già diminuita dall’aumento del costo del grano ed è condizionata dalle loro scarse disponibilità: il "furto" compiuto ai loro danni sul peso, li impoverisce ulteriormente [28].
Nella suplica inviata l’11 agosto 1796 [AP 502] dai Consoli di Rimini alla Sacra Congregazione del Buon Governo, si dichiara che il sistema prescritto nel 1795 "di dare sette oncie fisse di pan commune a bajocco" [29] non è più sostenibile "senza l’eccidio della communità", la quale a tutto agosto 1795 ha perduto scudi 5.350:27:9, "e nel cadente anno annonario andrà a perdere in fine dell’anno circa scudi 7.000" [30]. L’Annona riminese "ha dovuto caricarsi di un debito di circa scudi diecimila al cinque per cento" [31], che si è aggiunto ai "debiti di Peste, Fame, Guerra", per soddisfare i quali si pensa ad "un nuovo aggravio che s’imponga sull’estimo". Il quale aggravio andrà ad opprimere "il nervo sostanziale della popolazione cioè i coloni in modo che saranno costretti cessare dalla necessaria agricoltura sebbene siano quegli che meno profittano del pan commune cibandosi ordinariamente di legumi". Al proposito va ricordato che si è registrata la "mancanza de Marzatelli, e Fagioli nella presente stagione" [32].
I Consoli sono consapevoli di "quanto sia necessario mantenere la quiete e la tranquillità nel popolo fondata principalmente sul buon peso del pane: ma non per questo" essi dimenticano i rischi del "sistema annonario sull’articolo del peso fisso del pan commune", che chiedono di modificare "onde conciliare un metodo annonario che sia utile sì alla popolazione ma che non porti alla ruina della Comunità, presso alla quale necessariamente viene quella della stessa popolazione".
Alla "misera utilissima Classe di Coloni" ed ai "Poveri Contadini" si fa riferimento in un altro documento consolare del 31 agosto 1796 [AP 502], in cui si denuncia l’amministrazione iniqua della giustizia ai loro danni, con "il giro del Cancelliere in campagna per l’abbolizione delle Querele" e con il "procedere in ciò senza il Decreto del Giudice con inumanità, ed estorsione": in tal modo non sono osservati gli ordini legatizi "per l’apposizione ad ogni querela del Decreto del Signor Governatore, ingiungendo l’obbligo al Cancelliere di farlo ostensibile a Persone senza eccezione destinate a garantire i Poveri contadini dalle avanie". Al Legato, in occasione del suo passaggio a Rimini il 7 luglio [33], durante il suo viaggio di ritorno da Fossombrone a Ravenna, è già stato fatto presente il problema: il Cardinal Dugnani ha assicurato "che per quest’anno il Cancellier Criminale non avrebbe fatto il giro della Campagna per l’abbolizione delle querele affine di non inquietare per questa Causa i contadini, che sono per tante altre angustiati": ma da venti giorni, denunciano i Consoli al Legato il 3 ottobre [AP 502] "il Cancelliere medesimo si aggira per la campagna, e n’escute gli Abbitanti per le rispettive querele, in modo, che se ne sentono non poche doglianze". Alla Municipalità, scrivono i Consoli, spetta "sempre ma specialmente in questi tempi di procurare la quiete ed il sollievo della Popolazione, ed in particolare dei Rustici, che ne formano la Parte più essenziale, ma la più povera, e la più esposta alle avanie" [34].
Nel documento consolare del 31 agosto, a proposito del "riparto delle contribuzioni" raccolte per i francesi, si sottolinea che la "maggior parte di detti pesi" piomba "sui Laici, soggetti di più a tutti i Dazj, ed alla restituzione del debito pel Tremuoto [35], compresavi la misera utilissima Classe dei Coloni". A guadagnarci, come avremo modo di vedere più in dettaglio, sono stati gli Ecclesiastici che non hanno pagato in proporzione delle loro proprietà, secondo quanto risulta dai calcoli degli estimi.
Nel corso dell’ultima "messe del Grano", proprietari, affittuari dei terreni ed artieri hanno rinnovato i reclami contro il divieto assoluto "di ricever grano dai Contadini in isconto de loro crediti", introdotto nel 1793 e rinnovato l’anno successivo [36]; divieto che si chiede di cancellare "per il bene, per la quiete di questa Popolazione": esso, spiegano i Consoli di Rimini al Legato, nuoce a tutti. I proprietari sono costretti a "corrispondere i pesi Camerali, ed altre gravezze, anche per la parte Colonica", senza poter utilizzare l’"unico mezzo, che loro rimane di esser rimborsati" dai coloni stessi, ovvero il "Grano raccolto sui loro fondi di parte rusticale". Gli artieri, "quelli cioè, che sogliono lavorare pei contadini, e per gli attrezzi Rusticali", si vedono privati del "solo fondamento di esserne soddisfatti in tanto grano sulla riccolta". I contadini, infine, senza più "la speranza di ripetere i Loro crediti in Grano" ai padroni ed agli affittuari, "non trovano sovvenzione dai primi ne’ loro maggiori bisogni, né credito dagl’altri pei necessarj lavorieri: dal che nasce un altro danno ai Possidenti, ed all’istessa Università [Comunità] di vedersi cioè abbandonata la coltura de’ Terreni, e per l’impotenza de’ contadini mancanti di sostentamento, e per la deficienza degli attrezzi rusticali". Inoltre i contadini sono costretti a "vendere i loro Grani sulla riccolta in quel tempo cioè, che n’è più vile il prezzo per essere eglino soddisfatti in contante", impoverendosi in tal modo ancor più. Il Legato accetta la richiesta riminese e sospende "il divieto di ricevere Grano, e Marzatelli dai Contadini sulla riccolta a sconto di debito" [AP 496, 20.7.1796].
Proprio dal contado giungono ai Consoli di Rimini molte lettere di Parroci e Giusdicenti che invocano la restituzione delle armi da fuoco, necessarie ai loro "dipendenti" per difendersi "dai Forusciti, e Assassini, che infestano la Campagna" [37]. "Fervorose istanze" al proposito sono state presentate al Legato il 7 luglio nel già ricordato suo passaggio per Rimini, e rinnovate all’Uditore di Camera dai Deputati al Congresso provinciale: tutta la popolazione "e particolarmente la numerosa e poco docile Marineria, ardentemente desiderano quella restituzione"; "il differirla più a lungo potrebbe cagionare del malcontento purtroppo pericoloso in queste circostanze, tanto più in vista che molti Comuni di questa Provincia non si sono fatte depositare dette armi" [38]. La Municipalità di Rimini si dice favorevole alla restituzione delle armi, ma "con quelle cautele, che ne assicurino il buon uso" [39]: il momento è critico, ed esse potrebbero esser usate a sproposito. Ad esempio, è stato un bene che nel citato "tumulto" di San Vito "non abbiano potuto armarsi i Contadini" [40]. Il Legato autorizza la restituzione delle armi il 15 luglio [AP 496], precisando il 20 [ib.] che va rispettata l’eccezione di "quelle proibite in primo grado, se ve ne sono".
I problemi maggiori per il mantenimento dell’ordine pubblico riguardano i contadini ("esposti ai derubbamenti, e crassazioni di fuorusciti, e vagabondi") ed i marinai ("intimoriti da funesti incontri per mare"); mentre la città di Rimini è "esente la Dio mercé da complotti, congiure, ed altre pericolose turbolenze" [41]. Ma che anche il capoluogo, in particolari circostanze, non vada ovviamente esente dai rischi di torbidi e tensioni, lo testimonia l’episodio accaduto alla fine di giugno, durante la raccolta della contribuzione per i francesi, alla quale sono stati sottoposti pure gli Ebrei: "Dovemmo a un tempo procedere al loro arresto onde sottrarli da quegli insulti che una certa malafede del Popolo, avrebbe potuto accagionargli" [AP 502, 22.7.1796].
Da parte loro quegli "Ebrei dimoranti con negozio da lungo tempo in Rimini" [42] avevano temuto che nel "passaggio delle Truppe Francesi" potessero esser "molestati per raggion d’avere per Comando Pontefficio il solito segno nel Capello", che fu loro concesso di togliere dopo il versamento alla Comunità riminese di un "dono gratuito" di cinquecento scudi: in realtà, il "dono" fu fatto, come scrivono i Consoli di Rimini [43], "in luogo di darci conto del loro peculio, e del valore de rispettivi negozj, come da noi esigevasi". La Municipalità, soddisfatta della generosa offerta, versata oltretutto in moneta e non in oggetti preziosi, tralascia di sottolineare che essa andava contro le leggi: l’importante era riempire le casse pubbliche il cui stato diviene sempre più "lagrimevole" [44].
In simili circostanze, non è più "possibile continuare i pagamenti ordinarj", mentre non ci si può lusingare di prendere denari ad interesse "perché la Città, la Provincia ne sono sprovviste, e non si ha credito presso gli Esteri": "In un vuoto così terribile nel presente e più ancora nell’avvenire non abbiamo noi risorsa" [45]. Non resta altra strada che invocare un intervento superiore. I cittadini di Rimini, "oppressi dalle correnti miserie", si vedono ordinare da Roma di rispettare con la massima puntualità i debiti con la Tesoreria "per adempiere i Comandi del Principe, e il dovere di sudditi": dopo di che, scrivono i Consoli al Legato [AP 502, 3.12.1796], ai riminesi "mancherà il mezzo per continuare" le spese ordinarie e straordinarie, non restando alla fine "che il partito di crear nuovi debiti". Anche al Tesoriere di Romagna Bottoni si fa sapere che "il sopracarico dattoci dal Principe" e le "nuove, copiosissime spese" militari hanno "esaurita la Pubblica Cassa" [AP 502, 17.12.1796].
Intanto non si trova chi voglia prendere in appalto la Depositeria Generale [46], come già accaduto nel triennio 1791-93: "In oggi l’attuale moltiplicazione dell’esigenze, la difficoltà somma di eseguirle, la straordinaria incombenza che si dispone al Depositario pel riparto della Contribuzione, e molto più per le diversità della moneta e delle Cedole che obbliga tenere due casse distinte, e più ministri, hanno indotta ne’ Cittadini tanta avversione" alla carica "che difficilmente riuscirà l’esecuzione" dell’appalto, "malgrado i pubblici incanti continuati per più di tre mesi" [AP 502, 3.12.1796, cit.].
Il 27 dicembre [AP 502] i Consoli presentano al Legato una vera e propria dichiarazione di fallimento della città, "affine di riparare alle angustie cagionateci per la provvista alle Truppe" [47] che il Papa prepara per riprender la guerra con i francesi [48]: "lo stato passivo della città" risulta da una "scopertura" di 3.475 scudi e da 158.644 scudi di debiti. I Consoli impetrano "un Commissario che riveda la nostra Economia e che ne comini a’ Signori Superiori l’impossibilità di reggere ad altre spese": "Quelle che ci sovrastano per servizio del Principe sono tali che onninamente la Comunità non può subirle per se stessa". Non è possibile l’"acquisto di tanta copia di generi" ordinati dalle autorità militari (cioè, dal cap. Mazzagalli "subbispettore delle Truppe in Romagna"): il territorio riminese manca "di quell’abbondanza di Foraggi che occorerebbe a tanta provvista massime in quest’anno", e non è possibile procurarli altrove perché lo "stato corrente delle nostre casse non ammette verun ulteriore pagamento", stante anche il fatto che "abbiamo finora cercato inutilmente denaro ad interesse". La presenza delle truppe comporta "uno spaccio straordinario di pane comune, che l’Annona è forzata dare ad once sette alla sua Popolazione, e con danno sempre maggiore".
La questione della spesa per il pane comune è affrontata anche nella duplice istanza inviata dai Consoli riminesi alla Segreteria di Stato ed alla Congregazione del Buon Governo sulla "Situazione ruinosa della Pubblica Cassa" [AP 502, 29.12.1796], ribadendo come essa, "senza un pronto riparo" provocherà l’"eccidio della classe dei Coloni, che senza goderne il vantaggio soccombono alla metà del riparto sull’estimo". L’istanza illustra l’"impossibilità fisica, e morale di soffrire nuovi aggravj", segnalando le spese finora sostenute dalla città, e che riguardano: a) l’estinzione delle rate del sussidio di 80.000 scudi oltre al pagamento dei frutti per il ricordato terremoto [49] del 1786; b) il "sopracarico" di circa 4.000 scudi occorsi per lavori al Ponte ed all’Arco di Augusto; c) la spesa straordinaria di 3.000 scudi "per l’amplificazione, e rettificazione della strada consolare, e dei suoi Ponti"; d) la nuova costruzione delle carceri (altri 2.500 scudi); e) "la vistosa perdita" di 11.000 scudi per il pane comune. "Gravissima è stata dippoi la perdita sulle Cedole che innondano la Città Nostra, fattale il dispendio avutosi di più di scudi 1.500 per le prime Truppe Pontificie, Brittaniche, e Napolitane", a cui si deve aggiungere l’altro di scudi 900 "pel mantenimento della Guardia Civica [50]: ma tutti assieme da non paragonarsi alla Contribuzione di 67, e più mila scudi data all’Armata Francese".
Il Legato, risponde in tono paternamente seccato: "niuna delle altre Città di questa Provincia" ha presentato istanza per aver riduzioni nelle spese relative al mantenimento della truppa pontificia [51]. Il Cardinal Dugnani si dimostra sicuro che lo zelo dei Consoli riminesi "per il ben pubblico" li avrebbe spinti ad avere la "compiacenza nel fare un sagrifizio" a favore di quella truppa "quì venuta per la sicurezza, e tranquillità" di tutta la Provincia. Rimini si sente abbandonata dalla Legazione, da cui non è mai giunta alcuna "provvidenza", confidano i Consoli al loro "Procuratore" a Roma, abate Giuseppe Quaglia [52] nella missiva [AP 502, 29.12.1796] di trasmissione "a sigillo alzato" delle due istanze appena ricordate, dirette alla Segreteria di Stato ed al Buon Governo. I Consoli si riferiscono a tre lettere inviate in precedenza al Cardinal Dugnani. Il 4 ottobre [AP 502], circa le istruzioni inoltrate il 28 settembre dalla Segreteria di Stato "per la difesa dello Stato" [53], si è fatto presente che a Rimini mancava la "polvere" per i soldati, e che non c’era il "danaro per acquistarla, e per supplire alle altre spese correlative". L’11 ottobre [ib.] si è scritto che "per le spese straordinarie non [h]avvi assegnamento alcuno", ed 13 ottobre [ib.], circa il pericolo di un’invasione immediata dei francesi e sull’impreparazione alla guerra, si è ammesso: "Noi manchiamo di danaro, di polvere, di fucili".
Le risposte del Legato sono state rigidamente burocratiche. Per Rimini non si poteva fare nessuna eccezione, sospendendo il pagamento dei Pesi Camerali, perché le altre Comunità avrebbero preteso lo stesso esonero [AP 496, 6.10.1796, cc. 38v-39r]. Circa i fucili, il Legato non ne forniva alcuno, ma anzi ne chiedeva cento da destinare alla difesa provinciale, tra quelli che "sono stati passati dal Castellano di questa Fortezza per uso della Guardia Civica". [AP 496, 18.10.1796, c. 40]. Per la paglia ed il fieno necessari alle truppe pontificie e napoletane che stavano per giungere, si ordinava un censimento "della quantità che Ciascun Contadino, o Proprietario crederà supeflua al bisogno proprio", al fine di calcolare su di essa le provviste militari [AP 496, 25.10.1796, c. 40v-41].
Il Cardinal Carandini, segretario della Congregazione del Buon Governo [AP 496, 7.1.1797], osserva che "la rispettabile somma di discapito" denunciata da Rimini è stata rimediata vendendo i grani "a minor prezzo del costo". Ci si deve comportare invece secondo le istruzioni "sempre" impartite, e regolare "il peso del pane in proporzione del prezzo dei Grani": "fissando per li Poveri il peso di sette once a bajocco, al pane di tutta farina non può esservi remissione, ed in caso che questa vi fosse può indenizzarsi col minor peso del pane fino". Alla rigida lezione, il Buon Governo non fa seguire nessun aiuto concreto.
Allo stato "lagrimevole" dei pubblici bilanci corrisponde quello altrettanto depresso delle casse private, prosciugate dal pagamento della contribuzione ai francesi. In una lettera della Municipalità di Rimini al Tesoriere dell’Armata repubblicana [AP 502, 2.7.1796], si legge che si è potuto "estorcere" dai concittadini e dai territoriali delle Comunità di Rimini soltanto la somma di 60.470 scudi [54] in "ori, argenti e moneta di Banco" [55], contro una cifra richiesta di 114 mila scudi. La Municipalità adduce come scusanti le "tante angustie di tempo" e la "comune miseria". Soprattutto i piccoli paesi si sono trovati in difficoltà nel reperire la somma imposta. A Petrella non c’era nemmeno il "numerario con cui soddisfare i pubblici operaj, e le altre minute spese", e si possedevevano soltanto quelle "cedole bancali venute in oggi a tanto scredito, che nemmeno colla perdita della metà si trova di cambiarle" [AP 502, 8.7.1796]. Ad Albereto si è usata "l’inumanità di levare alla povere Donne il poco oro di loro ornamento", ed "ai poveri contadini" le fibbie. Ai Priori di Albereto la Municipalità di Rimini precisa: "L’oggetto primario, che si deve avere in città nell’esigere la Contribuzione, è quello di non turbare i poveri ne’ loro tuguri per costringer solo colla forza, quando il bisogno lo richiede, le persone più facoltose della Comunità" [AP 502, 2.7.1796]. Anche su direttiva francese, si ordina la restituzione di quegli ori e di "altre cose che fossero state levate ai Poveri", ricordando che soltanto ai "Possidenti" toccava di provvedere alla contribuzione.
La condizione di povertà dei paesi dell’entroterra è documentata fra l’altro pure dal fatto che Rimini ha dovuto sborsare per essi ventimila scudi di contribuzione, cioè tremila in più di quelli versati per la città ed il proprio bargellato [ib.]: i francesi non avevano sentito ragioni, ogni località doveva versare la propria parte, e se non era in grado di farlo doveva pensarci la Municipalità resa responsabile della raccolta.
Non tutti i possidenti versano il dovuto. A Giuseppe De Carli, "uno dei migliori Proprietarj" di Rimini, le autorità inviano doppia sollecitazione con la minaccia di una "escussione militare" [56]. Nel frattempo c’è chi non sa come investire al meglio il proprio denaro: è il caso del Ministro del Signor Marchese di Bagno che "si trova avere una somma ragguardevole di Moneta fina" da prestare a "qualche Comunità" [AP 561, 29.6.1796]. "Molte famiglie assai ricche non hanno contribuito per niente", è la denuncia degli amministratori riminesi nel gennaio 1797, i quali accusano pure i "Signori Ecclesiastici" di essersi sottratti ai loro obblighi e di aver pagato quasi la metà delle quote calcolate in base ai loro estimi [AP 502, 31.1.1797].
Il pagamento della contribuzione ha eccitato gli animi: "Sediziosi, e Prepotenti" agitano la pubblica quiete, soprattutto nella campagna, tra fine giugno ed inizio luglio 1796. Sono quelli che Carlo Tonini [57] chiama "i principi di una deplorevole insurrezione trattenuta soltanto dallo spettro orribile e minaccioso delle sopravvenienti schiere di Francia", mentre la campagna si trova "esposta a grande pericolo per la moltitudine dei soldati dispersi, dei Birri fuori posto, e di vagabondi" [AP 502, 28.6.1796]. Dopo l’armistizio del 23 giugno, la Municipalità riminese ha faticosamente impedito "l’emigrazione di molti abitanti del Porto" [AP 502, 24.6.1796]. In quelle critiche circostanze, i Consoli, privi di "istruzioni per parte dei Signori Supperiori" e pertanto impossibilitati a "fissar verun piano che riguardi la pubblica salvezza e tranquillità" [AP 502, 21.6.1796], hanno preso i due unici provvedimenti che ritenevano possibili: "l’espulsione dalla Città nostra de’ vagabondi esteri" e la provvista della farina in gran quantità. Da parte sua il Vescovo il 24 giugno ha ordinato ai Parroci di esortare i fedeli alla quiete ed alla rassegnazione. Sulla stessa lunghezza d’onda, due giorni dopo [AP 999], la Municipalità raccomanda "al Popolo di rimanere quieto, e di conservare tutto il buon’ordine per non esser egli stesso responsabile di quanto potrebbe avvenire, e per di lui colpa, di cui si esigerebbe la più rigorosa ragione".
Il 29 giugno al Monte di Pietà di Rimini "riscuotono in tanta folla che non si è mai più veduta per pavura che li Francesi portano via tutto", scrive il cronista Giangi. È già accaduto nelle altre città romagnole che gli invasori facessero man bassa dei pegni. Il popolo può riscattare soltanto quelli leggeri: per i più consistenti, non giungendo le sue forze alle somme necessarie per riaverli, chiede un aiuto pubblico. I Consoli di Rimini li incorporano nella contribuzione francese, al solito frutto del cinque per cento. A Forlì, invece, i responsabili del Sacro Monte concedono la riscossione dei pegni "appena per la metà del debito contratto". A Faenza e a Ravenna i francesi restituiscono gratuitamente gli effetti "che non servono al lusso" e che appartengono ai poveri.
Precisa la nostra Municipalità nella "Risposta ai dubbi" dei Priori di Monte Scudolo: "Ora non è tempo di sorpresa, ma di azione. Si minaccia da un’Armata vittoriosa il Sacco generale se immediatamente non si contribuisce quanto essa dimanda" [AP 502, 30.6.1796]. L’8 luglio un "falso allarme" induce "i Contadini delle vicine Campagne, e gli Abitanti de’ Luoghi limitrofi" nel nostro territorio "ad abbandonare le rispettive Case, ed incombenze" [AP 999, 9.7.1796]. La Pubblica Rappresentanza cerca "di ricondurre i fuggitivi alla quiete, ed ai proprj esercizi con assicurarli" che si trattava soltanto di un equivoco. Giangi spiega che cos’è accaduto: quel pomeriggio giungono a Rimini da Cesena "molte persone, e poi da tutte le parti fugitivi per una voce falsa che li Francesi reclutavano a forza. Un bisbiglio, una premura in tutti tanto grande non si è avuta giammai, e da qui sono fugiti moltissimi". Una conferma del racconto del diario di Giangi, si trova in una lettera della Municipalità di Rimini che l’8 luglio [AP 502] scrive ai Priori di Verucchio: "Per una falsa voce che le Truppe Francesi si sieno introdotte nelle vicinanze, e vi abbiano fatte delle reclute, molti Contadini hanno abbandonate le loro case ed i loro lavori per mettersi in sicuro dalla temuta violenza sulla Montagna". Alcuni di quei contadini si sono diretti proprio a Verucchio. Per rassicurare gli animi ed assicurare l’ordine, la Municipalità di Rimini garantisce: "da Imola in giù non vi sono Francesi".
Gli umori di rivolta ed i disordini registrati fra giugno e luglio non sono dimenticati dagli amministratori riminesi i quali, appena giungono le istruzioni pontificie del 28 settembre "per la difesa dello Stato", criticano quella parte riguardante il "riscaldamento che si commette ai Parochi di eccitare nel Popolo della Città, e della Campagna": "dovendo pur troppo cadere sui buoni, che sui cattivi si corre gran pericolo, che abbusando i Secondi delle providenze dal Principato a pubblica Difesa lo ritorcano con dei falsi allarmi, come altre volte è accaduto in danno delle oneste persone e delle Case le quali nel momento, che una parte del Popolo chiamato dalla Campana si preparava alla pubblica Difesa, l’altra parte si abusava derubando, ed assassinando impunenete le abbitazioni". Secondo i Consoli, "a scanso de’ pericoli sovracennati" si dovevano avvisare il Vescovo, i Religiosi ed i Parroci di città e campagna che era "indispensabile una diligente continua custodia di tutte le campane" [AP 502, 4.10.1796].
"Dopo i proclami spediti a tutti i Parrochi, e dopo alcuni altri alterati, e promulgati con esagerazione, e fanatismo in alcune Terre, qualche parte del nostro Popolo, senza esser divenuta né più valorosa, né più armata, è divenuta totalmente indocile alla voce del consiglio, della prudenza, e della ragione". I Consoli lanciano un nuovo allarme al Legato [58], passando dal piano dell’ordine pubblico al discorso politico: "Senza acquistar forza per difenderci abbiamo diviso il Popolo in fazioni [59], le quali quanto sono impotenti a difendersi, altrettanto sono terribili per produrre mali gravissimi nell’interno, e per concitare il Nimico ad estendere il diritto di Guerra sopra le Case, sopra le Donne, e sopra tutti gli Abitanti innocenti, e disarmati, e per autorizzarlo al dilapidamento delle sostanze di ogniuno. Non possiamo mai credere, che la volontà del nostro pio, ed amoroso Sovrano sia quella di vedere inutilmente incendiate le case, violate le Donne, e innondate di sangue la Città, e la Campagna, con una resistenza, che non può essere, che dannosa".
Il Legato, che in quei giorni si trova a Rimini, non risponde alla provocazione di chi, anziché aderire alle iniziative militari del Pontefice, si dissocia pronunciandosi a favore di un accordo diplomatico con il nemico, per evitare i danni dello scontro armato. I Consoli in quest’ultima lettera, in base ad informazioni e documenti ricevuti da Bologna ed in riferimento alla notizia della "secreta partenza da Imola dell’Eminentissimo Signor Cardinal Chiaramonte", si dichiarano sicuri che "le Truppe di linea Francesi istigate, e secondate dalle Masse Bolognesi, e Ferraresi", sono in procinto di "invadere di nuovo questa infelice Provincia".
Merita una sottolineatura il passaggio in cui si accenna alle masse che secondano i francesi: nella realtà politica romagnola anche i cosiddetti giacobini più accesi sembrano in linea di massima non aver alcuna simpatia per la rivoluzione militare [60], e propendere invece verso una politica di riforme, la prima delle quali doveva essere la più traumatica (e quindi rivoluzionaria), cioè l’abolizione del dominio temporale, per arrivare alla quale si aspettano tempi più maturi e meno confusi. Questa interpretazione trova conferma in quanto accaduto dopo l’armistizio del 23 giugno, quando il generale divisionale Pierre-François-Charles Augerau ha cercato di conquistare la Romagna non con le armi, ma con una specie di referendum: preferite vivere con la Francia o con il Papa? È stato un viaggio inutile: "Il generale francese propose ai deputati la libertà di sottrarsi dal regime pontificio sotto la protezione della Francia; i deputati riposero che giacché gli veniva accordata la libertà di eleggere, amavano di continuare a vivere sotto il governo pontificio a scanso degl’indispensabili inconvenienti a cui si sarebbe andato incontro con un cambiamento di governo" [61]. L’atteggiamento dei delegati romagnoli (i due riminesi sono Marco Bonzetti, un "buon cattolico, schietto, ed amato da tutti", ed il "soverchiamente politico, mondano, e generalmente malveduto" conte Nicola Martinelli [62]), rivela una linea precisa: restare "sotto il governo pontificio" è la scelta del male minore, non l’adesione ad una politica, mentre contemporaneamente si rifiuta "un cambiamento di governo" traumatico. Anche per la nostra città vale un’osservazione dello storico pesarese conte Camillo Marcolini: "quantunque il governo degli ecclesiastici non fosse per sé stesso molto buono, ogni ordine di persone, ad eccezione forse di pochissimi, non desiderava né desiderar poteva quella libertà che i francesi ci recavano sulla punta delle spade" [63].
La lettera dei Consoli in cui si ritiene dannosa ogni resistenza ai soldati napoleonici, conferma la sfiducia che la classe dirigente riminese nutre verso il potere romano. D’altra parte, tale sfiducia non era però sufficiente per farla correre incontro ai francesi come a dei liberatori. I Consoli si rivolgono "all’equità, ed alla giustizia" del Sovrano per "un nuov’ordine ai Vescovi, ed ai Parrochi, col quale in di Lui Nome raffrenino un inutile ardore nei Popoli, e li renda nuovamente docili alla voce della prudenza, e della ragione" [64]. Gli amministratori della città, espressione di umori aristocratici fortemente radicati [65] e di spiriti innovatori legati al ceto borghese emergente [66], ritengono che la massa popolare debba esser tenuta a freno perché ogni sua mossa potrebbe sconvolgere quell’ordine che garantisce il loro prestigio sociale, indipendentemente da chi comanda. Tutto ciò che si può fare perché quella massa riesca a sopravvivere e resti pacifica (soprattutto in un momento così drammatico), è pure nell’interesse di chi esercita il potere politico, espressione di quello economico delle due caste, concorrenti fra loro, ma unite nella difesa dei privilegi posseduti da tempo o conquistati di recente.
Parlando del pericolo che l’ardore del Popolo scateni altri drammi e danni, i Consoli vogliono infine insinuare che quella massa potrebbe, con estrema facilità, allearsi al nemico francese piuttosto che coalizzarsi nella difesa del governo "romano", il quale finisce per costituire un paravento al fine di salvaguardare il potere che essi rappresentano in città. La scelta della massa non sarebbe politica, a giudizio della Municipalità riminese, ma semplicemente dettata da un istinto perverso che non ascolta la "voce della prudenza, e della ragione". La quale voce avrebbe dovuto suggerire ai reggitori della cosa pubblica di Rimini che, se le masse bolognesi e ferraresi, avevano istigato e secondato le truppe della Francia, qualcosa di diverso dalla semplice malvagità naturale cara ad alcuni filosofi ci dovesse pur essere nel suggerire adesione allo spirito guerriero. Ma, come spesso accade, soltanto gli altri debbono ascoltare la voce della ragione, perché si pretende di avere tutte le ragioni dalla propria parte.

2. "Infestazione della Campagna", gennaio 1797
Lo stato di inquietudine sociale provocato dalla preparazione della guerra, è testimoniato da una serie di episodi del gennaio 1797. Essi indicano l’aggravamento del malessere descritto dai Consoli riminesi, ed anticipano il clima di estrema tensione dei mesi successivi. A Bellaria si registrano violenze attribuite a "forusciti, tra quali sono stati veduti anche di zingari" [67]. La parola "forusciti" indica gli esuli politici filofrancesi che tramavano contro il potere romano. Il loro comportamento è più da briganti che da veri cospiratori politici contro l’ordine costituito. Essi infatti "e di giorno, e di notte vanno alle Case, e non solo contenti di mangiare, e bere, portano via ciò che possono avere: polli, agnelli, panni, ed anche ori e denari se ne ritrovano. Al Lavoratore di Gregorini, che sta vicino al Ponte dopo averli tolto trenta pavoli, e tre miserabili anelli d’oro, che facevano tutta la sua sostanza, lo regalarono di alcune giuncate. Al Lavoratore de Pavolotti dopo averli bevuto una quantità di vino, li amazzarono sino una scrofa pregna, e così hanno fatto a molti altri". I "poveri Contadini" della zona si trovano di conseguenza "in grandissima agitazione".
Il vice podestà di Monte Colombo, Giacomo Ugulini, il 3 febbraio annuncia alla Municipalità riminese che il popolo del suo paese è "stato eccitato alla diffesa" [AP 999]. Napoleone a Bologna il 31 gennaio, alla vigilia della dichiarazione di guerra, ha emesso questo proclama: "Qualunque Villaggio o Città in cui all’avvicinarsi dell’Armata Francese si dia campana a martello, sarà all’istante bruciata, ed i Magistrati ne saran fucilati". (I francesi proibiranno poi di battere persino il mezzogiorno, l’ora della tavola del Vescovo.) Ugulini considera le circostanze del momento "talmente imbrogliate pel diverso modo di pensare di questi Consiglieri, e Comunisti", che ha deciso di "fare una sollecita spedizione" alla Municipalità di Rimini, per "avere l’Istruzione del regolamento da tenersi", ben consapevole però che non sarebbe stato "facile render noto al popolo un prudente contegno", dato che esso era stato appunto "eccitato alla diffesa".
Appelli alla nostra Municipalità giungono anche dai Priori di San Giovanni in Marignano, e dai Parroci di Cattolica e di alcune frazioni del contado. Ai Priori di San Giovanni (sotto il titolo "Infestazione della Campagna"), si scrive: "Non il solo Territorio delle Signorie Vostre ma molto più le nostre vicine Campagne sperimentano i mali, ch’Elleno ci hanno esposti". Non ci sono però i mezzi per porvi riparo: "Ci mancano cavalli, ed armi per far batter la Campagna dalla Guardia Civica" [AP 502, 6.2.1797]. Al Parroco di Cattolica si ripete il discorso: "abbiamo riconosciuta la necessità" di provvedere ai "mali di cotesta Popolazione", come a quella di altre parti, "ma mancano per questo le Forze" [AP 502, 6.2.1797].

3. "Governo Francese", 5 febbraio 1797
I torbidi, dunque, non iniziano con il "Governo Francese", come la nuova situazione politica viene definita nei registri comunali di Rimini alla data del 5 febbraio [AP 502]. Da questo giorno la magistratura cittadina deve accordarsi con i militari repubblicani, il che significa in pratica sottomettersi alle loro volontà e delegare ad essi ogni possibilità e capacità d’intervento. L’Amministrazione Centrale dell’Emilia è stata creata nella ex Legazione di Romagna il 4 febbraio da Napoleone con un decreto pubblicato due giorni dopo a Ravenna dalla Giunta di Difesa Generale della Repubblica Cispadana. Gli Atti Pubblici di Rimini diventano con il loro silenzio la più efficace testimonianza di un esautoramento sostanziale del potere cittadino [68]. Il quale, sul momento, non dimostra inevitabilmente altra capacità che quella di alzare bandiera bianca. Il 2 febbraio, quando Napoleone ha ripreso le ostilità contro lo Stato della Chiesa, il Vescovo Ferretti ed il Governatore Luigi Brosi [69] sono fuggiti da Rimini, mentre le più distinte e doviziose famiglie si trasferiscono nei loro beni "in villa". La sera dello stesso 2 febbraio il Segretario della Municipalità, Niccol’Antonio Franchi, ha pubblicato questa "Notificazione" [AP 999]: "Rimane ora abbandonata la nostra Città dai Signori Superiori, che providamente la reggevano. Appartiene perciò alla Pubblica Rappresentanza di prenderne le redini, ed ai buoni Cittadini di prestarsi generosamente ai suoi bisogni". Il primo provvedimento che la "Notificazione" suggeriva, era di costituire subito per la comune tranquillità una Guardia Civica volontaria.
Un piano stabilito dalla Municipalità di concerto con il Comandante francese della Piazza militare di Rimini, "per rimediare efficacemente e sollecitamente ai disordini, che si commettono dai Forusciti nelle Campagne", è comunicato il 7 febbraio [AP 502] ai Parroci di Sant’Andrea del Crocefisso, Casalecchio e San Martino in Riparotta: istituire una Guardia Civica nelle "Ville del Bargellato", agli ordini di un militare francese, "affine di fare il giro notte e giorno delle rispettive Parocchie per arrestare, e condurre in Città que’ Vagabondi, che fossero trovati fuori della Strada Maestra, o Consolare per fare del male". I Parroci dovevano collaborare inviando "dieci uomini di coraggio", che saranno "spesati per tutto il tempo, che presteranno il servizio". La Municipalità garantisce che essi non sarebbero stati "mai né offesi, né reclutati", secondo le assicurazioni ricevute dallo stesso Comandante della Piazza di Rimini. La parola "forusciti" (usata in quest’ultima lettera) non indica più i sostenitori dei francesi alla macchia, ma i partigiani del Papa: essa torna come un’istintiva ripetizione burocratica, e quasi un confuso ricordo di una situazione ormai superata dai nuovi eventi. Ora s’accoppia al termine "vagabondi", meno preciso, anzi decisamente più ambiguo e quindi perfettamente adatto a quei momenti.
A Cattolica, "per le vessazioni e ruberie, che si commettevano, e si commettono", sono accusati "malviventi, e vagabondi, che hanno seguite, e seguono l’Armata Francese". Il "Cittadino Lapisse Comandante della Piazza di Rimini", attraverso la nostra Municipalità, fa sapere: "né soldati, né Ufficiali Francesi, o chiunque altro, possono pretendere, e molto meno esiggere dagli osti, ed abitanti di questa Terra nessuna sorte di viveri, foraggi, o altra cosa senza l’esatto, e puntuale pagamento, giacché la truppa che passa in Cattolica, riceve quì le Razioni necessarie pel suo camino fino a Pesaro" [AP 502, 9.2.1797]. La spiegazione funziona in via di principio. In realtà il comportamento degli occupanti non si ispira alle regole ricevute, se lo stesso Bonaparte il 7 febbraio scrive ai suoi soldati dal Quartier Generale di Pesaro: "Non mi trovo contento di voi", e minaccia di passare per le armi chi avesse "strapazzato, o attentato in verun modo, sia nella Persona, sia nella Proprietà del Popolo vinto", o recasse con sé "roba rubata". D’ altro canto i soldati di Napoleone sono straccioni soltanto alla ricerca di un bottino.
Il primo atto della nostra Municipalità che inaugura il 5 febbraio il "Governo Francese", è la "Rimostranza dell’impossibilità di contribuire all’Armata Francese i Generi richiesti", diretta al "Cittadino Teilard Commissario": il generale divisionario Victor Perrin ha inviato l’ordine "di non attendere a veruna requisizione di qualunque sorta, se questa non sarà segnata di mano dello stesso Sig. Generale a meno che non ci venga presentata per parte del Sig. Generale Bonaparte, o da un capo dello Stato maggiore". La comunità riminese è nell’"impossibilità di poter soddisfare alle domandate requisizioni, giacche qui mancano tele per camice, mentre quel poco che serviva per questa città, ne siamo stati spogliati per servizio della Truppa Pontificia". Circa i cappelli, si fa presente che essi "si provvedono fuori di Stato, quella sola fabbrica che qui esiste n’è sempre sprovista come potrà lo stesso Sig. Ispettore verificare". Per permettere la requisizione delle pezze di panno, la Municipalità indicherà "tutti li mercanti" cittadini a cui rivolgersi [AP 502]. Il 7 febbraio il Segretario della Municipalità pubblica un’altra "Notificazione" [FGSR], che intima la consegna di "tutte le Armi da fuoco, Sciabole, e Stiletti", per evitare "una domiciliare perquisizione". Intanto i francesi avvertono i romagnoli che hanno versato "soccorsi" al Papa: la Repubblica pretende da loro subito metà della stessa cifra, con l’impegno di pagare l’altra metà "di qua ad un mese" [70].
C’è un "continuo passaggio di Truppa Francese". Molti soldati "si allontanavano dai loro Corpi soltanto per le strade remote, entrando nelle case di contadini e guai se si trovavano le famiglie poco risentite mentre li spogliavano di tutto. Ma, al contrario, se incontravano in gente risoluta nessuno certamente di costoro ritornavano indietro perché li ammazzavano e poi li seppellivano, anzi, si sa per sicuro che capitorono nelle mani de’ villani li spogliavano, e poi li uccidevano e poi li sepellivano nei fossi, ne’ campi per le vie cometendo anche molte barbarie" [don G. Sassi, ms. in Biblioteca Malatestiana di Cesena].
Comincia a circolare per Rimini un lettera a stampa (datata 7 febbraio) che il Vicario Generale di Pesaro, don Luigi Pandolfi, ha inviato ai suoi "Cittadini Parroci": non ci sarà nessuna leva di soldati: quindi i Parroci dovranno farsi "premura di rasciugare il pianto di tanti miseri Genitori, spremuto amaramente dal volontario esilio de’ loro Figli, e di richiamare questi teneri Oggetti del loro amore, gli appoggi della loro canuta, ed inoltrata età. Così potranno di conserva attendere all’Agricoltura, o al Coltivamento di quelle Arti, cui sono applicati a loro privato, e pubblico vantaggio" [FGSR]. Il Vicario Pandolfi spiega poi di aver avuto assicurazioni sul rispetto della Religione e delle proprietà individuali, con la promessa di risarcimenti per i danni eventualmente arrecati dai soldati dell’armata francese nonostante le severe leggi imposte all’esercito. Il Pro-Vicario di Rimini, canonico Baldini il 18 febbraio avverte i fedeli che il Papa Pio Sesto, visti la penuria e l’alto prezzo dei cibi "che alla Quaresima si confanno", concede agli abitanti della nostra Diocesi poter usare anche latticini, uova e carni, con limitazioni relative ai primi quattro giorni della Quaresima, al mercoldì dei "quattro Tempi", al venerdì e al sabato di ogni settimana, ed agli ultimi quattro giorni prima di Pasqua [FGSR].

4. Petizione al Cittadino Bonaparte
Al "Cittadino Generale in Capite dell’Armata Francese in Italia Buonaparte li 7. Febrajo 1797", i rappresentanti della Municipalità riminese inoltrano una lunga petizione, nella quale espongono "la situazione deplorabile della loro Città per ottenere per essa tutta quella commiserazione, che, avuto riguardo alle circostanze, può meritare la di lei innocenza, ed il diritto che ha per ciò di essere esaudita dal cuore benefico, non meno che compassionevole" di Napoleone [AP 502]. Nel documento si prende "la cosa un poco più da lontano", per dimostrare "l’onestà della petizione" stessa, raccontando che nel luglio ’96 "quest’infelice Città senza la più piccola colpa per sua parte e solo per l’altrui acciecamento, fu costretta di pagare in tre giorni all’Armata francese la rispettabile somma di scudi sessantatremila settecento in moneta sonante di banco [71]. Questo pagamento per la ristrettezza del tempo, e per l’esorbitanza della somma fu non solo superiore alle forze de Contribuenti, ma non fu neanco eseguito colle regole della giustizia, poicché Rimino dovette improntare anche per quelle Municipalità che non avevano denaro".
"Per cumulo di sventura da molto tempo nel nostro povero Stato", prosegue la petizione, "non circola che o moneta, che per essere quasi tutta di rame si chiama erosa, o di carta, sotto nome di Cedole, quali il nostro Governo ha così aumentato di quantità, che a fronte della moneta la Cedola perde fino il cinquanta per cento". Per pagare in "moneta di banco" ("fina") la somma richiesta dai francesi, la Municipalità riminese fu costretta a "spogliare tutte le Chiese, e le Case dell’argento e dell’oro lavorato". Intanto il Governo promulgava un bando con il quale alla moneta "fina" veniva dato un aumento nominale del trenta per cento. Ma il bando "per delle ragioni particolari non fu promulgato in questa provincia", per cui a Rimini le "monete di banco" continuarono ad avere l’antico valore. Venne così favorita la loro fuga verso le province dove era riconosciuto l’aumento, e dove non si aveva più né moneta "buona" né materia per fabbricarla.
"In mezzo a tanta miseria ecco, che si è improvvisamente presentata la Vostra Armata", prosegue il messaggio a Napoleone: "Abbiamo dovuto cederle tutti i nostri Cavalli, siamo stati obbligati di provederla in fretta di pane, di carne, di vino, di foraggi, di biade, e di legna. Questo carico è forte, ma se a questo solo si fosse limitato il dispendio, noi ci si saremmo adattati con rassegnazione". Lo scritto ricorda che tutti i proprietari "si sono prestati, e si presteranno sempre volentieri, quando, o si richiedono generi che sono nelle loro mani, o quando la richiesta è proporzionata alle loro forze". Se i Commissari francesi "non bene istruiti delle angustie di questa povera Città, e della qualità de’ suoi prodotti, o chiedono somme maggiori delle sue forze, o generi, che non sono del suo suolo", bisogna che Bonaparte sappia come stanno le cose. Il Commissario francese "Tagliard" [Taillard] chiede l’impossibile: cioè vuole prodotti che vanno pagati in contanti ai mercanti per non ridurli alla mendicità, oppure merci che vanno ordinate fuori di Stato e pagate in quella moneta buona che non c’è. Le richieste, ammontanti a circa ventimila scudi, superano le possibilità economiche di Rimini.
La petizione ricorda anche che, nei mesi precedenti all’arrivo dei francesi, il Papa ha "esaurite tutte le nostre risorse forzandosi a dispendj, e sussidj straordinari per preparare una guerra, che è sempre stata disdetta dal nostro cuore"; e che i Commissari napoleonici, appena giunte le loro truppe, hanno preso quel poco che restava nelle casse cittadine. Rimini ha da sopportare infine il carico per il mantenimento delle stesse truppe francesi. In questa situazione, la città chiede "che la somministrazione de generi richiesti sia ridotta almeno alla sola metà, e che per quelli che non abbiamo sia in nostra libertà di somministrar loro tanto denaro nelle specie, che circolano nella Provincia, cioè parte in cedole, e parte in moneta erosa". Per le "pubbliche casse", la petizione propone di poter "esiggere non solo le gravezze, che sono della ragione della Città, ma che partecipiamo per l’avvenire anco di quelle, che erano della Camera Apostolica", per "sostenere almeno una parte delle grandiose spese a cui ci forzano le straordinarie circostanze nelle quali ci troviamo involti senza colpa, e senza delitti" [72].

5. Plebe, briganti e ribelli
Ecclesiastici e laici si lamentano con tanto di appelli, ricorsi, pubblici reclami. Al popolo non resta che accodarsi alle altrui proteste, ambiguamente sposando la causa dei ribelli e trovandosi come incomodi compagni di strada quei briganti che sono amici di ogni torbido e di ogni opposizione al potere costituito: ieri simpatizzanti per la libertà francese contro il governo pontificio, oggi essi appoggiano la parte romana nei fervori antigiacobini. Davanti ai bagliori delle armi bianche ed ai fuochi degli spari, nessuno dei plebei di città o di campagna s’interroga se, ai fini degli equilibri politici generali, sia più utile ribellarsi all’invasore o subirne la prepotenza. Anche loro, come gli uomini di ogni tempo, sanno che i fatti bisogna accettarli per come sono. Un povero mendicante che urla contro le insopportabili angherie di un soldato repubblicano, può finire a far massa con la nobiltà reazionaria o con quei borghesi che amano sì le libertà (soprattutto se esse li riguardano in prima persona), ma non l’eguaglianza sociale nei confronti di chi sta più in basso di loro.
C’è stato un momento della storia antica in cui tutto dipese da un cavallo. Al posto dei nobili quadrupedi, dobbiamo ora ricordare altri animali, più rustici ma altrettanto utili, i buoi. I soldati francesi li razziano in gran copia in alcuni paesi marchigiani, occupati militarmente in conseguenza della pace di Tolentino firmata il 19 febbraio: la sera del primo marzo ne transitano per Rimini duecentocinquanta, accompagnati da circa quaranta custodi [73]. Il convoglio, proveniente da Pesaro, è diretto al Nord con tappa a Cesena [AP 503, 1.3.1797]. Le nostre autorità civili ricevono "delle relazioni sicure che il Popolo delle Municipalità del Tavoleto, e dell’Auditore, che appartengono al Ducato di Urbino sono in comunicazione di complotto colle Municipalità di Monte Tiffi, ed altre piccole Municipalità di Montagna che dipendono da questa di Rimino, come anche col Comune di Carpegna antico luogo feudale. Chi ha ciò riferito assicura inoltre che detti Comuni dello Stato di Urbino spediscono degli Emissarj ne’ Territori delle Municipalità dipendenti di Rimino, cercando di fare in qualunque modo comovere il Popolo" [AP 503, 1.3.1797]. Questi "emissarj", presentati come agitatori politici, potevano invece essere semplici messi che correvano ad avvisare da un luogo ad un altro, per far mettere in salvo il bestiame prima delle requisizioni.
I francesi fanno paura in quei giorni anche per un altro motivo. Il 15 febbraio è scaduto il termine per il pagamento delle due contribuzioni, il residuo di quella del ’96 e quella del ’97. Chi non rispetta le regole, si espone "ad una esecuzione militare" [AP 503, 2.3.1797]. Non è forse una coincidenza strana che, laddove la somma prevista, da pagare in moneta e non in cedole, non è stata ancora versata alle casse dell’occupante, si formino gruppi di resistenza armata: succede ad esempio a Petrella Guidi, dove ci sono circa venti "malviventi" che non vogliono consegnare le armi, ma conservarle in casa per loro difesa [ib.].
A Mondaino "varj malintenzionati", le armi se le sono procurate con l’ammutinamento e scacciando la Guardia Civica: adesso "minacciano la vita, e le sostanze di quelli, che prudentemente si uniformano al nuovo Governo" [AP 503, 3.3.1797]. La lettera è diretta all’arciprete di Saludecio, don Fronzoni: le strade sono controllate da quei "sollevati" che intercettano le missive pubbliche, e la nostra Municipalità lo prega quindi di far sapere agli amministratori di Mondaino che non si può "sul momento far uso di quella forza che occorre per abbassare l’orgoglio" dei "varj malintenzionati", ma lo si farà "al più presto". Mancando le armi, Mondaino si regoli usando la "prudenza per sopire, se è possibile, il tumulto".
A Mondaino torna la quiete subito "per opera del Giusdicente, dei Sacerdoti, e delle Persone Probe". Il Comandante della Piazza di Rimini assicura "che si avrà tutto il riguardo" per quel paese, "in qualunque caso di spedizione di Truppe". Le Municipalità di Mondaino e delle località vicine sono autorizzate a disporre la Guardia Civica lungo il confine "coi luoghi sollevati della Provincia d’Urbino", "all’oggetto di allontanare i malintenzionati, e Briganti e esteri", ed assicurare quei territori dai "Malviventi, che vi fossero, e che tentassero di turbare" la quiete pubblica, facendoli arrestare, e tradurre sotto buona scorta [AP 503, 6.3.1797]. Se quei paesi non hanno soldi per mantenere una Guardia Civica, possono imporre un censo. Il pagamento ai Civici è ammesso soltanto nel caso in cui nel Comune "non vi sieno dei Proprietarj, o Benestanti, i quali possino servire la Patria senza pagamento, ed essendovi tali Proprietarj, dovranno essi del proprio pagare i Civici poveri, che fanno la guardia per loro, e che diffendono le loro proprietà". I proprietari obbligati per la Guardia Civica, sono quelli che non debbono "impiegare le loro braccia" per guadagnarsi la giornata [ib.].
A Montefiore si è data campana a martello, non contro i francesi, ma contro i "malviventi". I Parroci credono di essersi comportati correttamente. No, gli spiega la nostra Municipalità: "dovete comprendere il Pericolo, cui nelle presenti circostanze esponete le vostre Popolazioni" [AP 503, 3.3.1797]. All’avvertimento sull’azione sbagliata, segue un ammonimento in cui si intuisce e si espone ipocritamente uno scampolo di verità: "Vogliamo persuaderci che vi sia stata fatta qualche violenza; ma tocca a voi prevenirla con toglierne il modo di eseguirla". Sia ai signori di Mondaino, sia ai preti di Montefiore viene inoltrata copia delle disposizioni ai cui adeguarsi, per "promulgare ed insinuare la quiete" con una "energia" che compensi "l’usata facilità". Quando col Parroco di Sant’Ermete viene usata violenza, la nostra Municipalità passa la relazione ricevuta al Comandante della Piazza, "affinché la prenda in considerazione" [AP 503, 28.3.1797]. Non essendoci nessun accenno alla mancata prudenza del sacerdote, questi resta con il danno subito ma senza l’ammonimento inviato agli altri suoi confratelli. Pure a Monte Gridolfo è stata suonata la campana "a titolo di difesa ai temuti malviventi". Il Parroco ha però avuto la necessaria "diligenza" per "prevenire efficacemente le violenze del popolo allarmato". [AP 503, 3.3.1797]
La Municipalità di Rimini chiede ai militari francesi l’autorizzazione ad ordinare a quella di Monte Gridolfo di fare arrestare segretamente "certi malintenzionati" del paese segnalatisi per il loro "mal animo" [AP 503, 5.3.1797]. Lapisse, Comandante della Piazza di Rimini, accorda alla Municipalità di Monte Gridolfo "di poter far arrestare que’ tumultuari, e sedutori" che sono stati denunciati, a patto che essa sia certa "della loro perfidia": "Per tale arresto, e per quello, che accadesse di fare di altri simili Briganti, vi potrete valere della Guardia Civica" che a Monte Gridolfo come a Mondaino è concessa sui confini "ai luoghi in insurrezione dell’Urbinate, affine di tener lontani gl’insorgenti, e di tenere in freno i torbidi Paesani se mai vi fossero" [AP 503, 6.3.1797]. Dopo più di una settimana a Monte Gridolfo sono fermati tre uomini che vi si trovavano "sotto abito mentito" [AP 503, 14.3.17

6. "Disturbo della Fiera di Morciano"
Il 2 marzo la Municipalità di Rimini [SZ, ms. 1195, n. 59] pubblica una notificazione in cui si spiega che nei Comuni "ad Essa uniti, particolarmente della Montagna" vi sono individui che "fingendo di aver motivo di essere malcontenti del Governo Francese", diffondo notizie "false, ed insussistenti, onde tirare al loro partito i meno cauti, e i meno illuminati": si vuol "far credere, che il Papa non abbia fatta la Pace" già "solennemente stipolata"; e che "i Francesi siano in breve per reclutare nelle Terre, e nelle Campagne de’ Soldati per lo loro Armate". (Soprattutto questa seconda ‘notizia’ teneva allarmati i contadini per l’ovvio motivo che una sottrazione di braccia alla loro attività significava altro motivo di miseria.) Quei cittadini che diffondo le false notizie, cospirano "non meno alla rovina dei Paesi, che delle loro Popolazioni". Il segretario Niccol’Antonio Franchi ricorda a tutti costoro la "triste sorte incontrata dagl’Insorgenti ne’ Territori di San Giovanni in Marignano, e di vari Luoghi limitrofi dell’Urbinate, e molto più di altri della Marca, che per la follia di pochi sono stati esposti, alcuni al sacco, ed altri alla distruzione": "Chi degli Autori fugge ramingo il giusto sdegno del Governo, chi geme fra ceppi, incerti gli uni, e gli altri della propria vita, ma certi però della desolazione delle innocenti loro famiglie". Il giorno precedente, primo marzo, la Municipalità riminese ha scritto a quella di San Giovanni in Marignano: "Dal rapporto fatto dal Capitano aggiunto al Comandante della Piazza del risultato della spedizione costì fatta abbiamo luogo a credere che codesto paese sia affatto quieto. Si risparmia per ora d’inviare altra Truppa. Forse ve la spedirà il Generale Comandante dell’Emilia al suo ritorno. Intanto maneggiatevi, o Cittadini, per assodare nel vostro popolo la tranquillità; ma se per avventura accadesse qualche movimento in sinistro, sia vostra cura di farcene aver subito l’avviso, affine di provvedervi colla pronta spedizione della Truppa" [AP 503, 1.3.1797].
Nella notificazione del 2 marzo leggiamo pure che la Francia ci "apporta il prezioso dono della Libertà, ed assicura nel tempo stesso, che né la nostra Santa religione, né le Proprietà di chicchessia saranno toccate". Se "qualche inconveniente è accaduto in danno" dei contadini, non è colpa di quella Nazione, ma soltanto "un effetto di quella confusione, che non può evitarsi nei primi momenti delle Conquiste militari, ma che poi và a dileguarsi nella organizzazione del Governo". Tutte le Municipalità, tutti i Parroci "e le Persone probe" debbono "illuminare i Popoli sui loro veri interessi, onde far rinascere dappertutto la fiducia, e l’obbedienza alle leggi, ed alle Potestà costituite, per ottenere quella tranquillità, quella pace, che producono in fine la Felicità, ed il Bene universale".
L’Amministrazione Centrale dell’Emilia scrive a quella Rimini il giorno 4 marzo: "Con rincrescimento abbiamo inteso il trascorso commesso da alcuni mal intenzionati, i briganti, che si sono introdotti a Morciano. Non v’è dubbio che per la temerità di costoro siasi perturbata la pubblica tranquillità di quel luogo" [AP 901]. Morciano è un borgo diviso tra due Municipalità, San Clemente e Montefiore [AP 503, 7.3.1797]. Che cosa vi sia successo, lo spiega il 4 marzo la nostra Municipalità al "Cittadino Sahuguet Generale Comandante dell’Emilia" [AP 503]: c’è stata "la inaspettata terribile violenza commessa martedì scorso nella Fiera di Morciano [74] da varj Malviventi armati procedenti dalle Municipalità dello Stato di Urbino, che sono in insurrezione. Questi in numero di 30 circa, dopo aver forzate le Persone a deporre la Cocarda Francese, derubbarono varje paja di Bovj, quali erano stati comprati per servizio dell’Armata Francese" [75]. Vien da pensare che tra quei "varj Malviventi" vi fossero anche alcune delle vittime delle requisizioni operate a fine febbraio.
A Sahuguet si chiede di spedire immediatamente a Morciano per la successiva fiera di giovedì 7 marzo, "una forza armata, che assicuri tanto quelli, che vi portano il bestiame, quanto gli altri, che vanno a comprarlo, dalle violenze e rubberie dei sollevati dei Comuni dell’Urbinate", per evitare che il popolo di Rimini, delle sue delle Terre, e Castelli, e la stessa armata francese rimanessero "onninamente senza carne". Intanto l’autorità militare dichiara di aver "prese delle misure per il recupero delle Bestie, e per l’assicurazione degl’Insorgenti" [AP 503, 7.3.1797]. Il 7 marzo l’Amministrazione riminese ribadisce le proprie tesi a quella Centrale dell’Emilia: "i torbidi" di Morciano "e delle Municipalità nostre più lontane nascono dagli Insorgenti, e Fazionarj dello Stato di Urbino, che cercano per tutti i modi di mettere in combustione tutte le Municipalità della Montagna" [AP 503].
Alla vigilia della nuova fiera di giovedì 7, la nostra Municipalità avvisa quella di San Clemente che "per ragioni politiche si sospende d’inoltrare domani la concertata forza armata in Morciano" [AP 503, 6.3.1797]. Le accennate "ragioni politiche" consistevano probabilmente nella paura di accendere i fuochi di una ribellione armata. La forza che si sarebbe dovuta inviare a Morciano, era costituita da trentuno soldati e due ufficiali: questi ultimi erano da alloggiare "in case private col peso ai Proprietarj", da nutrire con una "decente tavola", e da far riposare su "comodi letti", mentre per la truppa bastava della paglia in un "magazzeno o altro sito". I Comuni del circondario avrebbero dovuto sostenere le spese del vitto per la truppa. Per il "discreto trattamento" degli ufficiali, i privati sarebbero stati reintegrati del denaro sborsato [76].
Nella lettera del giorno 6 alla Municipalità di San Clemente leggiamo: "Non manchiamo però d’assicurarvi, che per le Fiere consecutive di Morciano suddetto resta fissato di mandarvi una forza molto maggiore, affine di riparare onninamente qualunque ulteriore disordine. Vi avvertiamo intanto di usare per Domani tutta la possibile prudenza, affinché non succeda verun sconcerto". [AP 503, 6.3.1797]. La fiera di San Gregorio, annunciata per il 13 marzo, viene sospesa "per giusti riguardi" [AP 503, 11.3.1797]. I francesi implicitamente si dichiarano incapaci di controllare la situazione. Lo dimostra anche il fatto che il 3 aprile [AP 503] la nostra Municipalità scrive a quelle di Montefiore e San Clemente che, "per assicurare i Mercati, e Fiere di Morciano da ogn’insulto de sollevati Montanari", è stata "proposta al Comandante la Piazza la misura" che ognuna delle due stesse Municipalità "scelga un numero di quattordici, o quindici Individui della rispettiva Guardia Civica, i più bravi, i quali in ogni giorno di mercato dai posti più vantaggiosi di detto Borgo ne tengano lontani i Forusciti, e provedino alla quiete di detti Mercati". La proposta è stata approvata dal Comandante della Piazza, per cui Montefiore e San Clemente possono scegliere e spedire "detto numero a Morciano" nelle previste occasioni di mercato. Tra i due Comuni i rapporti non sono buoni, tant’è vero che non riescono a mettersi d’accordo su come organizzare un macello pubblico a Morciano. Rimini, a nome della Amministrazione Centrale, decide che se ne apra uno nella parte morcianese di Montefiore [AP 503, 14.4.1797]. Intanto il 5 marzo la Municipalità riminese, per proteggere le parrocchie del Bargellato, "le più esposte ai rubamenti", ha organizzato una "Guardia Civica di Contadini", con alla testa un caporale francese. I Parroci del Crocefisso e di Santa Maria in Cerreto, dipendenti dal Capitolo della Cattedrale di Rimini che esige i loro proventi, chiedono che sia lo stesso Capitolo a provvedere al mantenimento del soldato francese [AP 503, 5.3 e 22.3.1797].
I "briganti" non sono l’unico problema che affligge i mercati bovini. Ad esso si affianca l’epidemia diffusasi inizialmente nel luglio ’96 dalla Lombardia meridionale a Piacenza. Qui si erano contagiate alcune bestie acquistate "in servizio dei Francesi" da commercianti di Forlì e Faenza, e dirette a Cesena. A Bordonchio, nei pressi di Rimini, era stata uccisa una "manza malata" nella stalla di Francesco Zavagli. Il celebre veterinario Francesco Bonsi, incaricato di un’ispezione dalla Congregazione di Sanità [AP 71], aveva avvisato che il morbo era nel "grado più contagioso". Sul confine fra il territorio riminese e quello cesenate "dal mare ai superiorj territorj montanari", il 14 agosto [77] il Legato aveva costituito un cordone sanitario armato che interessava Roncofreddo, Montiano, Longiano, Gambettola, Gatteo e Savignano. Il 1° novembre ’96 era stato autorizzato il mercato del bestiame a Morciano, con la sicurezza che il cordone impedisse agli animali e alle persone sospette di intervenire alla fiera. Il provvedimento, oltre alle finalità sanitarie per le quali era stato istituito, sembra aver assunto anche la funzione di un controllo accurato dei movimenti delle persone sotto il profilo politico. Giambattista Agolanti, come ex deputato della Congregazione di Sanità, il 22 agosto ’96 riferisce di un suo sopralluogo nel corso del quale aveva visto respingere "un Viandante incognito, e questuante, che disse provenire da Cesena" [ib.]. C’era anche chi aveva temuto che l’armamento per i cordoni potesse favorire "un’effervescenza popolare" [78]. Il cordone sanitario fra il territorio riminese e quello cesenate era stato rimosso nella prima settimana di novembre. Era rimasto quello tra Cesena e Forlì. Il contagio si è diffuso intanto sulla costa orientale dell’Adriatico: Dalmazia, Albania, Ragusa [79]. Le nostre autorità locali debbono ora vigilare sul pericolo di propagazione del morbo, e sospendere mercati e fiere di bestie bovine "senza eccezioni di sorta, quando anche non si fosse ancora veduto segno di Epizoozia". Nella primavera del 1797 arrivano rifornimenti di buoi proprio dalla Dalmazia sia a Pesaro (ordinati dal Commissario Daniele Felici), sia a Rimini (acquistati dal commerciante Antonio Sensoli). Li sottopongono a quarantena. Ai primi giorni di luglio, si denunciano "attacchi di Epizoozia nella Repubblica". I controlli del pubblico Maniscalco non bastano a frenare il contagio.
A metà luglio ’97, sulla strada maestra di Ospedaletto viene rinvenuto il "corrotto, e fetente cadavere di una bestia bovina scorticata", lasciata da Niccola Pediani, macellaio di Santarcangelo, che dichiara di averla comprata assieme ad altre tre da tale Ronci di San Clemente. Ronci in tutto ne aveva acquistate sette il giovedì precedente a Morciano. Niccola Pediani ha abbandonato la bestia "presso un ponte passata la Marecchia sui Beni Soardi", affidandola al colono Giovanni Antonio Franchini ed incaricando il proprio fratello Tommaso di prendersene cura. Ed è Tommaso che l’ha fatta scorticare viva, accusa Niccola Pediani. Quando le autorità indagano la carne di quell’animale forse era già stata consumata [80]. Alcuni animali muoiono durante il trasporto dalle coste adriatiche orientali, e vengono sepolti in mare: è proibita l’introduzione di quella carne bovina. A fine luglio ’97 il parone Mariano Maranesi giunge a Rimini da Pola con cento corna, a riprova della perdita della merce [81]. A fine settembre si avanza il sospetto circa un contagio nei suini. È facile immaginare le conseguenze economiche di questa situazione.


7. Perdonati i ribelli di Sogliano
La sera del 4 marzo i dragoni repubblicani di Santarcangelo guidati da Filippo Pivi, salgono con rinforzi della Guardia Civica verso Sogliano per eseguire un arresto ordinato dall’autorità militare [AP 503 5.3.1797]. Fermatisi a Borghi, apprendono da un messo inviato in esplorazione che "in Sogliano eravi una quantità di armati, cui non avrebbe potuto resistere il numero de’ nostri, e che per[ci]ò non era prudenza di azardarli". A Borghi arriva anche la notizia "che a Poggio de’ Berni siavi un’altra Truppa di sollevati, che avrebbe fatto fronte alla nostra nel ritorno, e avrebbe dato tempo all’altra di Sogliano di unirvisi". Dragoni e Guardie scendono quindi a Santarcangelo in provvisoria ritirata. Due settimane dopo, si preparerà un nuovo "piano per arrestare alcuni malviventi di Sogliano": si conterà di prenderli mettendosi "in comunicazione segreta" con "qualche bravo sbirro" [AP 503, 21.3.1797].
La Municipalità riminese teme che si pongano in insurrezione anche altre località vicine a Sogliano, cioè "Genestreto, San Giovanni in Gallilea, Monte Tiffi, Monte Gelli, Tornano e Serra, Rontagnano, Savignano di Rigo": "la loro popolazione potrà ammontare a 500 persone atte a prendere le armi". Tutte queste località erano già state indicate all’Amministrazione dell’Emilia come sospette sorgenti delle violenze commesse a Morciano [AP 503, 7.3.1797, cit.]. C’è la necessità di "spedire prontamente colà [a Sogliano] una forza armata con cannone, onde distruggere il male alla radice, prima che si dilati maggiormente" [AP 503, 5.3.1797]. Ma il Generale Bonaparte è d’altro avviso: decide di concedere il "perdono ai sollevati" se torneranno "alla primiera quiete, ed alle loro case". Avverte quella popolazione: "Quando avrete ottenuta la sospirata quiete, potrete organizzare nel vostro Paese una Guardia Civica per mantenere l’unione, e per tranquillità contro i tentivi degli esteri malintenzionati" [AP 503, 9.3.1797]. Per precauzione i francesi confiscano i beni ai presunti capi della sollevazione [AP 503, 10.4.1797]. Alla Municipalità di Santarcangelo sono addebitate le spese per la mancata spedizione a Sogliano [AP 503, 7 e 9.3.1797]. Secondo le notizie giunte a Rimini, il capo del complotto risulta tal Marcosanti [AP 503, 5.3.1797].
Monte Gridolfo, prima di procedere con la propria Guardia Civica all’arresto di alcuni soggetti, chiede l’assenso delle autorità militari [AP 503, 5.3.1797]. L’arresto viene eseguito due settimane dopo [AP 503, 21.3.1797]. Una richiesta di arresti di "noti Delinquenti", giunge a Rimini anche dalla Municipalità di Forlì [AP 503, 13.3.1797]. A Monte Scudolo, di fronte alla "baldanza degli insorgenti", si raccomanda di regolarsi come sempre, cioè con ogni possibile prudenza: "se per mezzo della guardia Civica vi potesse riuscire di arrestare qualcheduno dei Briganti, e di farlo tradurre" a Rimini, si farebbe un favore sia alla nostra Municipalità sia al Comandante francese [AP 503, 7.3.1797]. Al quale Comandante, si riferisce che "dalle parti di Urbino, e del Montefeltro limitrofe, e rispettivamente ad Essa vicine piombano" su Monte Scudolo "degli Armati, che ànno fatto deporre a que’ Cittadini, e Municipalisti la Coccarda Francese, e meditano di impadronirsi di quella terra, e della Contribuzione raccolta, sollevando i Possidenti Esteri, che la debbono, a non pagarla". Inoltre, si aggiunge, la Municipalità Feretrana di Antico ha rispedito editti ed ordini del Governo francese, "che aveva già accettati": "Ecco un cambiamento, che procede dall’accennata insurrezione" [AP 503, 7.3.1797].
Contemporaneamente, la Municipalità di Rimini invia all’Amministrazione Centrale seimila scudi in conto della dovuta contribuzione, facendo presente che non le è stata abbonata la somma di oltre duemila scudi "dovuti in giugno passato dalle Comunità estere, che furono aggiunte alla nostra nel Provisionale riparto". Si tratta di Comunità "in tal una delle quali non han potuto nemmeno penetrare i messi" con gli ordini della stessa Amministrazione Centrale, e che "in oggi sono quasi tutte in insurrezione unitamente allo Stato di Urbino" [AP 503, 7.3.1797]. Circa la contribuzione, così si istruisce da Rimini la Municipalità di Montefiore: "Va bene di non irritare gli Esteri sollevati pel pagamento" previsto in base ai loro estimi, ma "sarà bene ancora che sospendiate l’esigenza medesima dai piccoli possidenti, che non hanno capitale maggiori di scudi 300 fino agli ordini" annunciati dall’Amministrazione Centrale: "Escutete però i più ricchi, e gli stessi nostri cittadini, giacché non possiamo noi creare per la rata di questi il Censo, che ci proponete" [AP 503, 9.3.1797]. Lo stesso giorno la Municipalità riminese elogia il Cittadino Giusdicente di Scorticata per lo zelo dimostrato nel "sopire la sollevazione" procurata "dai vicini insorgenti": "loderemo altrettanto la vostra efficacia in rimuovere la causa dei Dissidj che nascono costì nei giuochi proibiti".
Ma anche la rivoluzione è un gioco pericolo. Fino a questo punto, i francesi hanno tenuto la mano leggera. Il perdono promesso ai sollevati di Sogliano in caso di resa, testimonia la volontà di non tirare troppo la corda. Ma non sempre andrà così. L’Amministrazione Centrale dell’Emilia esalta "moltissimo il zelo" dimostrato dai riminesi "per calmare le insurrezioni", e prega di "proseguire colla massima attività, giacché le medesime sono in vicinanza dei luoghi, e della forza, e comando Francese. Noi vi autorizziamo a prendere su questo importante oggetto le più pronte, e forti misure, servendovi ancora di tutte le nostre facoltà, che a questo scopo vi si accordano" [AP 901, 12.3.1797]. Tre giorni dopo, la stessa Amministrazione Centrale dell’Emilia consiglia quella di Rimini di rivolgersi al generale Sahuguet per "quei Comuni, che dite esser in insurrezione, a cui non è stato possibile di spedire perciò i messi" [AP 901, 15.3.1797]. La Municipalità riminese distingue tra fatti malavitosi e politici, cercando di spingere gli occupanti verso un atteggiamento benevolo nella valutazione di episodi che li infastidivano perché arrecavano disturbo alla quiete pubblica. Mentre i francesi "dilapidano" Cattolica di viveri e foraggi [AP 503, 17.3.1797], la nostra amministrazione cerca di rassicurare il Cittadino Bondedieu, vice Commissario della Piazza: "li Malviventi, i quali si affacciano nei Confini del nostro territorio, non cercano se non di affrontare que’ soggetti, che possono immaginarsi abbiano del denaro, e che realmente non se la pigliano coi Francesi, perché di questi ve ne sono stati che sono passati nei suddetti luoghi pericolosi esenti da insulto forse perché non avevano figura di essere facoltosi" [AP 503, 18.3.1797]. Da notare l’insistenza con cui si ripete che i pericoli maggiori vengono da "esteri malintenzionati", la cui presenza è denunciata anche da Saludecio [AP 503, 15.3.1797].
Grazie ai buoni uffici della nostra Municipalità, il Comandante della Piazza fa scarcerare Gabriele Castellani di San Giovanni in Marignano: ciò dovrebbe servire ad "apportare una maggior quiete al Paese, ed agli altri animosi contadini". Il Comandante francese vuole che Castellani sia ammonito seriamente a far buon uso della liberalità ricevuta, "unendosi coi buoni Cittadini a mantenere la pubblica quiete, e tranquillità". "Se mai mancasse a questo dovere", prosegue la lettera della Municipalità riminese a quella di San Giovanni in Marignano [82], "sarà immediatamente arrestato, e fucilato, senza speranza di esimersene in conto alcuno. Sia poi vostra cura d’invigilare sulla condotta del Castellani, come di persona a voi consegnata, e del contegno della quale dovrete voi stessi rispondere al Comandante medesimo" [AP 503, 22.3.1797].
A metà marzo anche le pubbliche strade tra Cesena e Forlì sono poco sicure per la presenza di "contrabbandieri, ed assassini" che impauriscono persino la forza pubblica. Un vetturino di Faenza che stava rientrando a casa, viene trovato ucciso in un fosso.

8. Incursioni a San Mauro e Santarcangelo
Circa centocinquanta malviventi "montanari", armati in vari drappelli, il 21 marzo si presentano ai proprietari del Comune di San Mauro e della sua campagna "per averne violentemente dei generi" alimentari: "incutono in tutti un gran timore colle jatanze, e colle minaccie, che spargono, massime contro quelli, che si mostrano più fedeli alla Repubblica". Quel che fa più paura, è la loro intenzione "di tagliare la fossa, che conduce l’acqua dalle parti superiori a Santarcangelo, ed a Rimini per uso dei rispettivi molini, lo che seguendo porterebbe la fame a quella Terra", alla città di Rimini, "ed alle rispettive campagne, giacché le farine, che si hanno sono sufficienti alle rispettive popolazioni" [83]. Secondo la cronaca di Nicola Giangi, questi malviventi provengono da "Sogliano, e Monti", e sono scesi a San Mauro perché proprio lì si trovava il grano requisito dal Commissario francese Giulio Fortis. Un episodio simile accade "quasi al tempo stesso" a Santarcangelo, da dove il cittadino Baldini (come leggiamo nella cit. relazione riminese a Lapisse), ha avvertito che "quel Paese si trova esposto al furore di detti forusciti in modo, che minacciano d’impadronirsene, e tanto è il timore, che vi hanno incusso, che i Municipalisti hanno abbandonato la loro residenza, e gli abitanti hanno chiuse le Case, e le Botteghe, e molti se ne sono fuggiti come ha fatto lui medesimo per aver inteso, che lo cercano particolarmente per esser egli stato uno di quelli, che scortò" i dragoni francesi "spediti a Sogliano: e ci ha confermato la protesta dei Malviventi di voler impedire il corso dell’acqua ai molini".
La relazione della Municipalità di Rimini a Lapisse non si limita ad esporre i fatti avvenuti, ma contiene pure una "riflessione" (tale è definita nel testo) che appare fondamentale ai fini del nostro discorso: "le Montagne da cui calano quei scelerati, sono scarsissime di viveri", a causa della proibizione "uscita dall’Amministrazione Centrale di lasciar sortir generi dalla Provincia". Tale proibizione, "potrebbe obbligarli per la fame a maggiori violenze: giacché una gran parte del Monte Feltro, in cui sonosi annidati per la maggior parte detti Forusciti, non possono tirare la loro sussistenza, che dalla Piazza di Rimini". La mancanza di viveri rimanda anche al problema, accennato in precedenza, delle epidemie bovine. Una notizia da legare a questo discorso economico sulle cause delle rivolte, è contenuta nella lettera inviata il 19 marzo [AP 503] dalla nostra Municipalità al generale Victor Perin presso il Quartiere militare di Foligno: si condivide il progetto francese che, "per portare l’abondanza dei Comestibili in tutte le Provincie", prevede di chiudere "l’escita ai generi ne’ porti per fuori stato, lasciandone poi libera la circolazione da luogo a luogo, e da Provincia in Provincia". Per porre fine alle scorrerie di "quei scelerati", bisognerebbe avere in mano il Forte di San Leo con dentro cento soldati da mandare dove si trovano i "contrabandieri", o spedire all’assalto "quando meno se lo aspettano", oppure infine a "tagliar loro la ritirata, quando dal piano ritornano alle loro case". La stessa mattina del 23 marzo, "una masnada di detti Briganti ha disarmata quella Guardia Civica, attaccando un Corpo" della truppa francese, di cui ha ucciso alcuni soldati, poi ha "involati i 54 bovini che da Ancona erano diretti a Mantova per conto della Repubblica" [ib.].
Sull’assalto a Santarcangelo, si hanno altri particolari nella missiva della municipalità riminese al Vice Comandante della Piazza Bondedier: verso la sera del 22 "è giunta colà una moltitudine di Contrabandieri considerata di passa mille teste, la quale si è impadronita di detta Terra, di tutte le Armi Civiche, e dei generi, e forse a quest’ora avrà dato il sacco a quelle case, e di più si è milantata di venir domattina ad invadere" Rimini [AP 503, 23.3.1797]. Ormai tutte le strade sono insicure. La nostra Municipalità invia a Lapisse "la nota dei Capi malviventi, che abbiamo esatta dal Comandante della Guardia Civica" [AP 503, 24.3.1797]; e chiede al locale Giusdicente Criminale Cittadino Tonti di attivarsi con "fedeli Esploratori" nella caccia ai "Montanari insorgenti": su di loro c’è il sospetto che "possano avere qualche segreta intelligenza con alcuni del nostro Popolo" [AP 503, 25.3.1797]. Agli "Esploratori" sarà accordata una "mercede a carico della Comunità, onde acquistare le più sicure notizie in affare di tanta importanza".
Il 24 marzo l’Amministrazione centrale ordina la "requisizione de’ buoi per approvisionar Mantova", previo un censimento del bestiame atto al lavoro, con un decreto che inizia: "Uomini deboli che avete sagrificati de’ tesori al lusso, ed all’avidità de vostri Despoti, sentite una volta il piacere di essere utili alla Patria, ed alla causa della Libertà" [SZ, ms. 1195, n. 44]. A Coriano il 25 marzo "dopo pranzo" si presenta "un Picchetto di 22 Contrabandieri avente per capo certo Simone Tonti della Taverna, che obbligò quegli Abitanti a deporre la Cocarda Francese, strappò dal solito luogo gli Editti del nuovo Governo, ed intendeva di volere le Armi di quella Guardia Civica, se non fossero state custodite nel Castello da Cittadini armati" [AP 503, 26.3.1797]. Un episodio analogo succede contemporaneamente a San Giovanni in Marignano, dove sono coinvolti i dragoni di Cattolica [ib.]. Sempre il 25 marzo a Monte Scudolo ("Terra unita a questa città [Rimini] nel rapporto della Contribuzione, ma non ad essa soggetta"), compaiono "due masnade di contrabbandieri in numero di 35 o 40, i quali presi i posti più vantaggiosi del Paese, si diressero al capo di quella Municipalità nel Quartiere della Guardia Civica, gli fecero perquisizione di tutte le carte, le lessero, s’impadronirono delle armi, e le asportarono, vollero a forza da lui la consegna di cento scudi raccolti per la contribuzione, e dal Governatore Allocatelli altri scudi 28, rilasciandone all’uno, ed all’altro la ricevuta sempre con minaccia della vita" [AP 503, 27.3.1797]. Obbligano poi detto Capo Municipalista "ad esporre egli stesso nel primiero luogo lo stemma del Papa". Il gesto beffardo dei "contrabbandieri" sembra compiuto per nascondersi dietro un comodo alibi politico. Questo particolare della scena finale è impareggiabile: il racconto fatto dalla Municipalità di Rimini a Lapisse culmina nel momento politico che chiude l’azione malavitosa, per significare che questi briganti sono al servizio del Pontefice se prima di andarsene con il loro bottino vogliono inneggiare al passato Governo. A loro volta quanti credono che quelle masse si muovano pronte a sacrificarsi in nome della Fede e della Sede di Pietro, possono avere ambigua conferma dal testo dei nostri "municipalisti", confortati oltre tutto dal fatto che i "contrabbandieri", gente perbene e non vili malfattori, usano la cortesia di rilasciare debita ricevuta per il denaro non rubato, ma sequestrato in nome della Causa.
A Monte Colombo gli stessi "contrabbandieri" cercano, senza trovarlo, il denaro della contribuzione: dai libri contabili possono appurare che esso non è stato ancora esatto [ib.]. Episodi analoghi accadono a Verucchio, Coriano, Sant’Andrea in Patrignano [AP 503, 27.3.1797], Gambettola, San Martino dei Molini [ib. 28.3.1797], Montefiore, San Patrignano, Besanigo, Pietracuta, Monte il Tauro e Scorticata [ib., 29, 30 e 31.3.1797]. È arrestato Pietro Tornani [84] da Sogliano, appartenente ad una famiglia sospetta, e soggetto che "non ha buon nome": indosso porta "una coltella, ed un numero di cartuccie con palle, e metraglia". "Siccome non aveva schioppo, così tantoppiù si rende sospetta la sua persona" [AP 503, 28.3.1797]. Alla Municipalità di Savignano si riferisce che Pietro Tornani sostiene "di aver portata questa mattina" ad essa una lettera di quella di Gambettola, "che gli è stata consegnata o da codesto Giusdicente, o dal Governatore Turchi, come ad uno della vostra Guardia Civica" [AP 503, 28.3.1797]: dunque, era un bandito, oppure come sosteneva lui stesso, uno che lottava a fianco dei francesi? Agli amministratori di Savignano spettava il compito di valutare gli "aneddoti surriferiti".
Il nome di Pietro Tornani rispunta in altri due documenti. L’11 giugno ’97 [AP 901] l’Amministrazione Centrale scrive alla Municipalità di Rimini: "Corre voce che questo capo dei rivoltosi, che mesi sono commisero tanti eccessi non meno in Savignano che in altri luoghi circonvicini, si ritrovi in Pesaro con animo di rimpatriare", il che, se avvenisse, "potrebbe procurare qualche nuovo gravissimo disordine". Nel ’99 egli si dichiara vittima di "saccheggio" nella propria bottega di tintore, e cita varie "Persone dalle quali pretende aver ricavato pregiudizio", senza però "esposittiva di Querela Relazionata" e senza portare testimoni. Tra gli accusati ci sono il conte riminese Gaetano Baldini, un "cisalpino", e Domenico Danzi, padrone della tintoria e della annessa casa in cui Tornani abita. Queste notizie si ricavano da una lettera che il Governatore di Santarcangelo Ercole Bartolini scrive ai Consoli di Rimini [AP 722, 20.6.1799] e che inizia con queste parole: "Gioachino Tornani mi ha presentati i Comandi delle Signorie Loro Illustrissime, di verificare cioè il sacheggio di cui si dole". La frase ha un tono che rimanda per somiglianza all’episodio di Gambettola. È un semplice tintore, il nostro uomo, ma si presenta come un personaggio capace di dare ordini a destra e a manca.
Nicola Giangi scrive che "li montanari" erano scesi anche a Savignano per rubare la contribuzione; e che "li contrabandieri" erano andati pure a San Martino Riparotta, "e da tutti li Arcipreti hanno preso grano, e altro": uno di loro, di sessant’anni, era stato catturato e fucilato. Alla Municipalità di San Giovanni in Marignano, timorosa "di poter subire danno dalle Truppe Francesi" nel caso di una loro avanzata in quel paese, Rimini risponde di aver invitato il Comandante della Piazza a distinguere "i rei dagli innocenti" [AP 503, 30.3.1797]. Raccomandazione superflua ma forse non ovvia con i militari, deve aver pensato la nostra Municipalità. Per i fatti di Montefiore [ib.], si sottolinea che gli autori possono esser "sicuramente" malviventi "del Tavoleto e Auditore", essendo quel Comune composto di "persone quiete, e ben intenzionate".
Un sarto di Rimini la sera del 29 marzo si presenta alle nostre autorità appena ritornato da Montefiore, allo scopo di riferire per conto di quella Municipalità che il giorno precedente i fuorusciti hanno giocato un brutto scherzo ad un loro compaesano, "un certo Vitali": "fattolo confessare, e comunicare, lo trasportarono in Piazza, ed a forza lo fecero mettere in ginocchio minacciandolo con l’archibugio alla faccia di volerlo realmente fucilare". Il Parroco ed i Cappuccini "con le più vive preghiere" riuscirono a farlo liberare: "Allora però detti Malviventi vollero dalla stessa Municipalità scudi 30 circa, che seco se li portarono assieme col Vitali suddetto, lasciando però nel Paese quattro de suoi a guardare la casa del Vitali per indi spogliarla" [AP 503, 29.3.1797]. Montefiore chiederà poi alla Municipalità di Rimini di processare le persone che "levarono" quei trentaré scudi: Rimini risponde che l’autorità competente per giurisdizione è quella di Pesaro, a cui si dovrà inviare "la distinta nota de’ nomi, e cognomi di quelli, che avete nella ricevuta, che vi fu fatta nell’atto, che foste forzati a consegnare il pagamento" della somma [AP 511, 1.5.1797].
Le Guardie Nazionali di Pietracuta "hanno arrestato quattro uomini, che transitavano con dieci bestie bovine, le quali erano marcate col segno della Repubblica Francese" [AP 503, 30.3.1797]. I quattro fermati sono stati avviati a San Leo: la Municipalità di Rimini chiede a quella di Verucchio di essere informata "il più presto possibile delle disposizioni, che hanno gli abitanti di San Leo per la Repubblica Francese, e per Noi, e se quei Capi che sieno rivoltati sieno nella disposizione di rientrare nell’ordine" [ib.]. La nostra Municipalità sembra quasi volersi tirar fuori da discussioni e responsabilità: le uniche disposizioni da eseguire sono quelle dei francesi. Oltretutto, comandano loro perché ci hanno occupati, e noi non possiamo far nulla.

9. La repressione militare
Il 26 marzo "i Forusciti stanzionati in Santarcangelo" sono attaccati e dispersi dalle "brave truppe" francesi guidate dall’"intrepido generale Chambarlhac". Si chiude così la partita iniziata il 23. La lettera che la nostra Municipalità, presieduta da Nicola Martinelli, invia alla Giunta di Difesa della Cispadana, dopo gli elogi contiene un velenoso giudizio: fu soltanto "l’affare di mezz’ora" quell’attacco ad un’"orda di banditi", la cui azione, "ultimo sforzo della Romana debolezza", "non merita l’onore della nostra paura" [AP 503]. La Giunta di Difesa reagisce duramente, ed accusa Martinelli di essere sempre stato uno sfrontato doppiogiochista. Martinelli in realtà è stato sempre un sottile mediatore. Non per nulla, alla sua scomparsa nel 1805 a 63 anni, egli si meriterà questo elogio da parte del cronista Nicola Giangi: "È morto il conte Nicola Martinelli, l’uomo più bravo in politica che avevamo". Zanotti lo definisce non soltanto un rivoluzionario "soverchiamente politico, mondano, e generalmente malveduto", ma anche "abilissimo e di fina politica".
La lettera di Martinelli, indirizzata a nome della nostra Muncipalità alla Giunta di Difesa della Cispadana, ha un antefatto: la comunicazione che la stessa Giunta ha inviato da Cesena il 27 marzo sulla repressione degli insorti, attuata "dalle valore truppe francesi": "Alcune orde di malviventi infestavano in queste vicinanze le pubbliche strade, svaligiavano i passeggeri, entravano nelle terre e ne’ castelli, imponevano violentemente le più gravose contribuzioni a quei tranquilli ed onesti abitatori, e minacciavano furiosi perfino le stesse vostre città. […] La generosa Nazion Francese ha vendicato tutti questi torti fatti all’umanità, ed al pubblico diritto". Scriveva Martinelli in conclusione della sua risposta alla stessa Giunta: "Venite dunque qua senza temere, poicché la strada fino a noi è già fin da jeri riaperta ai Passeggieri. A conforto vostro non meno, che di tutti quelli, che si fossero lasciati soverchiamente spaventare, vi partecipiamo che lo stesso Generale Sahuguet è partito questa mattina con una grossa colonna per assicurare da quella parte non meno le strade che la campagna. I Forusciti si sono gettati verso la Cattolica, ma si prendono tutte le misure per ripurgarli anco da quella parte". Nelle pagine di Nicola Giangi, l’episodio di Santarcangelo è narrato con poche parole: i ribelli sono stati sbaragliati dai soldati francesi proveniente da Cesena, che "hanno dato un piccolo Sacco, e amazati più del Paese che contrabandieri".
La Municipalità di Santarcangelo ringrazia quella di Rimini per aver interposto buoni uffici "presso i Comandanti Francesi per la salvezza" di quel paese: "L’umanità, la fratellanza, e la giustizia esiggevano da noi questo impegno", risponde Rimini [AP 503, 28.3.1797]. In nome di questi ideali a Rimini viene fucilato uno degli "insorti" di Cesenatico che il giorno 23 hanno tentato l’assalto ad un convoglio francese: va meglio ad un altro suo compagno d’avventura, un sacerdote, che riesce a fuggire e a rifugiarsi a Ravenna, dove l’Arcivescovo è riuscito a risparmiargli la pena capitale, con grande tripudio dell’Amministrazione Centrale.
Rimini, dopo l’episodio di Santarcangelo definito "affare di mezz’ora", il 29 marzo pubblica un bando in cui si avvisa che "molti di quelli trà quelli della Campagna, e Monti che hanno prese le Armi sotto il titolo di battersi coi Francesi, e per mettere in allarme i Popoli si fanno lecito di trasmettersi in questa città disarmati ad oggetto di espiare, e di acquistare Aderenti alle loro male intenzioni" [SZ, ms. 1195, n. 69]. Si promettono sei scudi per le delazioni con "certa prova". Intanto, l’Amministrazione Centrale [SZ, ms. 1195, n. 35, 27.3.1797] espelle tutti i "forestieri che non contano il domicilio da cinque anni": hanno quindici giorni di tempo per andarsene. Sono esclusi gli "introduttori, o coltivatori di scienze, ed arti utili", e quanti "abbiano causa legittima per rimanervi". Chi entrerà in Emilia "senza necessaria causa", potrà dimorarvi d’ora in poi soltanto per tre giorni. L’Amministrazione Centrale, per altra vicenda accaduta a San Leo ("indennizzamento dell’equipaggio, che hanno perduto i due Ufficiali", come da certificato di Sahuguet), ammonisce la Municipalità riminese: "È di troppa importanza il tener contento questa gente [i francesi], che deve battersi con degli assassini" [AP 901, 1.4.1797]

10. Tavoleto brucia
I montanari messi in "precipitosa fuga" a Santarcangelo dalle truppe francesi dopo "una vicendevole orrida strage", si spargono "per altri luoghi del nostro distretto". "Il generale Sahuguet nel giorno 29 andò in traccia di loro con 800 fanti e 200 cavalli. Si portò alla Cattolica, a Morciano, a Montescudolo, a Mondaino, a Soliano, ma i montanari sediziosi si ritirano al Castello di Tavoleto ove si fecero forti aspettandoli a pié fermo", scrive il cronista Zanotti: "Giunti i Francesi in prossimità del Castello, attaccano furiosamente gli insorgenti, i quali ferocemente gli rispondono e si battono per qualche tempo più col coraggio che coll’esperimento dell’arte, ma conoscendo di non potersi sostenere ulteriormente, dopo un vicendevole e replicato scarico di fucileria con reciproca perdita, si danno a precipitosa fuga verso la più alta montagna" [GZ]. Secondo Guglielmo Albini di Saludecio [85], tutto sarebbe iniziato con il colpo di fucile da caccia sparato da "un solitario" contro un battaglione di fanteria, provocando la morte di un soldato: "La truppa esasperata entrò in paese, gridando "bruson Tavolon" e infatti l’incendiò e distrusse in gran parte". I francesi erano in ottocento fanti e duecento armati a cavallo, cioè il doppio complessivamente di quanto si pensa fossero gli insorti.
Non pago della gloria raggiunta, Sahuguet compie una terribile infamia. Scrive ancora Zanotti: "Entrano allora vittoriosi i francesi nel paese, feriscono ed uccidono diversi di que’ miseri abitanti che vi ritrovano, saccheggiano il Castello e lo incendiano, rimanendo estinti fra le fiamme alcuni che non poterono salvarsi con la fuga, fra i quali vi perì miseramente un vecchio Prete paesano chiamato don Gregorio Giannini, che per indisposizione morbosa era giacente in letto da non poco tempo" [GZ]. Il Parroco di Tavoleto, don Pietro Galluzzi, "che i Francesi ritenevano per seduttore de’ malintenzionati del Paese, e che credettero perito anch’esso nell’incendio", se ne era fuggito invece "prudentemente coi montanari". Con loro Galluzzi si mette a scorrere le campagne ed i paesi vicini, ponendoli a contribuzione, per semplici motivi di sussistenza.
Il generale Sahuguet il primo aprile pubblica a stampa una lettera sull’incendio di Tavoleto: "Sono stato obbligato di far marciare delle Truppe sopra Tavoleto per esterminare gli abitanti, e per bruciare il Villaggio. Cotesti miserabili ingannati dal loro curato erano discesi da qualche giorno armati nel piano, e dopo aver derubati, e messi in contribuzione gli Abitanti pacifici, che si ritrovavano sulla strada, che percorrevano, e nei Villaggi, nei quali passavano, e dopo aver forzati alcuni cittadini a seguirli, si erano stabiliti alla Cattolica, per assassinare, e svaligiare tutti i viaggiatori". (Sahuguet racconta a modo suo gli avvenimenti. A Cattolica erano arrivati i "Forusciti" di cui parlano Martinelli e Zanotti, non vi erano scesi gli abitanti di Tavoleto: al generale francese fa comodo inventarsi una rivolta per giustificare l’uccisione, già ricordata, di diciotto maschi, tra cui un bambino di circa nove anni.) "Gli ho fatti inseguire", prosegue il testo di Sahuguet, "molti ne sono stati uccisi a Morciano, e fortunatamente ho trovato gli altri al Tavoleto, dove si erano fortificati e trincerati; si sono difesi per un momento; ma ben presto gli assasini, e le loro tane sono stati ridotti in cenere" [86].
Sahuguet si dichiara sicuro che il curato Galluzzi "sia stato bruciato cogli altri": "L’ho fatto inutilmente cercare per farlo fucilare. Cotesto scellerato aveva fatta traviare tutta la sua parrocchia predicando al Popolo l’omicidio, e il saccheggio". Il curato Galluzzi, scrive Sahuguet, "aveva affisso sulla sua porta un proclama incendiario". I francesi sono sempre impareggiabilmente ironici. Dopo le fiamme che hanno appiccato a quel paese, spiegano che l’"incendiario" della situazione era stato quel curato, "riconosciuto in tutto il distretto, come il promotore de’ delitti, che si sono commessi". Se la caccia che i francesi avevano data ai ribelli scesi a Santarcangelo e di lì messi in "precipitosa fuga", era riuscita alla fine ad approdare al vero colpevole di tutti i "delitti" commessi nel Riminese, cioè ad un povero prete di campagna, gli informatori prezzolati avevano svolto un lavoro eccellente. L’episodio di Tavoleto voleva essere una lezione esemplare di cui furono vittime degli innocenti.
Per acquisire il titolo di nemico della patria in armi, basta poco: una critica, un’opinione non corrispondente a quella governativa, un rifiuto agli ordini imposti. L’Amministrazione Centrale il 10 marzo ha parlato chiaramente: ci sono "alcuni Sedizioni" che "abusando del vantaggio che godono pei talenti, e per i rapporti sopra alla classe degl’Idioti, e degl’Imbecilli, si fanno un barbaro piacere d’affacciar larve spaventevoli agli occhi di questi infelici, per condurli al più grande avvilimento, ed angustia" [SZ, ms. 1195, n. 61]. Chi si comporta così "è indegno del bel nome di Cittadino; è un tiranno deciso de’ suoi simili; è un dichiarato nemico del buon ordine, e della quiete de’ Popoli". Stiano dunque attenti "questi mal intenzionati", perché "l’attuale Governo" veglia su di loro, "ne conta i loro passi, ne tiene a calcolo qualunque loro movimento". I più attivi ed impegnati a "procurare l’adempimento delle Leggi, e lo stabilimento del nuovo Ordine, che va a ripristinare i diritti più sacri dell’Uomo", dovevano essere i preti. In nome della "Libertà" che campeggiava in testa al documento, l’Amministrazione Centrale ordinava che nessuno "di qualsivoglia classe", parlasse, motteggiasse od operasse "né in pubblico né in privato contro le Superiori determinazioni, e le Autorità costituite"; né osasse appoggiare "lo spirito di contrario partito". L’ordine impartito è detto una "patriottica ed amorevole insinuazione, o sia necessaria e provvida misura". Chi si fosse ribellato ad esso, sarebbe stato punito "alle pene più rigorose cominate dalle Leggi contro i Sussuratori, e Faziosi, ed altre secondo la circostanza de’ casi".
La Municipalità di Rimini avvisa il Pro-Vicario Baldini di trovare per Tavoleto "un Parroco saggio in luogo del prete Galluzzi, che si crede miseramente perito nell’incendio. Quand’anco non lo fosse non potrebbe egli sostenersi in un impiego sì male esercitato, né lo vuole il lodato Generale" Sahuguet [AP 503, 2.4.1797].

11. Dopo la clemenza, la fucilazione
Mondaino chiede alla nostra Municipalità di intercedere presso il generale Sahuguet a favore dei suoi arrestati: "vi conviene pazientare, e dar tempo che siano esaminati", è la risposta [AP 503, 3.4.1797]. Anche per i prigionieri fatti a Santarcangelo si è in fase istruttoria [ib.]. Per dimostrare tutta la propria buona volontà verso i francesi, la Municipalità di Mondaino "ha recuperati cinquantasei capi bovini, che ha già trasportati" e consegnati a Rimino, assieme a parte della contribuzione dovuta, domandando il perdono "a tutti quelli che non fossero Capi di Complotti del proprio Comune" [AP 503, 4.4.1797]. Un "bue furioso" che da Urbino veniva condotto a Mondaino, è ucciso dai soldati. La Municipalità di Rimini ordina a quella di Mondaino di "esitar la pelle" dell’animale, da produrre al generale Sahuguet a giustificazione dell’accaduto: "In quanto ai sollevati del vostro Territorio", si legge nella stessa lettera [AP 503, 11.4.1797], "siccome non è a noi noto il grado della rispettiva loro reità, vi esortiamo a raccomandare per voi stessi, o per mezzo del Parroco al suddetto Generale quelli, che crederete meritino il perdono; Egli l’ha promesso a chi pentito rientra in se stesso, e si unisca ai buoni". Qualche giorno dopo, la Guardia Civica di Mondaino spedisce a Rimini Bonifazio Giaffoni, "turbatore della pubblica quiete", che la nostra Municipalità gira al Comandante Lapisse. [AP 503, 15.4.1797]
L’arciprete Migliarini di Petrella Guidi dichiara la fedeltà dei suoi parrocchiani alla Repubblica francese, e la "loro costanza contro le seduzioni dei convicini sollevati, onde meritare il debito riguardo dall’armata destinata a domare gl’Insorgenti". Risponde la Municipalità di Rimini: non temete che i francesi "confondano i Rei cogli Innocenti. Noi li preverremo in vostro favore, come la giustizia esige" [AP 503, 4.4.1797]. A Gemmano, i "giovanastri, che sconsigliatamente si erano uniti coi sollevati Montanari", si pentono: Rimini promette di procurare loro il perdono, dato che si è convinti "della sincerità de’ sentimenti" espressi, però suggerisce di tenerli ancora "in osservazione", per assicurarsi vieppiù "del loro pentimento, e della nuova promessa condotta" [AP 503, 5.4.1797]. Anche dall’Inferno intercedono perdono, ottenendolo per "quelli, che sedotti dai Malviventi ritorneranno, e si manterranno nella obbedienza" [AP 503, 8.4.1797].
Il generale Victor Perin, "finalmente persuaso dell’innocenza del Popolo di Cattolica pei supposti delitti", gli accorda "il perdono" [AP 503, 6.4.1797]. Ma la conclusione della vicenda è convulsa. Perin in un primo momento intima "che vi erano dei delitti da espiarvi". A parere della Municipalità riminese, "l’impostura aveva calunniati quegl’infelici. Volevansi attribuire a loro tutti gli eccessi commessi dagli Assassini scesi dalle Montagne di Urbino" [AP 503, 8.4.1797]. Come avrebbero potuto "poche decine di persone disarmate" resistere "a qualche centinajo di Masnadieri consumati nelle scelleragini, e avezzi al sangue ed alle stragi"? Anche i venticinque dragoni francesi intervenuti, dovettero ritirarsi. "La crudele alternativa, a cui era condannata questa Gente disgraziata si restringeva nientemeno che pagare un’emenda di due mila scudi in poche ore, o soffrire che i miserabili asili della loro mendicità fossero consumati dalle fiamme", come a Tavoleto. "Impossibilitati questi Infelici al pagamento tremarono di vedere ad ogni momento realizzata la minaccia. Corsero frà le braccia della Municipalità di Rimino. Essa fece un dover di far conoscere al Generale Francese l’ingiustizia della dimanda. Esibì la vita di un Cittadino in Ostaggio finché ne avesse fatta costare la maggiore evidenza."
Dopo la "liberazione del Borgo di Cattolica dal minacciato incendio", fa sapere la Giunta di Difesa, lo stesso generale Perin asseriva di esser obbligato "a procurare in Santarcangelo una indennizzazione ai suoi soldati, che avevano colà perduto i loro effetti" [AP 901, 6.4.1797]. Questa "indennizzazione" in un primo tempo è richiesta alla Municipalità di Rimini, ma il presidente Martinelli non cede a Perin, il quale si rifà della sconfitta saccheggiando appunto Santarcangelo. Martinelli scrive al Cittadino Luosi presidente della Giunta di Difesa: "Ci ha penetrato l’animo della disgrazia, che vi è piaciuto comunicarci, della Terra di Santarcangelo. Già eravamo disposti a rappresentar, e giustificare al Generale Bonaparte altre simili violenze dell’Autore di quella. Ora che vi vediamo così interessato pel sollievo di quella innocente Comunità, a voi ne rimettiamo la rimostranza, perché possiate avvalorarla presso al Generale medesimo" [AP 503, 6.4.1797]. Martinelli si riferisce alla epistola inviatagli da Luosi sui "disastri della Terra di Santarcangelo": "È veramente degna di compassione, e del più vivo interesse la sorte sventurata di quegli onesti, e pacifici abitanti. Dopo di aver gl’infelici sofferta una invasione da parte degl’insorgenti, dopo di esser stati esposti a tutti gli orrori, e a tutte le angosce di una sì penosa, e terribile situazione, a cui non era loro possibile di far fronte, eccoli quest’oggi vittime di un più crudele disastro" [AP 901, 6.4.1797]. In seguito a questo "disgustoso avvenimento", la Giunta s’impegnerà a favore di quella Terra [AP 901, 8.4.1797].
"I delitti di questo Paese erano uguali a quelli" di Cattolica, "ma esso fu più disgraziato" scrive Martinelli a Luosi: "Il Generale nel suo passaggio lo fece circondare dalle sue Truppe, e colle minacce di morte, e d’incendio gli riuscì di esigere il valore di due mila scudi" [AP 503, 8.3.1797]. In seguito a questo "disgustoso avvenimento", la Giunta s’impegnerà a favore di quella Terra [AP 901, 8.4.1797]. Martinelli non accenna alla richiesta avanzata (senza soddisfazione) da Perin a Rimini, consapevole che rivelare l’episodio significava assumersi la responsabilità morale dell’accaduto. Nello stesso tempo, pare che Martinelli si senta fortemente impegnato a difendere l’innocenza di Santarcangelo, proprio perché essa fu vittima anche dell’atteggiamento riminese, peraltro incolpevole, verso le pretese dei repubblicani. La lettera chiede che a Perin siano esposte le "doglianze" della Municipalità: "Se non si prende qualche espediente, onde ovviare in avvenire simili incontri, e riparare in qualche modo ai passati, noi saremo ben presto impossibilitati a contenere i Popoli, che siamo in dovere di governare. Possiamo ben dirgli che s’astengano dal commettere dei delitti; ma non li persuaderemo mai che debbano sospettare la pena di quelli, che non hanno commessi". La penna arguta di Martinelli scansa timori reverenziali, e racconta la verità. I francesi stanno tirando troppo la corda.
Gli stessi concetti sono espressi nella lettera al generale Sahuguet che denuncia l’operato di Victor Perin per "l’ingiustizia tentata sull’innocente Popolo del nostro Borgo di Cattolica, e commessa poi sull’altro egualmente imeritevole della Terra di Santarcangelo". Il "procedere contro gl’innocenti, ci ha vivamente commossi", spiega Martinelli a Sahuguet il quale per primo sa che Cattolica e Santarcangelo non c’entrano con gl’"insorgenti". Mentre l’Amministrazione Centrale invita la nostra Municipalità a provvedere "a certi disordini di Monte Scudo" [87] con le misure necessarie a "sì fatti inconvenienti" [AP 901, 11.4.1797], la Giunta di Difesa dà il cessato allarme. L’insorgenza "delle vicine Montagne" è ormai passata, e se ne può tirare un bilancio politico: "l’insurrezione di qualche centinaio di persone non può stabilire una regola a fronte della sommissione e del consenso universale di tutto il resto della Nazione". Montetiffi e Montebello "hanno deposto le armi, e chieggono il perdono": "quelli Abitatori erano appunto i più terribili, e implacabili". (Parole sante, infatti si è colpito Tavoleto.) "La loro resipiscenza contribuirà non poco a restituire alle pubbliche strade la sicurezza, la pace, e la tranquillità agli abitanti della provincia." [AP 901, 12.4.1797]
Il 13 aprile, lo stesso giorno del ritorno del ritorno di mons. Ferretti, sono fucilati vicino ai fossi della Fortezza di Rimini (la Rocca malatestiana) tre soldati cispadani [Giangi]. Il 20 aprile appare un ennesimo proclama dell’Amministrazione Centrale contro chi "semina la divisione nel Popolo, lo inganna, lo tradisce, allontana da lui tutti i beni": costui "sarà da noi allontanato, e punito come nemico della Patria, e peste della Repubblica" [SZ, ms. 1195, n. 86]. Al Comandante della Piazza la stessa Municipalità di Rimini chiede che la Guardia Civica si accerti se un "certo Antonio Morolli sopranominato Pilicino abitante fuori della Porta di S. Andrea al Molinaccio sia in corrispondenza nottetempo con alcuno dei Forusciti Montanari, ed abbia nascoste in casa della armi" [AP 503, 14.4.1797].
"Sahuguet Generale di Divisione, Comandante la Romagna, e la Marca di Ancona" il 23 aprile concede il promesso perdono a "tutti quelli che hanno avuto parte nelle passate sedizioni, e tumulti, tanto nel Territorio d’Urbino quanto in alcuni Villaggi dell’Emilia" per i "passati eccessi" [SZ, ms. 1195, n. 89]. Il 30 aprile [88] il Consiglio di guerra radunato in Rimini condanna a morte il contadino Francesco Raschi di Santarcangelo, di anni 26, reo confesso dell’uccisione di due "cittadini militanti sotto la Francia". I suoi complici, in quanto sedotti da lui, ottengono le circostanze attenuanti che riducono la pena a "dieci anni di ferri": sono i contadini santarcangiolesi Luigi Mazzotti (32 anni), Giuseppe Protti (18 anni), e Giuseppe Martignoni (46 anni, originario di Rimini). Raschi ha fatto loro credere che con l’oro avrebbe ottenuto di "arrestar il rigor delle leggi". La fucilazione di Raschi avviene "sul Corso" di Rimini il primo maggio [Giangi].

NOTE AL TESTO
* La cit. è tolta da F. Venturi, Settecento riformatore, I, Torino 1998, p. 190.
1 Così scrive N. Giangi, sotto la data del 22 marzo 1796, nella sua Cronaca, SC-MS. 340, Biblioteca Gambalunghiana di Rimini [BGR].
2 Ha scritto D. Mengozzi: "Non sempre la collera popolare scaturiva da gente offesa nella fede, e non sempre tale collera era motivata dalla volontà di una Chiesa spodestata da certe prerogative civili": Cfr. in Religione, politica e comunità nel triennio giacobino (1796-99), "Studi Romagnoli, XL" (1989), Bologna 1993, p. 482. Utile ai fini del nostro lavoro, è anche quest’altra osservazione di Mengozzi: "Non può essere scambiata per insorgenza […] la ribellione causata dai disagi per il passaggio delle truppe, né la scorreria brigantesca su Santarcangelo e nemmeno l’aumento dei furti campestri, contro i quali gli stessi parroci armavano i contadini" [ib., p. 480]. Infine, sui "disagi per il passaggio delle truppe", ricorderemo che essi sono una costante in quel Settecento italiano fatto anche di scorrerie di truppe straniere, per le quali vale il giudizio di F. Venturi: gli eserciti erano un vero flagello per tutti e la guerra "una tassa particolarmente mal ripartita, che colpiva sempre i più deboli e più poveri" [op. cit., p. 425].
3 Cfr. il documento AP 503, Copialettere della Magistratura, 1797, 6.3.1797, Archivio Storico Comunale di Rimini, in Archivio di Stato di Rimini [ASR], che citeremo in seguito. La sigla AP indica gli "Atti Pubblici" della Municipalità di Rimini, conservati in ASR. Molti di tali documenti non hanno numerazione progressiva delle carte o delle pagine. La vicenda insurrezionale avvenuta nel territorio di Urbino nel marzo del 1797, fu conseguente ad una crisi economica nata negli anni precedenti. Cfr. P. Sorcinelli, Nota sul movimento giacobino nella Legazione di Urbino, in "Atti e Memorie" del Comitato Deputazione Storia Patria per le Marche", serie VIII, vol. VII, 1971-1973, Ancona 1974, pp. 197-219. La Legazione di Urbino fu sottoposta ad occupazione francese dal 7 febbraio al 4 aprile 1797.
4 Sono parole del Vescovo di Forlì dell’8 febbraio 1797.
5 Così si esprime il Pro-Vicario del Vescovo di Rimini, riferendosi a fatti locali, in una circolare del 3 aprile 1797: Cfr. in Fondo Gambetti Stampe Riminesi [FGSR], BGR. Il Vescovo Ferretti, come si vedrà, era scappato da Rimini prima dell’arrivo dei francesi. Nell’estate del 1799 il Pro-Vicario di Cesena definirà anticattolico il "repubblicano sistema". (Circa il problema dei contrabbandieri, va osservato che esso non costituisce una novità. Ad esempio è significativo quanto accaduto nel corso della terribile carestia che va dal 1765 al ’68, su cui Cfr. A. Montanari, Una fame da morire, Carestia a Rimini 1765-1768, in "Pagine di Storia & Storie", a. V, n. 11, supplemento al settimanale "Il Ponte", Rimini, 14.3.1999. Il testo si legge in questa stessa pagina web, in appendice.)
6 Il Vescovo di Rimini Vincenzo Ferretti aveva indetto pubbliche orazioni l’8 settembre 1792, con l’ordinanza che finisce come introduzione alle Preghiere da recitarsi la mattina e la sera per implorare il Divino Ajuto nelle presenti calamità della Francia, subito pubblicate in tre edizioni.
7 Cfr. D. A. Farini, La Romagna dal 1796 al 1828, Roma 1899, p. 32.
8 Cfr. A. Bianchi, Storia di Rimino, Manoscritti inediti a cura di A. Montanari, Rimini 1997, p. 174. Bianchi era nato nel 1784, quindi la sua pagina ha quasi il valore di una testimonianza.
9 Alla voce "sedizione" dell’Enciclopédie (1751-72) si parla appunto di "disordini" e "divisioni": cfr. l’antologia italiana a cura di A. Pons, vol. II, Milano 1966, p. 525. Il binomio fame-rivolte è ormai un classico storiografico: Cfr. al proposito le pagine di A. M. Rao su La questione delle insorgenze italiane, in "Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica", numero monografico di "Studi Storici", 2/1998, pp. 332-334.
10 Il Cardinal Legato Antonio Dugnani (che era stato cacciato domenica 26 giugno, dopo aver convocato a Ravenna le delegazioni delle singole città per "concertare" quanto necessario in quelle contingenze), il 7 luglio se ne va da Fossombrone dove si era rifugiato e passa da Rimini diretto a Ravenna. Dugnani il 25 giugno aveva impartito da Faenza l’"ordine di spedire a Ravenna due Deputati per concertar l’occorrente all’occasione de Francesi" [Cfr. AP 496, Corrispondenza del Governatore di Rimini 1794-97, c. 29v, ASR].
11 Cfr. la lettera del 3.7.1796, AP 502, Copialettere della Magistratura, 1796-97, ASR.
12 Il bando è del 27 giugno. Il 28 il Segretario municipale di Rimini ha notificato ai "generosi Cittadini" che, per la consegna degli ori e degli argenti richiesti dai francesi, la Comunità riminese avrebbe corrisposto un frutto del cinque per cento [FGSR].
13 In riferimento alla situazione italiana negli anni Trenta e Quaranta del secolo XVIII, F. Venturi ha osservato che essa fu caratterizzata da un "patriottismo locale", consistente nel "chiudersi nel proprio mondo in difesa contro tutto e contro tutti" (cfr. Settecento riformatore, cit., p. 188). Qualcosa di analogo sembra riproporsi nei giorni di cui stiamo parlando, nella Municipalità di Rimini. Spostando il discorso dal "municipalismo" politico al tema storico generale, serve questa osservazione di C. Capra: "Una migliore comprensione delle origini e della dinamica delle insorgenze di fine Settecento può venire solo da un attento esame delle situazioni locali, che non trascuri gli aspetti sociologici e psicologici, di mentalità […]" (da Età napoleonica, in "Il Mondo contemporaneo", vol. I, "Storia d’Italia", 1, Firenze 1978, p. 367).
14 "Nel mese di giugno [1796] le truppe francesi occuparono le Legazioni, meno Rimino, essendosi fermate a Cesena": Cfr. A. Bianchi, op. cit., p. 169.
15 Il 13 luglio [AP 496] il Legato si è dichiarato consenziente a "tenere ancora per qualche giorno in servizio" la Guardia Civica. Due giorni dopo [ib.] lo stesso Legato approva che essa "venga dismessa", ma "nel caso che le circostanze esigessero di nuovo una forza più numerosa, e sicura", sarà "ben contento di ristabilirla".
16 Il primo documento datato Ravenna è del 13 luglio [AP 496].
17 La citazione è ripresa dal cit. "Pro Memoria" del 19.7.1796. In AP 502, 15.11.1796 si legge: "Pella tenuità della Paga teneva egli [il Bargello] pochi Uomini, e poco atti all’Ufficio, i quali vivevano di questue, e di estorsioni". I birri sono protagonisti di altri episodi, come questo di cui si parla in AP 502, 19.11.1796: quando viene arrestato il venditore di vino Giovanni Schicchero "per aver tenuto in casa propria persone a giuocare e bere", "fra detti giuocatori trovavasi il Bargello di Città con due Birri". Questi, "i quali per ragione del loro Uffizio dovrebbero impedire simili travenzioni, sono quelli ordinariamente che le commettono, ed animano altri a seguire impunemente l’esempio". Lo sbirro Floridi è accusato [AP 502, 26.11.1796] di aver teso insidia al postiglione Antonio, "con cui aveva avuto parole".
18 Cfr. AP 496, 20.7.1796, cc. 31r/v. Il Legato scrive che ogni decisione tocca a Roma.
19 Le nuove paghe sono di sei scudi per il tenente e cinque scudi ai quattro birri in servizio, "lasciando interamente al Bargello li predetti scudi 8:60 per suo stipendio" [AP 502, 15.11.1796].
20 Sul tema, Cfr. in AP 502 i documenti del 10 e 12.7.1796. Il Legato sembra dar ragione a Verucchio, obbligando Rimini, prima di altri interventi, a passar d’accordo con quel Giusdicente e di "servirsi degli esecutori della Legazione": Cfr. la lettera del 13.7.1796 [AP 496, c. 30] con cui il Legato Dugnani conferma la delega che il 12 agosto 1795 il suo predecessore Cardinal Nicola Colonna aveva inviato al Governatore di Rimini, attribuendogli tutti i poteri necessari "alla soprintedenza dei molini", per "provvedere, ed invigilare, che dagli Abitanti e Territoriali di Santarcangelo, di Verucchio, e Scorticata non vengano deviate le acque, che servir debbono per uso degli stessi molini" [c. 14, AP 496]. Il 10 agosto [ib., c. 33] il Legato scrive al Governatore di Rimini: contro i verucchiesi "si compiacerà di non insistere ulteriormente senza preventiva mia intelligenza". Il Legato aveva fatto intendere la sua "disapprovazione intorno alle violenze" commesse. [Su analoghi, precedenti fatti, Cfr. AP 488, 10 ottobre 1769, lettera al Legato di Romagna affinché Santarcangelo, Verucchio e Scorticata "non deviano l'acqua della Fossa con pregiudizio de’ molini di questo Territorio".
21 Cfr. in AP 99, Annona frumentaria, ASR, 30.8.1796, cc. 220r/v; e 1.9.1796, cc. 220v/221r.
22 In AP 561, Intimazioni e biglietti [Ordini della Magistratura] 1774-1800, ASR, è riportata la comunicazione "Dalla Segreteria Pubblica" in data 3 settembre 1796, in cui si legge delle "pressanti premure" del Legato "per la formazione del comparto sopra i possidenti per staia cinquemila cinquecento, senza omettere frattanto ogni diligenza di far acquisto delle partite reperibili". La lettera del Legato è in data 16.8.1796 [AP 496, cc. 34r/v].
23 Gli abitanti della città erano allora 13.015: cfr. C. Tonini, Storia di Rimini, VI, I, p. 768.
24 Circa il sistema dell’Annona, cfr. il documento dell’1.8.1795 [AP 496, cc. 13r/v], ove ri rimanda a disposizioni emanate nel 1782-83. Il 25.8.1795 [ib., cc. 15r/v] il Legato Colonna, richiamandosi alle "massime della Sagra Congregazione del Buon Governo", aveva ordinato che ogni Comunità dovesse "quotizzare li rispettivi possidenti per l’intero consumo della Popolazione, onde avere a propria disposizione il quantitativo occorrente di grano", e che il pagamento avvenisse ad ogni consegna.
25 Il nuovo prezzo di 6,25 scudi si ricava dalla c. 237v di AP 99, 22.11.1797. Quello precedente di 5,40 scudi, da AP 502, 11.8.1796, Supplica alla Sacra Congregazione del Buon Governo. Il sistema monetario vede equivalere uno scudo a cento baiocchi, ed un baiocco a dodici denari. Sulla "limitazione del prezzo del grano quotizzato per l’Annona e modo di soddifarlo", cfr. lettera del Legato al Governatore di Rimini dell’8.10.1796, AP 496, c. 39r.
26 Si veda l’approvazione da parte del Legato in AP 99, c. 237, 26.10.1796 (copia in AP 496, c. 40v), su sollecito riminese del 5.10 [AP 502].
27 Cfr. c. 224, AP 99, verbale dell’adunanza degli Abbondanzieri del 7.9.1796. La richiesta è presentata da dieci molinai, di cui soltanto due (Donino Fiorani e Giovanni Fantini) sono in grado di apporre la firma, mentre sottoscrivono con la croce gli altri otto: Antonio Rossi, Antonio Vignali, Pavolo Montanari, Sebastiano Montanari, Antonio Canaletti, Andrea Sapignoli, Giuseppe Berti, Gregorio Carlotti.
28 Cfr. AP 99, 26.9.1796, cc. 226-227. Il Legato risponde il 18.10.1796 [AP 496 40r], richiamando il decreto del 24.2.1789 per la Provincia della Marca che viene esteso così anche a Rimini.
29 Tale sistema è illustrato nella cit. lettera del Legato Colonna del 25.8.1795 [AP 496]: per la "povera gente" si deve produrre il pane comune, per "possidenti, e benestanti" quello di lusso. Circa il peso del secondo tipo, esso dovrà esser minore delle sette once imposte per quello comune, "quanto basterà per indennizzare la Comunità, o suo Appaltatore di quello potesse avere di remissione, o scapito nella prima specie. Laddove poi il lucro che si farà sul pane di lusso non equiparasse la perdita, che si facesse sul pane venale, allora, ed in questo solo caso poco verisimile vuole la Sagra Congregazione, che il discapito ricada a scapito delle Comunità". Il 23 settembre 1795 [AP 496, c. 16], lo stesso Legato comunica al Governatore di Rimini: "Si rende necessario di fare il calcolo a quanto ascende la perdita sul pane comune di mano in mano, e per caso si aumentassero i prezzi del grano, ed in conformità della medesima regolare il peso del pane di lusso in modo che venga a stabilirsi il proporzionato equilibrio".
30 In successivo documento del 29.12.1796 [AP 502], come vedremo, si legge che lo spaccio del pane comune a sette once ha provocato in due anni (1795-96) una perdita di 11.000 scudi. L’anno annonario va da settembre ad agosto.
31 Il Legato Dugnani appena subentrato a Colonna, il 7 ed il 21 novembre 1795 aveva autorizzato il Governatore di Rimini a prendere a censo, in due tempi, complessivamente la somma di diecimila scudi (prima tremila, poi settemila), "per erogarla nella compra di tanto grano per sfamo della Popolazione a minor interesse possibile, a condizione però, che il ritratto, che si farà dalla vendita del pane, si depositi nel S. Monte di pietà per l’estinsione di esso censo, o censi" [AP 496, cc. 19r/v]. Cfr. pure la lettera legatizia del 24.9.1796 [AP 496, c. 38]. L’anno precedente, la Congregazione del Buon Governo non aveva inteso "la necessità addotta da codesti Abbondanzieri di creare debiti per la provvista de Grani" [AP 496, 23.9.1795, cit.]. Colonna il 30 settembre 1795 [AP 496, c. 16v] aveva ordinato che i grani dell’Annona si incettassero a peso e non a misura, dopo che il 23 dello stesso mese aveva ordinato la "cessazione dei panfangoli" [ib.]. (Del dibattito politico-economico sul problema, è testimonianza il Panfangolo Riminese di G. F. Battaglini, del 1791, a cui subito rispose con un opuscolo, anonimo, Nicola Martinelli, il quale era favorevole alla libertà di panificazione, introdottasi a Rimini abusivamente e poi tolta dal Legato.)
32 Cfr. la cit. lettera del Legato 16.8.1796 [AP 496, cc. 34r/v].
33 Cfr. la lettera dei Consoli a N. Martinelli, 8.7.1796, AP 502.
34 Il Capo-Console era Ippolito Tonti; i Consoli, Giuseppe Vanzi, Francesco Piccioni, Luca Soardi, Carlo Caffarelli e Francesco Ugulini. Il Legato risponde il 6 ottobre ai Consoli [AP 496, c. 39] "contro il giro che fa in Campagna questo Cancellire Criminale per le querele".
35 In AP 561, 9.7.1796 si legge che il Depositario Generale Gianfranco Lettimi, "ad istanza dei Debitori del sussidio per Tremuoto", ha sospeso "l’esigenza della rata del Capitale, non però dei Frutti".
36 Ci si riferisce al bando del Legato Colonna del 17.7.1793 ed alla successiva modifica del 12.7.1794, relativa "al solo monopolio, che si commettesse […] con riceverne più del proprio consumo": Cfr. AP 502, Al Legato, 16.7.1796.
37 Cfr. le risposte della Municipalità riminese ai Priori di Monte Gridolfo e Saludecio, in data 4 e 7.7.1996, AP 502.
38 Cfr. AP. 502, Al Legato, 14.7.1796.
39 Cfr. AP 502, A Nicola Martinelli, 8.7.1796. A Corpolò è denunciato "certo Pasquale Tosi", per detenzione di "armi da fuoco contro gli ordini pubblicati" [AP 502, 12.7.1796, A don Carlo Preti, Parroco di Corpolò].
40 Cfr. la lettera al Parroco di San Vito, don Giovenardo Giovenardi [AP 502, 9.7.1796].
41 Cfr. AP 502, 14.7.1796. È un documento diretto al Legato, diverso da quello in precedenza cit. con pari data.
42 Sono cinque ditte, intestate a Moisé di Bono Levi, Samuel ed Elcana Costantini, fratelli Foligno, Samuele Mondolfo, ed Abram e Samuel Levi: cfr. documenti vari in AP 999, Carte concernenti le fazioni militari, senza data, ma successivi al 30 giugno 1796.
43 Cfr. AP 502, Al Presidente di Urbino, 11.9.1796. (Le parole "solito segno" da noi riportate in corsivo sono sottolineate nel testo originale.)
44 Cfr. l’istanza al Legato del 19.11.1796 [AP 502], intitolata Miserie di questa Comunità, la quale fa parte di una serie di documenti sul contenzioso politico-fiscale (reso poi del tutto inutile dall’invasione francese) tra la Muncipalità e gli organi governativi, e che esamineremo (sempre da AP 502): Riflessione sui mezzi di difender la Patria dai Francesi (4.10.1796); Necessità di valersi dell’assegnamento de Pesi Camerali per le spese di Guerra (11.10); Che sia frenato l’ardore del Popolo per una inutile resistenza ai Francesi (13.10); Sul vuoto della Pubblica Cassa (3.12); e Stato passivo della Comunità (27.12). Nella cit. istanza del 19.11 si parla delle spese vecchie e nuove compiute dalla Comunità di Rimini: quella "comprovinciale del Cordone per l’epidemia bovina", quella per il secondo passaggio delle truppe pontificie (seicento scudi circa), e quella per la Guardia Civica (settecento scudi). Il "cordone", creato il 14.8.1796, viene rimosso, per la parte sul confine tra territorio cesenate e riminese, il 6.11.1796: Cfr. AP 71, Congregazione di Sanità, ASR, cc. 96r/v.
45 Cfr. AP 502, 19.11.1796, cit.
46 Il 17 dicembre [AP 502] i Consoli trasmettono al dott. Gregorio Contarini di Ravenna (che fungeva da collegamento con gli amministratori di Rimini) una lettera aperta per il Legato "relativa all’estrazione fatta di suo ordine di quattro sogetti per la condotta di questa Depositeria Generale". L’ordine era stato impartito il 7 dicembre [AP 496, c. 43].
47 Questo si legge nella missiva di trasmissione (dello stesso 27 dicembre, diretta al dottor Gregorio Contarini) della lettera inviata al Legato.
48 Il 28 settembre 1796 il Pontefice chiama a raccolta i sudditi "per la difesa dello Stato dall’aggressione de’ Francesi" [AP 502, 4.10.1796]. Si rinnovano gli avvisi di preparazione alla resistenza. Le trattative con i francesi erano fallite. Dal 2 agosto è a Rimini presso gli Olivetani di Scolca, al colle di Covignano, il Legato Dugnani. Vi resterà sino all’11 novembre.
49 I danni del terremoto "in tutto il Territorio" riminese assommarono a 618 mila scudi "giusta la perizia Valadier": Cfr. AP 502, 25.12.1796 ("Pro Memoria" preparato per una "supplica" da presentare alla Congregazione del Buon Governo, relativo agli ultimi dieci anni). In tale documento, tra le spese, si ricordano anche quelle fatte per due epidemie nei bovini e il "sospetto di contagio negli uomini oltremare" (del quale diremo in nota successiva).
50 Sulla sospensione della Guardia Civica a Rimini, Cfr. le lettere del 24.12.1796 e del 31.12 dei Consoli al Legato [AP 502]: nella prima, si scrive che la sospensione della Guardia Civica avviene per risparmiare, "durante l’accantonamento delle Truppe" papali; nella seconda si denuncia il comportamento protestatario del conte Carlo Sotta. Il Legato risponde il 28.12 [AP 496, c. 45r]: "Per qualunque evento però sarà bene che resti permanente il ruolo della medesima, onde poterne all’uopo rimetterla in attività". La Guardia Civica era stata nuovamente eretta con decisione del Legato del 14.10.1796 [AP 496, cc. 39r/v].
51 L’originale è in AP 999, 4.1.1797; la copia in AP 496, c. 45.
52 La notizia della funzione svolta dall’abate Quaglia si desume da AP 502, 2.10.1796 (lettera ad Alessandro Maceroni di Roma).
53 Cfr. AP 496, 28.9.1796, c. 38v.
54 In AP 502, 29.12.1796 la cifra relativa alla contribuzione sarà indicata in "67, e più mila scudi"; in AP 502, 31.1.1797, in 63.822 scudi. In AP 927, Giornale di Entrata e di Uscita, si legge che ai francesi furono versati 67.332 scudi dei 95.117 raccolti (di cui 19.436 dalle località "annesse"), restando in cassa un "sopravanzo" di 27.785 scudi, versato al Sacro Monte di Pietà.
55 I francesi avevano chiesto, come si legge in altri vari documenti, "moneta di banco, Argenti, Capelli, Drappi, e Tele". (L’Avviso del Segretario della Municiapalità del 28.6.1796 [FGSR] accenna però soltanto ad "Argenti e monete".) Per l’intera provincia di Romagna, la cifra assommava a 480 mila scudi: Cfr. AP 496, 27.6.1796, Perché gli Ecclesiastici concorrano alla Contribuzione, lettera della Congregazione provinciale al Vescovo di Rimini, c. 29v. Per la sola città di Rimini era prevista la somma di 38.307 scudi.
56 Cfr. le lettere del 2 e 3.7.1796 in AP 561.
57 Cfr. nel cit. Tonini, alle pp. 779 e 784.
58 È la lettera del 13.10.1796 [AP 502] già cit. a proposito dell’impreparazione militare di Rimini.
59 Ci si richiama anche alla precedente esperienza. Il 24 giugno il Vescovo di Rimini mons. Vincenzo Ferretti aveva indirizzato a tutti i Parroci della Diocesi una circolare, con la quale ordinava loro di esortare i fedeli alla quiete ed alla rassegnazione. L’ordine gli era venuto, attraverso il Governatore, dal Legato: bisognava "opportunamente inculcare negli Abitanti, e di Città, e di Campagna il più quieto, e regolato contegno" [AP 496, 23.6.1796, cc 28v/29].
60 Rimandiamo sul tema alla nostra comunicazione alle Giornate di Studi Romagnoli 1997, intitolata Aurelio Bertòla politico, presunto rivoluzionario,in particolare alla parte dove si esaminano idee e comportamenti politico-diplomatici di Nicola Martinelli.
61 Cfr. A. Bianchi, op. Cit., p. 169. Bianchi però riferisce l’episodio a prima dell’armistizio di Bologna.
62 Cfr. M. A. Zanotti, Giornale di Riminoper gli anni 1796 e ’97, SC-MS. 314-315, BGR, passim. L’episodio cit. da Bianchi è ignorato da Zanotti e dagli storici che si sono rifatti al suo Giornale. Che Martinelli fosse "malveduto" è un’opinione alquanto codina del cronista Zanotti: Cfr. nel cit Aurelio Bertòla politico.
63 Cfr. C. Marcolini, Notizie storiche della provincia di Pesaro e Urbino dalle prime età fino al presente, Pesaro 1868, p. 388.
64 Significativamente il titolo della lettera è "Che sia frenato l’ardore del Popolo per una inutile resistenza ai Francesi".
65 La stragrande maggioranza dei nobili riminesi è caratterizzata da atteggiamenti di chiusura di casta di cui, lungo tutto il secondo Settecento, abbiamo prove sicure in una serie di battaglie che quei nobili combattono a difesa dei loro privilegi, a partire dal 1741 con l’approvazione dello "Statuto esclusivo delle Femmine", il quale prevede che le donne, in presenza di maschi, siano private delle rispettive eredità, eccettuata la parte legittima. Nel 1763 si apre la questione "Matrimonj disuguali di nascita". L’anno dopo la Segreteria di Stato boccia le deliberazioni riminesi perché troppo limitative. Nel ’64 si tenta poi di far passare i restrittivi "Capitoli per le nuove aggregazioni di Nobili e Cittadini", che però approdano a risultati opposti a quelli desiderati ed allargano le maglie del controllo per l’ascesa della borghesia. I nobili nel ’73 tornano alla carica con le loro istanze per intervenire sui "Matrimonj disuguali". La vicenda si conclude soltanto nel ’92 con l’approvazione da parte del Cardinal Legato di "Capitoli" che gli attribuiscono il ruolo di giudice nelle relative dispute cittadine per i casi futuri. (Sull’argomento, Cfr. A. Montanari, Per soldi, non per passione. "Matrimonj disuguali" a Rimini (1763-92): tra egemonia nobiliare ed ascesa borghese, "Romagna arte e storia" n. 52/1998, pp. 45-60.)
66 Nelle varie magistrature riminesi i borghesi rappresentano la quarta parte: cfr. AP 502, Regolamento per l’Ordine Civico, 27.9.1796 (lettera indirizzata ai Signori Anziani di Faenza).
67 Cfr. AP 999, 1.2.1797, lettera di Cristoforo Vannoni.
68 Ad esempio, in AP 496 i documenti s’interrompono al primo febbraio. L’atto successivo è dell’Amministrazione Centrale dell’Emilia, in data 22 aprile 1797. In AP 561, i pochi atti che incontriamo riguardano gli ortolani, la pesa, e così via.
69 Il giorno 4, a sostituire il Governatore Brosi, è chiamato come "Giudice Provvisorio" il dott. Gian Andrea Agli che resterà in carica sino al 3 luglio.
70 Cfr. n. 54 in Raccolta di Leggi, Proclami, Poesie ed altre Stampe diverse, 1797-98, di M. A. Zanotti, in BGR (SC-MS. 1195-1197). In seguito indicheremo questa Raccolta con la sigla SZ, seguita dalla segnatura del ms. in BGR e dal numero relativo al documento [es.: SZ, ms. 1195, n. 54].
71 Come si è in precedenza visto la somma dichiarata per la contribuzione varia da 63 a "67, e più mila scudi".
72 L’8 febbraio l’Amministrazione riminese scrive al presidente dell’Amministrazione Centrale dell’Emilia, sempre a proposito delle contribuzioni da pagare ai francesi, sintetizzando la petizione inviata a Napoleone, e ribadendo che "dopo lo spoglio che ha fatto il Papa del poco resto, che ci rimaneva in cassa per preparare la guerra, il nostro Comune è così depauperato, che non sapiamo dove e come trovar denaro" [AP 502].
73 Sono questi soldati che portano a Rimini la notizia della pace di Tolentino, se Giangi la registra proprio sotto la data del primo marzo, scrivendo però che essa era stata stipulata il 14 febbraio.
74 "In Morciano ogni primo martedì del mese, ed ogni giovedì dell’anno, vi è una pubblica fiera, alla quale concorrono per vendersi i bestiami non solo dal Territorio nostro, ma di tutti i Comuni superiori tanto della nostra Emilia, che della Provincia di Urbino. Ivi concorrono a comprare tutti i Macellai di Rimino, e delle Terre, e Castelli del nostro Territorio" [ib.].
75 A questo fatto pare legato anche l’esposto presentato dalla Municipalità di Faenza [AP 503, 7.3.1797, cit.] all’Amministrazione Centrale, da cui parte una lettera a quella di Rimini per denunciare il "disgustoso" episodio "della perdita di dieci capi di bovini fatta da quei macellai nel loro ritorno dal mercato di Morciano" [AP 901, 18.3.1797].
76 La lettera contiene anche istruzioni per la "razione giornaliera per ogni Soldato Francese": "Carne oncie otto, vino un boccale nella misura di Rimino, pane oncie 24, legna once 12, sale mezz’oncia" [AP 503, 5.3]. Circa i provvedimenti relativi al passaggio delle truppe, si può vedere in AP 560, Corrispondenza degli Eletti a Pace e Guerra (1795-1797), ASR.
77 Cfr. AP 496, cc. 33r/v. Il 3 agosto [ib., c. 32v] il Legato aveva scritto: "non mi pare vi sia ora luogo a stabilire il cordone". Sul tema Cfr. pure in AP 502, tre lettere dell’8 e 9 agosto 1796.
78 Cfr. Atlante per il dipartimento del Rubicone, Rimini 1982, p. 33.
79 L’allarme per una "malattia di carattere contagioso" diffusasi nella "contrada di Fracenic nella Bossina", era già scattato il 21 marzo 1795 [AP 496] con l’ordine di una contumacia di 21 giorni: il provvedimento riguardava le provenienze dalla Dalmazia, dalle isole del Quarnero, dall’Albania Veneta, dalle Bocche di Cattaro e dallo "Stato di Ragusi". Il 20 maggio l’ordine viene ritirato per "cessato contagio". Poi la contumacia è ripristanata il 25 settembre con 21 giorni, portati a 28 il 24 ottobre 1795, e ridotti a 21 il 3 maggio 1796 ed a 14 il 4 giugno. La Sacra Consulta [ib., 6.11.1796, c. 41] eleva a 40 i giorni di "rigorosa contumacia", in seguito alla morte di due persone in cinque giorni sul confine della Dalmazia.
80 Cfr. AP 71, 15.7.1797, cc. 87/88.
81 A Pesaro in agosto il mercante dalmatino Giovanni Mario di Giovanni scarica circa sessanta cavalli provenienti da Spalato.
82 Un altro degli arrestati di San Giovanni in Marignano, è Benedetto Benedettini che a metà aprile figura ancora in carcere, con richiesta di perdono a Sahuguet [AP 503, 15.4].
83 È la relazione della Municipalità di Rimini al Cittadino Lapisse, Comandante della Piazza, che si trovava a Ravenna: Cfr. AP 503, 23.3.1797.
84 Gioachino, lo chiama Zanotti, sulla scia di altri documenti.
85 Cfr. G. Albini, Gli Albini di Saludecio nei ricordi di un nonagenario, Rimini 1993, p. 25.
86 Il cronista Giangi annota il primo aprile che ha fatto ritorno a Rimini la "truppa a piedi" che era andata a Tavoleto, dopo aver "bruciato tal castello, dato sacco, e fregati li solevati". Da due giorni lo stesso Giangi, di professione commerciante, è uno dei sei cittadini che compongono il "Comitato di Pulizia sopra li Vagabondi"; i suoi colleghi più noti sono tre "ex nobili" Giovan Battista Agolanti, Lodovido Belmonti e Carlo Zollio.
87 La Municipalità di Rimini il 15 aprile [AP 503] spiega all’Amministrazione Centrale di non aver potuto prendere "veruna misura sui disordini, ed abusi" di Monte Scudolo perché non le è stata "rimessa la lettera, che li descrive". Inoltre fa osservare che "in detta Terra non si è ancora da Noi organizzata legalmente la Municipalità, stante le passate sollevazioni de’ Montanari", assicurando però di volerla stabilire "quanto prima, in oggi, che sentiamo ben sicure le strade, e sedate le insorgenze". Al "tempo della nota insorgenza" la Municipalità di "Monte Scudolo", scriverà l’Amministrazione Centrale a quella di Rimini il 20 maggio [AP 901], rimase "danneggiata di scudi 105".
88 La data rivoluzionaria è dell’"11 Fiorile Anno quinto della Repubblica Francese". Cfr. in SZ, ms. 1195, n. 94.
 
Post scriptum
Della contribuzione imposta dai francesi (ricordata in vari luoghi del presente lavoro), mi sono occupato nella comunicazione agli Studi Romagnoli, Convegno di Cesena 1999, intitolata L’"opulenza eccessiva degli Ecclesiastici". Nobili, borghesi e clero in lotta per il "sopravanzo" della contribuzione del 1796. Documenti inediti della Municipalità di Rimini, per una storia sociale cittadina del XVIII secolo.
La comunicazione da me fatta al Convegno di Lugo 1997 su Aurelio Bertòla politico, presunto rivoluzionario, cit. alle note 60 e 62 del presente lavoro, è apparsa nel vol. XLVIII degli Studi Romagnoli, pp. 549-585: in essa si illustra anche la figura di Nicola Martinelli (pp. 570-574), più volte ricordata nel presente lavoro.
Sempre a proposito di Nicola Martinelli, dei suoi studi economici e dei problemi della libertà di panizzazione e dell’Annona, toccati in vari passi del presente lavoro, rimando al mio saggio Il pane del povero. L’Annona frumentaria riminese nel sec. XVIII, "Romagna arte e storia", n. 56/1999, pp. 5-26.
Lo scritto di A. M. Rao, cit. alla nota 9 del presente lavoro, è ora inserito nel volume, a cura della stessa Rao, Folle controrivoluzionarie. Le insorgenze popolari nell’Italia giacobina e napoleonica, Roma 1999. Sullo stesso tema, cfr. pure G. Turi, Viva Maria. Riforme, rivoluzione e insorgenze in Toscana (1790-1799), Bologna 1999.

Appendice.
UNA FAME DA MORIRE.
CARESTIA A RIMINI, 1765-1768


È una pagina drammatica e poco conosciuta della storia moderna della città e della sua campagna, attraverso documenti ufficiali inediti.
Da essi emerge l'importante ruolo svolto a Roma da mons. Giuseppe Garampi per aiutare i propri concittadini.
Sono vicende che hanno per protagonisti gli "ultimi", vittime della natura e della lenta burocrazia statale che non vedeva di buon occhio Rimini.

Di grano, fino al 1762, Rimini ne ha avuto a sufficienza per sé e per il Contado. I guai cominciano l'anno dopo: «Si scuoprì [...] all'improvviso una grandissima penuria di molti generi necessarj al vivere umano [...] tanto che minacciava un'imminente carestia», scrive un cronista del tempo, Ernesto Capobelli: la raccolta di grano è «scarsissima», al pari di quella dell'oliva e dell'uva. La Diocesi di Rimini, compresa la città, conta 67.374 anime, diecimila in più rispetto al 1738, e 3.518 in più nei confronti del 1755. Nello stesso 1763 «si riaprì in più parti dell'Italia il comercio, e furono date moltissime commissioni di incettare grani, formentoni, ed altri generi [...] di modo che rimasero vuoti tutti li Magazzini di Roma, de' due Regni della Sicilia, dello Stato Fiorentino, e della fertilissima Provincia Anconitana». Il «gastigo» della carestia nel 1764 spinge a Roma «milliaia di poveri» dai paesi vicini, «forzati a ricoverarsi dalla Fame». Nella città del Papa essi sono ospitati a spese dell'Erario, in due «serragli»: alle Terme, gli uomini, ed alla Bocca della Verità in Campo Vaccino, le donne. Tra quest'ultime serpeggia un'epidemia di vaiolo.

Il «popolaccio» di Roma, ricorda Capobelli, «si fece più d'una volta tumultuante non solo contro li Fornari, ma di più contro Mons. Prefetto dell'Annona, e contro altri particolari Ministri»: «Intanto perché la fame andava crescendo per mancanza di pane, e di grani, vivendosi di giorno in giorno alla provvidenza, e con la speranza di riparare quei disordini, che potevano nascere, cominciò il Governo a seriamente pensare per un solecito ripiego e provvedimento». Si acquista grano per un milione di scudi a Livorno, Genova e Marsiglia perché nelle Marche, «il granajo dello Stato Pontificio», non se ne trova più: anzi, i mercanti d'Ancona debbono portarsi a Trieste «ed incettare grani ivi calati dalla Moravia, e da altri lontani Paesi, e comprarlo a carissimo prezzo» (tre volte e più di quanto era prima di allora costato).

Soltanto la nostra Provincia di Romagna, in quell'«anno penurioso», è un «emporio felice, ricco ed abbondante di grano, fave, ed altre granelle, non soltanto per il sostentamento della sua popolazione, ma da poter anche somministrare agli esteri». Ma questa positiva situazione è causa della sua stessa rovina: la Romagna è «malmenata, ed oppressa da chi la reggeva, e governava». Il Legato fa incetta di grano per Roma ed Urbino, annullando tutti i contratti già stipulati con caparra. Dalla tenuta di San Mauro (della Camera Apostolica) e da quelle delle abbazie di san Giuliano e di san Gaudenzio (possesso del Cardinal Ludovico Maria Torregiani, segretario di Stato di Clemente XIII), si esportano tremila staja di grano.

Gli Abbondanzieri di Rimini si trovano senza provviste: non ne hanno fatte, perché erano privi di denaro. La distribuzione di pane e farina diminuisce, «e più volte successe, che le Botteghe dello spaccio» ne mancavano. Un'ultima vicenda giunge ad aggravare la situazione: le incursioni di contrabbandieri provenienti soprattutto da Talamello, Montebello, Mercato Saraceno, i quali obbligano i proprietari terrieri (di Santa Giustina, Sant'Ermete, San Martino de' Mulini, Vergiano, Spadarolo e di altri paesi vicini), a vendergli il grano, che essi mettono poi in circolazione al doppio del prezzo pagato. Il risultato è che una parte della nostra campagna è spogliata del proprio sostentamento. Dall'ottobre 1763 al febbraio 1764, le scorte riminesi passano da 60 a 17 mila staja di grano. L'ombra della fame comincia a girare per le nostre contrade.

Nei giorni di mercato, centinaia di uomini e donne scendono dalla campagna a Rimini per ottenere la «permissione» di ritirare la loro quota di grano, e si accalcano nella piazza della Fontana, dove ha sede il Governatore: «Argine alla furia di questo Popolo oppresso ed avvilito dalla fame era l'insolente ed inumana sbirraglia, la quale a forza di bocconate, calci, pugni e colpi di bastone sopprimeva la folla, tanto che moltissimi furono li maltrattati, ed anche feriti in modo, che in più parti grondavano sangue». Una donna gravida «della Villa di Areccione [...] spinta, e giù dalle scale rovesciata, poté con gran difficoltà alzarsi, e con grandissima fatica giungere alla sua abitazione, ove in poche ore ne abortì con grave pericolo di sua vita». Anche nelle botteghe troppo affollate, «per resistere alla confusione, che poneva in qualche timore li spacciatori, convenne più volte servirsi del gravoso, ed infame ajuto de' Birri, i quali con bastoni alla mano, e collo spavento delle loro Armi respingevano la furia del popolo». Il 25 luglio la tensione sfocia in un tumulto proprio sotto gli uffici del Governatore.

La raccolta del 1764, leggiamo ancora nel nostro cronista, non fu scarsa, «ma non riuscì come si sperava», per «il ribaltamento delle spighe, cagionato dalla furia de' venti». Nel 1765 inizia una vera e propria carestia: a causa del maltempo, «il grano battuto nella maggior parte non s'era introdotto in Città per non esser del tutto secco», narra Capobelli. Il popolo della città e del suo territorio che, per quello scarso raccolto, «soffrì tanta miseria, sperava un ottimo cambiamento con la nuova messe. Ma oh quanto vana, e delusa rimase tale speranza». Anche il 1766, conclude Capobelli, è destinato a rimanere «ne' futuri secoli memorabile per la sua carestia». La quale dura quattro anni, sino a tutto il 1768.

In città e nelle campagne la situazione precipita. Il 12 luglio 1766 il Consiglio Generale di Rimini delibera una sovvenzione per i «poveri Coloni» del Bargellato, con mille rubbj di formentone da assegnare soltanto «con idonea sigurtà [garanzia] de' rispettivi padroni», come leggiamo negli atti comunali. (La divisione tra Città, Contado e Bargellato è di origine medievale. Tutt'assieme i tre territori formano «il Distretto di Rimini» che si divide in 28 Ville del Bargellato e 25 Castelli del Contado.) La licenza di prendere in prestito diecimila scudi relativi a questa prima distribuzione di formentone, è concessa dal Legato il 28 agosto, e dalla romana Congregazione del Buon Governo il 27 settembre. (Ma a dicembre Rimini potrà ottenere soltanto la metà di quei diecimila scudi: trovare denaro è poi difficile, ce n'è una comune necessità che fa salire le richieste ed aumentare il tasso dell'«usura».)
Il provvedimento del 12 luglio provoca malcontento tra i «Possidenti nelle Castella» che, in un memoriale inviato in novembre al Legato di Romagna, invocano un'analoga deliberazione per i «poveri Coloni del Contado» che gemono «sotto il gravissimo peso di tanta calamità, e languiscono smunti affatto senza verun soccorso nell'estrema di loro indigenza»: «dalla vendemmia a questa parte si nutriscono a similitudine delli Animali». Quei «Possidenti» accusano Priori e Comunisti (cioè capi ed amministratori) delle rispettive Comunità: «non sperimentando la fame hanno posto in oblio i poveri Coloni, ed altri miserabili Abitanti del Contado stesso senza prendersi verun pensiero dell'indigenza loro». «Moltissimi Possidenti ricchi della Città» propongono al Legato una soluzione per risparmiare e trovar danaro necessario agli aiuti invocati. È una di quelle idee che vengono soltanto a chi ha la pancia piena e non incontra problemi nel rimediare il cibo per la propria tavola: essi suggeriscono di calare il peso del pane, mantenendone inalterato il costo. Con un bajocco, da ottobre si ha pane «di una sola qualità», cioè di tutta farina (detto bianco od affiorato) di sei once (tre in meno rispetto al 1765). Non si produce a parità di costo il tradizionale pan bruno o venale, più pesante (nel 1765, era pari ad 11 once).

Gli Abbondanzieri (responsabili dell'Annona frumentaria), il 25 novembre 1766 rifiutano questa proposta, nonostante l'aumento del costo della farina: calare l'oncia del Pane poteva far prevedere una «qualche comozione nel Popolo». Per ogni stajo di grano, l'Annona ci rimette 2 scudi abbondanti. Allo scopo di portare in parità il bilancio tra costi e ricavi, «sarebbesi dovuto tanto notabilmente diminuirne il peso, che avrebbe eccitato tumulto» tra la gente. Il Legato l'11 novembre concorda: il peso, fatto corrispondente al costo, sarebbe «risultato di tanta scarsezza, che senza dubbio avrebbe eccitato nel Popolo un tumulto universale».

Il 29 novembre il Consiglio Generale, dopo aver letto al relazione degli Abbondanzieri del giorno 25 e dopo aver esaminato il memoriale dei «Possidenti nelle Castella», decide una seconda sovvenzione di formentone, «alli Coloni» sia del Bargellato sia del Contado: su 47 voti, uno solo è contrario per il Contado, mentre si registra unanimità per il Bargellato. Il 27 dicembre il Legato dà licenza ufficiale all'Annona per queste provviste, dopo aver avvertito il 12: «la distribuzione de' generi sia fatta con tutta l'equità, e in proporzione del bisogno de' suddetti Coloni, e colla dovuta giustizia rispetto al pagamento». (Il 1° ottobre il Legato aveva concesso la possibilità di creare debiti per l'Annona, ed il 31 dello stesso mese aveva approvato la «perdita sullo spaccio a vantaggio de' Poveri».)

L'8 gennaio 1767 gli Abbondanzieri chiedono allo stesso Vescovo, conte Francesco Castellini, ed al clero «un congruo sussidio di Generi da somministrarsi in prestanza senza sigurtà» ai Casarecci, «con eventualità ancora nel ritirarne il prezzo, affinché non si dovesse sentire il disordine, che fosse parte del Popolo perita di fame per diffetto di provvidenza». La Congregazione del clero, il 22 gennaio, stabilisce che il riparto per questo «sussidio caritativo» vada distribuito «sopra ogni sorta di possidenti», come se si trattasse di una normale imposta della Reverenda Camera Apostolica. Il 23 gennaio il «piccolo Consiglio» della Congregazione dei Signori Dodici esamina le «continue suppliche de' Parochi, e l'istanze personalmente fatte da medesimi Casarecci della Campagna ridotti presso al morire di fame, per un qualche provvedimento».

Una di tali suppliche, è quella inviata da tre Parroci del Vicariato di San Vito allo stesso Legato: sono Carlantonio Pecci di San Martino in Riparotta, Francesco Bartolini di Santa Giustina ed Antonio Fabbrini, delle Celle.
Essi rappresentano (precisa il Legato al Governatore di Rimini il 16 gennaio), «lo stato deplorabile, in cui si ritrovano alcuni loro Parrocchiani, che stanno a casa [a] pigione, e che non possiedono nulla, [i] quali si trovano in una necessità veramente estrema, poiché consumato il tutto, né essendovi modo da provvedersi altro modo onde vivere». «La terra coperta di neve sin dal principio dell'Anno, non somministra loro neppure quelle poche erbe, delle quali si sono libati pel passato, così a medesimi poveri», scrive il Legato, «convien perir di fame».

Il Governatore di Rimini risponde al Legato: «Le rappresentate miserie sussistono purtroppo, e sono accompagnate dalle due rilevantissime circostanze come sono quelle di essere generali in tutto questo Territorio, e di venire accompagnate sin d'ora dal lagrimevole effetto della morte a cui in alcune parti del Territorio medesimo hanno dovuto alcuni soccombere».
Da un'altra missiva del Governatore di Rimini al concittadino mons. Giuseppe Garampi che vive a Roma, apprendiamo che si trovano in «deplorabile stato» i «Casarecci del Bargellato», i quali «nulla posseggono», e tanti poveri della stessa Città di Rimini «che non potendo impiegare le opere sue languiscono colle di loro Famiglie per queste contrade, e chiedono pietà, e soccorso alli di loro Concittadini privi anch'essi della maniera di apprestarglielo».

Garampi (che ha ricevuto da Rimini un particolare «mandato di procura» il 31 agosto 1765, e che in Vaticano ha già raggiunto una prestigiosa posizione, confermata dalla nomina nel settembre 1766 alla «luminosa carica di Segretario della Cifra», cioè dell'ufficio diplomatico), deve combattere «i ritardi, le eccezioni, e le difficoltà» della burocrazia romana, e cercare le strade più praticabili per ottenere qualche risultato. Il Governatore domanda a Garampi di intervenire presso il Papa affinché i Luoghi Pii di Città, Bargellato e Contado siano obbligati «a somministrare prontamente tutto il denaro che [h]anno» alla Municipalità: «Findove sonosi estese le nostre forze non abbiamo sin'ora mancato di giungere colli nostri provvedimenti. Incombe ora a' Luoghi Pii il fare il partito loro a norma de' Sagri Canoni».

Ritorniamo alla lettera inviata dal Governatore di Rimini al Cardinal Legato. Essa ha la data del 27 gennaio, e contiene l'annuncio dei provvedimenti presi sabato 24 dal Consiglio Generale che, come leggiamo nel verbale dell'adunanza, ha approvato la nomina (con 44 voti contro tre) di una commissione, costituita da quattro suoi componenti, incaricati di stabilire un «piano» per riparare «al gravissimo disordine di vedersi morire di fame i Casarecci del Bargellato, ed altre Persone miserabili, che nulla possedono, come pur troppo sentesi sia sin ora seguìto». Il Governatore spiega al Legato che «dalli [quattro] Deputati suddetti si stà ora divisando la maniera della sovvenzione se in natura, o in Denari, e come regolarla». Lo scopo è uno solo, si ribadisce: «sovvenire non meno ai Casarecci del Territorio, che nulla possedono, ma anche agli altri Poveri del detto Territorio, e della Città, che non possono colle di loro fatiche procacciarsi il vivere per mancanza di maniera d'impiegarle». Il Governatore supplica il Legato di concedere il permesso di «poter creare tanti Cambj, o Censi, quanti ne richiede l'accennato provvedimento, ed ogni altra circostanza del presente luttuoso emergente».

La Congregazione dei Dodici, il 23 gennaio, ha preso atto che aumentano i depositi al Monte di Pietà, per la «tanta calamità» della straordinaria carestia la quale «affligge massime il Popolo minuto ridotto al pericolo di morire di fame». Anche su questo problema viene coinvolto mons. Garampi: «Sono tante le cause, per le quali V.S. Ill.ma interessa fervorosamente il di lei zelo per il Bene della Patria, che non dovressimo Noi accrescerlene altre colle quali soverchiamente gravarla d'incomodo. Il non essere però limitato lo stesso di lei zelo, come colla sperienza abbiamo riconosciuto, ci hà fatto credere non poterle dispiacere, che le ne aggiungiamo un'altra, che siccome, interessa il sollievo de' Poveri nelle presenti Calamità della Patria, così riescirà aggradevole a V.S. Ill.ma il dovere esercitare l'innata di lei pietà per proteggerla colla efficacia ed autorità delli di lei uffizj, onde assicurare alli medesimi Poveri, che languiscono quel soccorso, che sospirano».

Al Monte di Pietà, si scrive a Garampi, «cresce ogni dì l'affluenza de' Pegni quanto cresce la necessità di ritrarre la maniera colla quale procacciarsi l'alimento, ed evitare la morte, alla quale sentesi ogni giorno soccombere per la Fame molte, o più Persone in varie parti del nostro Territorio». La Congregazione dei Pegni l'11 gennaio ha chiesto al «Pubblico» [Governo] riminese un sussidio di diecimila scudi «con i quali aumentandosi la Cassa del Monte, soministrargli la maniera di continuare il sovvenimento ai Poveri colla prestanza del Denaro sù i Pegni, che esporranno al Monte» medesimo. Il 24 gennaio, il Consiglio Generale ha deliberato di prendere a censo quella somma, «con l'obbligazione de' Beni, e ragioni della Comunità non solo, ma anche de' Signori Consiglieri in solido et uti [come] singuli». Garampi è pregato di muoversi a Roma nella sede che ritiene più competente, magari arrivando sino al Santo Padre, perché possa essere approvata la decisione presa dal Consiglio riminese. Su tale decisione concorda anche il Legato (il 28 gennaio): «In difetto di questa sovvenzione converrà ai Poveri, ed altri morire di fame in maggior numero di quello, che sin d'ora sentesi seguire in più luoghi».

Il 27 gennaio la Congregazione dell'Annona concede alla Municipalità di Rimini licenza d'imporre i debiti per la «provvista de' Grani, e Formentone nella presente carestia». La comunicazione del Legato è del 7 febbraio. (Il Buon Governo ha stabilito fin dal 26 settembre 1766 che anche gli ecclesiastici sono obbligati «ai debiti della passata, e presente Carestia»: la copia dell'atto è partita da Ravenna soltanto il 21 gennaio 1767.) Negli spacci, con l'affollamento degli avventori, si hanno furti di pane e di denaro: così succede nella bottega di Giovan Leardini, come denuncia la vedova tre anni dopo, quando si è già risposata.

Il 30 gennaio il Legato concede al Governatore di Rimini i propri poteri in materia d'Annona, e la facoltà d'imporre censi e cambi (in quantità però discreta), nella «sventurata circostanza, in cui rimangono avvolti non meno gli Poveri di cotesta Città; ma moltissimi eziandio del Territorio, Bargellato e Contado per mancanza di mezzi, con i quali provvedere alle proprie quotidiane indigenze». Il Legato definisce «provvidissima» la risoluzione presa «in tale emergenza di sciegliere quattro Deputati, i quali con zelo, e buona carità invigilino al sovvenimento de' suddetti Infelici, con stabilirne la maniera di effettuarlo, la quale sia agevole, e preordinata all'urgenza». Il 31 gennaio, dalle Congregazioni dell'Annona e del Buon Governo, parte alla volta di Rimini, dove giunge l'8 febbraio, la licenza per la nostra città di creare un debito di quaranta mila scudi «per i Grani, e Formentoni» (diecimila saranno poi dirottati il 21 marzo dal Buon Governo al Monte «affinché abbia il denaro sufficiente per supplire alle imprestanze sui Pegni»). La Municipalità di Rimini ringrazia l'abate Giuseppe Giovenardi Bufferli che ha presentato a Roma una «forte ed erudita scrittura» per appoggiare la richiesta, con un dono di quaranta scudi. Altri venti sono destinati come ricompensa all'abate Giulio Cesare Serpieri, agente ufficiale di Rimini nella città del Papa e collaboratore di mons. Garampi.

Attraverso l'organizzazione ecclesiastica della Diocesi, la commissione dei quattro consiglieri accerta che i poveri della Città sono 1.025 e quelli della Campagna 1.124, per un totale di 2.149 unità (su circa undicimila presumibili abitanti, cioè il 20 per cento). Quando il 4 febbraio il Consiglio si raduna, si legge la lettera scritta dal Legato il 30 gennaio (dove si definisce «provvidissima» la risoluzione sulla commissione di quattro deputati), prima di esaminare il «piano» che mira ad un doppio risultato: «il maggior sovvenimento pe' Poveri» e «la minore spesa per la Comunità». Il «piano» destina («o in denaro, o in Farina di Formentone»), una cifra giornaliera che va da un bajocco e mezzo per i poveri di Città, al solo bajocco per quelli della Campagna. In previsione di un peggioramento della situazione con l'aumento di numero degli «Infelici» bisognosi, si chiede lo stanziamento di tremila scudi, anziché dei 2.600 calcolati in base alle statistiche fornite dal Vescovo. Il «piano» non viene approvato subito, ma ogni risoluzione è differita «ad altro Consiglio».

La stessa sera del 4 febbraio si informa mons. Garampi sull'avvenuta presentazione del «piano»: «E per far constare al mondo, che le nostre sollecitudini non sono state prevenute da spirito di predilezione per i solo Coloni, ma essere egualmente premurosi, ed interessati per tutti quelli, che trovansi in estrema indigenza, si è col mezzo di una Deputazione fatta dal Generale Consiglio stabilito d'impiegare scudi 3.000 da prendersi ad interesse, in tante limosine da distribuirsi a quelle povere persone di questa Città, alle quali manca ora la maniera da procacciarsi il vitto colle di loro fatiche, o che sono in altra guisa miserabili, ed alli Casanoli delle Ville del Bargellato, che in questa stagione, in cui rimangono disoccupati dalle opere della Campagna, non [h]anno come sostentarsi».

La lettera contiene una precisazione sul «piano», la quale manca nei verbali ufficiali, dove si è letto soltanto che era prevista la sovvenzione «o in denaro, o in Farina di Formentone». A mons. Garampi si spiega invece che ai poveri della Città la distribuzione era prevista «in Denari», mentre per i Casanoli «in tanta Farina di Formentone in ragione di una libbra al giorno per ciascuno per [sino a] tutto il mese di aprile prossimo». I «divisamenti» del Consiglio riminese «richiedono la stessa approvazione dalla quale sono state corredate le precedenti provvidenze» ed il medesimo interessamento a Roma: di qui la necessità un ulteriore impegno di mons. Garampi, il quale risponde subito consigliando di non rivolgersi alla Congregazione del Buon Governo che non è ben disposta verso Rimini.

Il 7 febbraio i Consoli di Rimini scrivono al Legato per spiegare che la differenza tra il soccorso in denaro per le «Persone miserabili» della Città, e l'aiuto in natura per quelle del Bargellato, è stata determinata dall'ipotesi giuridica (avanzata in Consiglio) che una Bolla del Buon Governo impedisse di «fare limosine a Poveri», per cui si era deciso di sospendere e rinviare la votazione segreta. L'11 febbraio il Legato risponde: «Quanto egli è provido, e ben ideato esso Progetto altrettanto io non sarei lontano di approvarlo, se non facessero ostacolo alle mie condiscendenze» le disposizioni di una Bolla di Clemente VIII. Da una lettera dei Consoli all'abate Serpieri (del 5 aprile) sappiamo qualcosa di più: il Legato, circa la «necessità di fare le limosine» ai poveri di Città e Territorio («a quali non lice il questuare»), «non volle arbitrare se non per la ristretta somma di cento Doppie» [trecento scudi], obbligando Rimini a fare ricorso alla Congregazione del Buon Governo, la quale però non concede la sovvenzione, come i Consoli di Rimini avevano temuto. Ci si rivolge pertanto alla Congregazione dell'Annona.

A Roma, «con maligne imposture», si ritiene che le richieste di Rimini siano esagerate. Degli umori della capitale, è testimonianza questa missiva che il 9 maggio Garampi invia ai Consoli: «Si maligna sulla erogazione delle somme finora percettesi [percepitesi], e si tiene per esagerato ogni bisogno». Il Buon Governo spiega a mons. Garampi che per i «40 giorni incirca che mancano al raccolto, non può essere la Città tanto sprovvista, quanto si rappresenta, e che intanto la Campagna fornisce ora Erbaggi e Frutti, coi quali supplire a qualche deficienza di Pane. [...] In somma nulla è da sperarsi. [...] Compiango vivamente la presente nostra calamità, la quale resta anche più sensibile, perché non compatita». A Garampi il 14 maggio i Consoli rispondono che per le 40 mila anime di Città e Territorio [ma erano di più, come si è visto] vi è «la mancanza di tutti i generi necessarj al vitto umano»: la campagna non dà «frutti, ed erbe da alimentare», per cui i contadini non sono «capaci a sostenere le fatiche de' presenti necessari lavori per la coltura delle Terre. [...] Ella sa di quale natura sieno i terreni del nostro Territorio, i quali esiggono una gravissima fatica, e tutta la robustezza per lavorarli coll'aratro, e molto più colla vanga, ond'è necessario che i contadini si cibino di cose sostanziose, ed a sazietà».

I contadini, «sparuti, ed infiacchiti» chiedono alla Municipalità soccorso per non morire. Uno di loro va a Roma, e Serpieri l'incontra provandone tanta compassione. I Consoli continuano nel loro impegno, e sperano che altrettanto facciano i ministeri romani. I quali pongono ogni sorta di ostacolo sia per il debito a favore del Monte (che per mancanza di denaro non può più ricevere i pegni), sia per gli acquisti del formentone. Per il Monte, «Sua Santità ha creduto di non dover condiscendere all'istanza delle necessarie facoltà per le prestanze sui Pegni», fa sapere Garampi in febbraio, consigliando pure i Consoli sullo stesso problema: nelle «presenti calamità parmi potersi prudentemente risparmiare questo nuovo eccitamento di controversia con Mons. Vescovo, del quale può aversene bisogno in queste stesse circostanze».

Ormai i Consoli non hanno più alcuna speranza circa i diecimila scudi per gli acquisti del formentone a causa, essi sostengono con Serpieri, delle «incaute, o maligne» opinioni che girano a Roma sull'amministrazione riminese. Il nostro Consiglio Generale il 30 maggio delibera una terza «sovvenzione alli Coloni» con i sistemi usati per le due precedenti, lusingandosi (confidano i Consoli a Serpieri) «della ragionevole approvazione delli Signori Superiori». E di qualche stanziamento.
La distribuzione di formentone dura ininterrotta sino al giugno 1767, ed ascende a 7.964 staja, per una spesa totale di 40.547 scudi.

Intanto, sempre il 30 maggio, il Consiglio per ricompensare le straordinarie fatiche compiute dai quattro Abbondanzieri in occasione della carestia, decide un premio (che gli interessati avevano sollecitato) di trecento scudi in loro favore, mentre al Governatore, in segno di «gratitudine, e sincera riconoscenza», si regala un pezzo d'argento dal valore di cento scudi. Soltanto il 19 giugno Rimini può concludere, tramite Serpieri, un contratto di censo di tremila scudi relativi al «piano» urgente discusso il 4 febbraio al fine di soccorrere immediatamente chi non aveva nulla da mangiare. Il nostro cronista Capobelli può così commentare, per colpa della burocrazia romana, che «il Pontefice non pensò a solevar in conto alcuno li suoi sudditi», ma dispensò soltanto indulgenze.
Nota
Ernesto Capobelli è autore di pettegoli Commentarj conservati alla Biblioteca Gambalunghiana di Rimini [SC-MS. 306]. Quanto egli racconta, è uno spaccato vivace della realtà riminese: le sue pagine vanno però valutate con la massima attenzione, perché non espongono solo dati di fatto ma contengono spesso anche interpretazioni tendenziose. Nel 1769, ad esempio, accusa l'Annona di «arricchirsi col vero sangue de' poveri», e di voler far regnare «una vera carestia».
Le altre fonti usate sono la «Storia di Rimini» di Carlo Tonini (vol. VI/I tomo, ed. an. Ghigi) per i dati sui censimenti riminesi; e, per la ricostruzione di tutta la vicenda della carestia, una serie di registri e di atti municipali conservati nell'Archivio di Stato [«Archivio Storico Comunale»] di Rimini.
Per motivi di spazio, non possiamo riportare le note relative alle singole notizie. Ringraziamo per la gentile collaborazione la Biblioteca Gambalunghiana e l'Archivio di Stato di Rimini.

© by Antonio Montanari, Una fame da morire, Carestia a Rimini 1765-1768, «Pagine di Storia & Storie», V, 11, supplemento a «Il Ponte», Settimanale cattolico riminese, XXIV (1999), 11, pp. 1-8.

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