Riministoria-il Rimino
Pagine dedicate a Guido Nozzoli.




La sua scomparsa.
L'11 novembre 2000, è deceduto Guido Nozzoli, a Rimini, dove era nato il 2 dicembre 1918.
Giornalista, scrittore, uomo politico dall'intensa partecipazione alla vita del Paese, lascia il ricordo di una persona che onestamente ha combatutto le sue battaglie ideali, nel segno della Giustizia e della Libertà. [il Rimino n. 59, anno II, 11 novembre 2000]
Morto Nozzoli storica firma de "Il Giorno"

MILANO – E' morto l'altra notte, a Rimini, Guido Nozzoli, una delle firme storiche del nostro giornale: invato di punta, cronista prestigioso dei fatti d'Africa e del Vietnam, testimone appassionato della tragedia del Vajont e del lungo disperante strascico giudiziario.
Nozzoli era nato a Rimini nel 1918 e aveva studiato Lettere all'Università di Urbino, allievo di Apollonio, Bo, Rebora, Ronconi, Musatti. Nel 1943 è arrestato per "attività politica contraria al regime" e dopo il 25 luglio partecipa alla Resistenza nell'entroterra romagnolo.
Dopo la guerra comincia l'attività giornalistica, prima a "Il Progresso d'Italia", poi all'"Unità", infine a "Il Giorno". Formalmente, da Bologna a Milano: in realtà sempre in giro per il mondo: Centro Africa, Algeria, Vietnam. E anche quando rientra in Italia resta ben poco nella redazione di via Fava. I suoi servizi arrivano dal fango di Lavarone o dalle aule giudiziarie: rigoroso nella testimonianza, affascinante nel racconto, ma sempre pronto a sollevare il dubbio, a denunciare l'inganno, a difendere i diritti dei più deboli.
Dopo la pensione si era ritirato a Rimini, nella speranza di ritrovare la città che era stata sua e dell'amico Fellini, ma era rimasto deluso e si era dedicato agli studi e alle letture. Al giornale era ricomparso rarissime volte, con il suo cappellaccio nero a larghe falde e il mantello di altri tempi.
"Oggi - dice Gaetano Tumiati - ci resta l'insegnamento del suo rigore assoluto, del suo disinteresse per il denaro, insieme all'utopistica passione politica e ai meravigliosi racconti di una Rimini che non c'è più". Gi. Gu. [Il Giorno, 12 Nov. 2000]
La coscienza del cronista
Guido Nozzoli, scomparso sabato 11 novembre ad 82 anni, è stato un giornalista che ha avuto come unica regola la dignità della professione, ed ha creduto nell'obbligo di non scendere a compromessi nell'esercizio della cronaca. Questo gli ha procurato fastidi e noie. A cui era stato abituato fin da giovane, quando nel 1943 venne arrestato per attività sovversiva.
Dal Vietnam inviava corrispondenze che non piacevano al Potere. Alla Farnesina fremevano, "Il Giorno", per il quale fu inviato speciale a Saigon, era governativo (proprietà Eni). Poteva un "foglio di Stato" contraddire la politica estera del Governo? Con Nozzoli, poté. Ed i fatti gli dettero ragione.
A tanti anni di distanza, quando raccontava la scena della fucilazione di un soldato vietcong (che urlava alle armi spianate il suo credo di libertà negata dall'invasione straniera), Guido aveva gli occhi lucidi e gli si incrinava la voce. Era la stessa commozione che provava nel ricordo dei Tre Martiri riminesi i quali, catturati, non parlarono, salvando così la vita dei compagni, tra i quali c'era pure Nozzoli. Al contrario di altri che poi si sarebbero inventati meriti inesistenti, lui non ha mai esibito quelli veri, tra cui ci fu il suo adoperarsi perché San Marino non venisse bombardata a tappeto, come Montecassino.
Aveva visto gli orrori e le violenze di tante altre vicende politiche, in Africa, ad esempio, dove maturava un storia fatta di tragedie: nel 1954 dall'Algeria, come inviato dell'"Unità" (organo del pci), scrisse opinioni contrarie alla politica ufficiale del pc francese. Dall'"Unità", dopo una breve esperienza in un innovativo settimanale ideato da Gaetano Baldacci, fondatore e direttore del "Giorno" dal 1956 al 1959, approdò proprio a questo quotidiano milanese, quando al timone era Italo Pietra, seguendo anche grandi eventi nazionali e di cronaca giudiziaria.
Per le corrispondenze sulla tragedia del Vajont, fu querelato. Al processo lo stesso pubblico ministero chiese la sua assoluzione. A testimonianza della funzione civile del "quarto potere".
Antonio Montanari (da "Il Ponte", 19 novembre 2000)
"Guido Nozzoli, inviato di guerra di grande umanità". Messaggio di Vasco Errani, presidente della Regione Emilia Romagna
"Desidero esprimere il cordoglio mio e di tutta la Giunta regionale per la scomparsa di Guido Nozzoli, giornalista di grande spessore umano, interprete rigoroso e attento della storia attraverso l'onestà ed il rigore dei suoi reportage da Algeria, Cecoslovacchia e Vietnam, come inviato speciale dell'Unità e del Giorno, dal dopoguerra alla metà degli Anni '70, per i quali ha ricevuto alti riconoscimenti e premi prestigiosi.
La sua storia, dalla condanna del Tribunale Speciale per attività antifascista alla partecipazione in prima persona alla guerra di Liberazione come Commissario Politico fino all'impegno civile per la rinascita e ricostruzione di Rimini nel dopoguerra, testimonia la passione professionale e l'impegno civile di Nozzoli.
Persona scriva e riservata, resta un punto di riferimento importante per interpretare la storia del XX secolo, attraverso il racconto e la denuncia delle sofferenze dei popoli coinvolti nei conflitti".
Ricordo di un grande giornalista, di Igor Man
da "Specchio della Stampa", 25. 11. 2000
E' morto un grande giornalista, il suo nome è Guido Nozzoli. Come dev'essere un giornalista per guadagnarsi il Grande?
Deve amare il suo (duro) mestiere. Guido lo amava. Perdutamente. Deve essere colto. Guido lo era. Dev'essere coraggioso, moralmente, fisicamente: lo era. Venne arrestato nel 1943 (a 25 anni) per antifascismo e al vice questore (una brava persona) che lo esortava a pentirsi, orgogliosamente ribadì il suo antifascismo. E fu partigiano, Guido, naturalmente coraggioso. Deve saper scrivere: Guido aveva uno stile asciutto, penetrante che coinvolgeva il lettore. Non deve travisare o gonfiare i fatti: e Guido prima che scrittore si sentiva (ed era) cronista.
Aveva un solo, brutto difetto Guido: era un idealista, un comunista romantico sicché soffrì molto in Cecoslovacchia, durante l'invasione sovietica. Tanto che, ad un certo momento, chiese (anzi, pretese) il cambio: "Me ne torno ai fattacci italiani, fanno soffrire di meno", mi disse.
Avevamo fatto insieme il Vietnam, e anche quella inutile guerra atroce fu fonte di sofferenza per lui. Va detto, però, che nelle corrispondenze al Giorno mai trapelò il suo intimo disagio. La sera, dopo aver portato al telegrafo i servizi (non c'erano collegamenti telefonici, né telefax, allora fra Saigon e il resto del mondo), andavamo a piedi sino a Cholon. Lui parlava, fumando. Peccato, non aver avuto con me un registratore poiché i discorsi di Guido erano alta testimonianza di fede: nell'Uomo.
Spesso mi parlava di sua moglie. Con tenerezza: una moglie-mamma. Ed è stato lo sfiorire della sua cara sposa a togliergli la gioia di vivere. Così si è lasciato morire, giorno dopo giorno.
Grande anche in questo, Guido Nozzoli.

La pagina di "Specchio" che ospita l'articolo di Igor Man, contiene a mo' di epigrafe queste parole di Guido Nozzoli:
"La guerra del Vietnam non potrà avere né vinti né vincitori. Avranno comunque vinto i più deboli il giorno in cui, fatalmente, gli Usa avranno un'ambasciata ad Hanoi. Quel giorno oggi può apparir lontano (se non un'utopia) ma verrà".

Altro ricordo di Igor Man.
Sullo «Specchio» di sabato 25 febbraio 2006, richiamandosi ad un articolo di Igor Man, una lettera di Franco Di Jorgi afferma: «Nell'articolo ci sono tre righe per me indimenticabili, quando il ricordo tocca Guido Nozzoli. Un amico che ho avuto la fortuna di avere accanto, quotidianamente, per vent'anni. Che dire, credo solo che di uomini così non ne nascano più. Farà piacere, penso, ad Igor Man sapere che, da Guido Nozzoli, ho spesso sentito parole di stima e apprezzamento nei suoi confronti».
Sullo «Specchio» di sabato 25 febbraio 2006, richiamandosi ad un articolo di Igor Man, una lettera di Franco Di Jorgi afferma: «Nell'articolo ci sono tre righe per me indimenticabili, quando il ricordo tocca Guido Nozzoli. Un amico che ho avuto la fortuna di avere accanto, quotidianamente, per vent'anni. Che dire, credo solo che di uomini così non ne nascano più. Farà piacere, penso, ad Igor Man sapere che, da Guido Nozzoli, ho spesso sentito parole di stima e apprezzamento nei suoi confronti». [28.02.2006]
Un ricordo di Guido Nozzoli
Un testimone
illuminato
di Sergio Zavoli
da RIMINI OGGI, n. 1 - Anno I - Dicembre 2000

E' stato un uomo, un giornalista, uno scrittore - e insieme un protagonista della lotta civile e politica di rara integrità e intelligenza. Negli anni cruciali della seconda guerra mondiale - al colmo cioè di un trapasso d'epoca che ha tragicamente segnato l'umanità - Guido Nozzoli ha vissuto quell'esperienza ponendosi in testa, non solo a Rimini, a una coraggiosa avanguardia che anticipò il tempo del più grande, consapevole drammatico riesame ideale e politico, culturale e storico affrontato da almeno due generazioni nel secolo appena trascorso. Con l'empito e la moderazione che spesso si uniscono in chi ha un'alta coscienza del proprio pensare e agire. Guido insegnò più cose, ai giovani di allora, della scuola stessa e in generale della società. Comizi e dibattiti, articoli e saggi, inchieste e libri - venuti dopo la sua rischiosa opposizione testimoniata, clandestinamente, durante il conflitto l'hanno accompagnato con il ritorno alla democrazia, in anni ed anni di studio e di viaggi, incontri e scontri, passioni e allegrie: tutto riversato nei racconti con cui ha tenuto tenuto sveglia non solo la congrega degli amici nei borghi o sugli scogli della sua città, ma anche una generazione di "inviati speciali" - dall'Algeria al Vietnam, oppure da Castelvetrano al Polesine, da Longarone a Seveso - lasciando dovunque l'impronta di un giornalismo partecipe, libero e responsabile, fatto di un ininterrotto confronto dialettico con la realtà e con se stesso; una prova di eticità degna di un testimone del nostro tempo tra i più credibili e stimati.
Con spirito al tempo stesso illuminista e romantico, guidato dal raziocinio, ma aperto a tutte le libertà, anche quelle fondate sui più arditi "teoremi fantastici" - come in un giorno di franchi bilanci finimmo per chiamare le sue scorribande esoteriche - Guido seppe stare in mezzo a un destino comune vivendo un'avventura segreta, solitaria; di segno, com'era nel suo carattere, coerente e paradossale, ma vissuta con quei puntigli tra culturali e istintivi che difendeva senza risparmi, coinvolgendoci nelle sue memorabili notti insonni, faconde e un po' sciagurate. Pronto a ogni eresia, purché sorretta da una rispettabile costruzione umana e intellettuale, mai indulgendo all'abiura, semmai incline al più trasparente e polemico dei distacchi - Guido ha interpretato la militanza politica e l'appartenenza partitica con una idealità mai faziosa, dogmatica; fu anzi protagonista di risolute "eresie" in nome dell'intelligenza della storia e delle ragioni umane, sapendo vivere il suo "scandalo" senza compiacimenti o malizie, ma con la più disarmata e disarmante limpidezza.
Aveva imparato dalla filosofia e dalla politica, ma anche dall'esistenza. che tutto può essere o diventare diverso. Il grande scenario dell' interrogazione: Voltaire, e per qualche verso forse Jung, nella buca del suggeritore. Non gli sono state risparmiate sofferenze civili e morali, pubbliche e personali anche gravi, però fu la morte della figlia Serena a spezzargli in due la vita, al punto che la seconda parte non poté più, in nulla, essere ricondotta alla prima.
E tuttavia aveva fatto del dolore un ulteriore esperienza per liberare solidarietà e tolleranza, cioè il senso degli altri, seppur restringendo via via il cerchio delle amicizie, a veder bene, della sua, un tempo, avidissima curiosità. Lui, l'Anna e Daniele, e poi un mannello di affetti, con Sergio e Marino sopra tutti.
Quante a me, dopo un lungo volerci bene fitto d'incontri e parole. il sentirci si era fatto più rado: lo imputavamo, entrambi, alla pigrizia, pur sapendo che la vita - se le viene meno l'abitudine alla vicinanza - a un certo punto si prende tempo, rimanda. dirada. anche senza disperdere e, men che meno, separare.
E' presente di lui, una ricchezza i cui lasciti sono dentro e in mezzo a noi, rimasti impigliati, di colpo, in questa nostalgia dolorosa: privi di un amico e di una persona, di una mente e di una coscienza cui sarebbe stato arduo negare persino i consensi più difficili, perché Guido avrebbe riscattato anch'essi nel suo essere una creatura tra le più generose, disinteressate e ricche che la nostra comunità umana, civile, fraterna abbia mai conosciuto. In essa tarderà a nascere, se nascerà, una presenza così viva, non trovo aggettivo che più gli somigli.
Sergio Zavoli
Guido Nozzoli, giornalista e scrittore
Il Sigismondo d'oro della città di Rimini per il 1999 a Guido Nozzoli
giornalista e scrittore: premio ad una carriera di prestigio
Il "Sigismondo" 1999 attribuito all'inviato speciale Guido Nozzoli è un riconoscimento alla carriera. Nato nel 1918, nel gennaio '43 è arrestato assieme a Gino Pagliarani per "attività politica contraria al regime": "I due giovani intellettuali riminesi erano diventati due piccoli leader sui quali cominciava ad orientarsi un po' la bussola dell'antifascismo riminese", ha scritto Sergio Zavoli in "Romanza". Al periodo della Resistenza, Nozzoli ha dedicato un libro, "Quelli di Bulow". Nell'intervista pubblicata da Bruno Ghigi ("La guerra a Rimini e sulla Linea Gotica") ha ricostruito le vicende della Liberazione, quando si è stati ad un passo dal bombardamento a tappeto del monte Titano. Grazie alle informazioni fornite da Nozzoli all'autorità militare alleata, si evitò lo "spianamento di San Marino" già programmato.
La sua carriera giornalistica si è svolta tutta tra Bologna e Milano, dove alla fine è approdato al "Giorno".
Negli anni '50 ha lungamente soggiornato in Africa. Poi è stato spedito nel Vietnam. Guido Nozzoli, ha scritto Enzo Biagi nel "Corriere della Sera" (1997), è stato "l'unico dei nostri che capì come andavano a finire le storie" di quella terra. Di recente Vittorio Emiliani, nel volume "Gli anni del Giorno", ha inserito Nozzoli tra le firme più importanti di quella testata, nata nel '56 con Gaetano Baldacci direttore.
Lo scorso anno Igor Mann su "Specchio", parlando della comune esperienza giornalistica a Saigon, ricordava che "Guido Nozzoli fece aggiungere alla scritta bilingue" del braccialetto di riconoscimento, "l'orgogliosa dizione: Cittadino di Rimini".
Nozzoli ha dato alle stampe anche "Il pianeta Romagna", una biografia di Amilcare Cipriani, ed "I ras del regime, gli uomini che disfecero gli italiani".
La sua formazione politica è stata ricostruita da Umberto Lazzarini in tre interviste su "Chiamami città" (febbraio-marzo 1996). Qui non si trova però un gustoso aneddoto. Nell'immediato dopoguerra, quand'era consigliere comunale, volevano eleggere Nozzoli sindaco di Rimini. Lui avvisò: "Ragazzi, chi ruba va dentro". Ha fatto 'soltanto' il giornalista.
(Antonio Montanari, Il Ponte, Nov. 1999)
Da Guido Nozzoli, "Questa Romagna", Bologna 1965

"Questa Romagna, tanto per intenderci, dove comincia e dove finisce? Nessuno lo ha mai stabilito con precisione. Né i Romani che l'associarono a casaccio persino alla Liguria, né i Bizantini da cui ebbe il nome, né i signorotti che la fecero a brandelli, né i papi che, ricucendola, tennero gli orli abbondanti aggiungendovi Bologna e Ferrara.
I limiti che le assegnava Dante - Tra il Po, il monte, la marina e il Reno - erano invece troppo stretti, anzi del tutto fuori di misura. Se mai si poteva dire: Tra il Reno, il monte, la marina e il Conca. L'endecasillabo avrebbe perso d'eleganza, però la Romagna avrebbe riguadagnato le province di Forlì e di Ravenna: le sole, in fondo, che le appartengano.
Ma gli umori della terra romagnola non si esauriscono entro i confini amministrativi convenzionali di queste due province, anzi si spandono per un buon tratto nell'imolese in provincia di Bologna, verso Marradi in Toscana, attorno alla Repubblica di San Marino e in certi pigri paeselli del Montefeltro nelle Marche.
Per segnare almeno una linea di divisione tra l'Emilia e la Romagna, Antonio Baldini suggeriva di scendere da Bologna verso Imola chiedendo da bere ad ogni casolare: finché vi danno dell'acqua siete in Emilia, dove cominciano a darvi del vino - e' be', il bere, come lo chiamano - comincia la Romagna.
Il geografo di un'autorevole enciclopedia italiana non fornisce indicazioni molto più precise quando scrive che, pur facendo parte dell'Emilia, la Romagna continua a imporre la sua individualità, impressa più nel carattere della popolazione, in molti elementi folkloristici, nella vivace letteratura dialettale e nelle caratteristiche tradizioni musicali, che nel paesaggio geografico. Una terra senza confini, che non si riconosce dai boschi, dai monti, dai fiumi, dal clima, ma dalla gente e dalle sue abitudini. Non una regione geografica, dunque, ma una regione del carattere, un'isola del sentimento. Un pianeta inventato dai suoi abitanti".
Uno dei "ragazzi" riminesi degli anni Venti
Guido Nozzoli è morto sabato 11 novembre
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Non ha voluto, come era nel suo stile riservato, né funerale, né manifesti. Antifascista in tempi non sospetti, organizzatore politico nell'immediato dopoguerra, giornalista inviato speciale di quotidiani nazionali. Era nato nel 1918, apparteneva ad una generazione che ha vissuto la guerra e poi si è dispersa in altre città; alla fine quasi tutti sono ritornati
"... pretendere di dire la verità e tutta la verità con un giornale è come pretendere di suonare la Nona di Beethoven con un'ocarina. Lo strumento non è propriamente adatto"

La folta schiera di amici morti in questi ultimi anni, oltre che portarmi un lugubre annuncio di vecchiezza, mi ribadisce una assoluta, per quanto dura da accettare, verità: non c'è alcun rimedio contro il tempo. Anche Guido Nozzoli se ne è andato. Dignitosamente, tra le viscose foschie di un cinereo novembre, ha intrapreso l'ultimo, definitivo viaggio verso la "lontana, deserta isola del silenzio, immersa nella penombra, avviluppata nel mistero".
Iniziò la professione di giornalista nell'immediato dopoguerra, allorché venne assunto al "Progresso" di Bologna insieme ad un altro giovane intellettuale riminese: Gino Pagliarani; passò quindi all'"Unità" ed infine a "Il Giorno".
Nei primi anni '60, allorché i miei coetanei ed io, cominciavamo a leggere i giornali, cercando di capirci qualcosa, la firma di Guido Nozzoli era notissima. I protagonisti della generazione precedente alla sua, da Mario Missiroli, Giovanni Ansaldo, Orio Vergani, rimanevano, per noi, ciò che in realtà erano stati ed erano: vecchi mestieranti compromessi con una stagione ormai tramontata, screditati da un atteggiamento morale scettico e da un inevitabile approccio cinico con la realtà e con la notizia.
Guido Nozzoli, con la sua bravura, con la simpatia che ogni suo scritto sapeva trasmettere, con la spregiudicatezza che l'ha sempre contraddistinto, aveva, ai nostri occhi, il grande merito di non imprimere mai, sui suoi servizi, sulle sue corrispondenze, il marchio avvilente della ufficialità. Parlando della sua professione, diceva: "Per essere un bravo giornalista occorre soprattutto saper ascoltare e sapere dove cercare le notizie. Bisogna, inoltre, usare le gambe almeno quanto il cervello, nel senso che è indispensabile, prima di licenziare un articolo, verificare le informazioni, ma pretendere di dire la verità e tutta la verità con un giornale è come pretendere di suonare la Nona di Beethoven con un'ocarina. Lo strumento non è propriamente adatto".
Fu in Sicilia, cronista rigoroso, all'indomani di quel torrido 5 luglio 1950, allorché il corpo del bandito Salvatore Giuliano venne trovato privo di vita nel cortile di una casa di Castelvetrano. Fu da una Modena insanguinata e offesa che Guido Nozzoli scrisse uno dei suoi servizi più toccanti, fremente per indignazione e passione civile, nel momento in cui raccontò della proditoria strage, compiuta dai "celerini" del ministro Scelba, i quali sparando dai tetti delle Fonderie Orsi sulla folla di scioperanti, lasciarono sul terreno sei morti ed una decina di feriti.
Fu tra i primi a riferire circa le immani devastazioni provocate dallo straripamento del Po nelle località Occhiobello e Paviole, il 17 novembre 1951 ed immediatamente accorse, il 10 settembre 1963, in una apocalittica Longarone, dopo che una frana, caduta nel bacino artificiale del Vayont, aveva provocato una improvvisa, colossale inondazione che causò migliaia di morti. Per Guido Nozzoli, fare giornalismo ha voluto dire occuparsi dei mali dell'uomo, condividere i dolori di molti, esprimere coraggiosamente le proprie idee, criticare e giudicare, il tutto con la massima partecipazione ed onestà intellettuale.
Fu come inviato speciale di guerra che Guido Nozzoli diede il meglio di sé. Già nel 1954, quando ancora scriveva per l'"Unità", venne a contatto con i massimi vertici del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) algerino sposandone da subito la causa. Da codesta particolare posizione, di cronista e fiancheggiatore dei "terroristi ribelli" (così gli uomini dell'OAS, Organisation de l'armée sécrete, chiamavano i patrioti africani che combattevano per l'indipendenza e per la libertà del proprio paese), il giornalista riminese raccontò, vivendolo in prima persona, tutto il conflitto.
Magistrali furono le interviste effettuate a Ben Bella, al generale Yves Godard, capo del reparto strategico dell'organizzazione dei Pieds Noir e nel 1962, allo scrittore francese Andrè Malraux, allora ministro della cultura, chiamato espressamente a quell'incarico dal presidente De Gaulle. Poi venne il Vietnam ed anche qui il nostro uomo, non poteva che schierarsi da una parte. Nella lontana Indocina, tra le paludi insalubri, la fitta jungla, le bombe al napalm, scelse di stare dalla parte dei Vietnamiti del Nord. Con profetica esattezza, in tempi non sospetti, dalle colonne de "Il Giorno", Guido Nozzoli si era detto sicuro della disfatta dell'esercito americano. Ebbe ragione. La guerra del Vietnam costò agli Stati Uniti 55.000 morti, 300.000 feriti e 110 miliardi di dollari. Essa per di più contribuì ad offuscare, mettendola decisamente in crisi, l'immagine degli USA nel mondo. Poi, a cinquantacinque anni, nella pienezza dei suoi mezzi espressivi, senza una ragione plausibile, staccò la spina. Ripose la fidata Olivetti lettera 22 nella custodia ed andò in pensione. Non ne volle più sapere né di collaborazioni né di soldi né di nulla.
 
Una lezione di stile e di umiltà
 
Abbandonò definitivamente Milano e ritornò a Rimini nella vecchia casa paterna e qui, quasi andasse alla riscoperta di un panorama compiutamente familiare, avvolto nel proprio dolore come in un velo di favola (l'amata figlia Serena se ne era andata per sempre, divorata da un male che non perdona), si sottrasse un poco alla volta alla vita. Spesso, durante le nostre lunghe conversazioni, che ci portavano a consumare intere nottate, mi confessò di non possedere più la forza di aderire al proprio destino.
Mi confessò che ormai il mondo gli pareva assurdo ed inestricabile e che non vedeva come fosse possibile trovare la salvezza mediante un atto di volontà. Incantevole e malinconico riusciva (e questo fino agli ultimi giorni), ad ammaliarti in virtù dell'uso magico della parola e nella biblioteca surriscaldata dove, tra montagne di libri, erano affastellate a capriccio sfere armillari, pupazzetti di panno Lenci, cofanetti di cristallo di rocca, specchi di Boemia, scudisci dancali, maioliche dai molti colori, alambicchi, ritornava ad essere quell'animoso, lucido, implacabile argomentatore che durante la campagna elettorale del 1948 demoliva col suo rigore dialettico la "paranoia controriformistica" dei vari padri Samoggia e Lombardi.
Nel dicembre dello scorso anno, il Comune di Rimini lo volle onorare attribuendogli il "Sigismondo d'oro". In quell'occasione, di fronte ad assessori distratti, giovani politici che nulla conoscevano di lui e della di lui storia, Guido fu dissacrante, autoironico riuscendo ad impartire a tutti i presenti una lezione di stile e di umiltà. Ultimamente le sue apparizioni in Piazza Cavour, consueto luogo di incontro con gli amici, si erano diradate.
Spesso mi telefonava: una volta era per avere chiarimenti circa una parola provenzale antica e voleva che risolvessi i suoi dubbi andando a cercare nel monumentale: Lexique roman ou dictionnaire de la langue des Troubadours, di Raynouard; un'altra volta per aver conferma di una certa data o di un nome che non riusciva a ricordare o soltanto, più semplicemente, per dirmi di andarlo a trovare. Non c'era in lui, al di là dell'increscioso problema della vecchiezza, il minimo indizio che lasciasse supporre la fine imminente. Era soltanto stanco. Il melodioso fruscio delle foglie cadute sull'acciottolato del pletorico camposanto si mischiava al sommesso parlottio dei vecchi amici che lentamente, sotto un cielo novembrino, si allontanavano, dopo avergli reso l'estremo saluto. Ora che Guido non c'è più, fitte di insicurezza e di sgomento trafiggono l'incongruità della mia esistenza ed il mio atroce desiderio di vivere.
Enzo Pirroni (da "Chiamami città", 21 novembre 2000)

DocumentiResto del Carlino di Rimini, 21 Dicembre 1999 (nota di Silvano Cardellini)
"Poi la cerimonia di consegna dei 'Sigismondo d'oro '99' al giornalista Guido Nozzoli e ai pluricampioni di pattinaggio Beatrice Palazzi Rossi e Patrick Venerucci. Assente il gruppo di An per protestare contro l'assegnazione del riconoscimento a Nozzoli, appena reduce dal conferimento della massima onorifenza massonica. All'inizio del ricevimento qualche consigliere comunale, proclamandosi cattolico, aveva assicurato che avrebbe lasciato la sala prima della premiazione di Nozzoli. Ma poi visto che il vescovo non faceva una piega sono rimasti al loro posto."
Documenti. Da Chiamami Città n. 336, articolo di Enzo Pirroni
Guido Nozzoli, riminese, è stato per alcuni decenni una delle grandi firme del giornalismo italiano. Qualche giorno fa è stato insignito del "Sigismondo d'oro". Un uomo che ha avuto la ventura di poter testimoniare tutti gli avvenimenti di rilievo del primo trentennio postbellico
Un ironico e lucidissimo cacciatore di notizie
La stanza è come al solito surriscaldata. Il luogo, ingombro di libri, affastellato di oggetti che a capriccio, senza un sistema, stanno sparsi su tavoli, in bilico su pencolanti mensole, serrati dentro severi armadi, è di una bellezza angosciante. Non sembra neppure appartenere al mondo reale. E' più una proiezione dell'immaginario. Il laboratorio d'un qualche pittore metafisico.
Guido Nozzoli mi accoglie qui per trascorrere insonni nottate tra sfere armillari, inutili mercatanzie, preziose minuterie, stormi di quadri, vasi di diaspro, cucurbite, alambicchi, recipienti per coagoli e gatti. Tanti gatti. Vecchi felini, taluni oppressi dalla obesità, alcuni orbati, altri compunti e felpati che, con indifferenza, quasi movendosi nel sogno, trasportano la loro demonia nell'irridescente splendore di drappi luminosi.
La scienza di codesto vecchio giornalista si colloca in un delicato punto d'incontro tra immaginazione e conoscenza, per cui attraverso precise rivisitazioni che, grazie alla perizia verbale di Guido, trapassano in racconti, si ridestano le memorie più lontane, cronache dimenticate riappaiono intatte, accadimenti remoti risplendono di repentina, attuale chiarezza. Succede, nelle viscose ore notturne del torvo inverno rivierasco, di avvilupparsi nell'intricatissimo simbolismo mistico della letteratura rabbinica ed allora Guido Nozzoli, con la naturalezza derivantegli da un'antica consuetudine, mi erudisce circa le differenze tra il talmud gerosolimitano e quello babilonese, mi accompagna con soave immediatezza, procedendo di citazione in citazione, attraverso la gimatreya, ovvero l'interpretazione delle lettere per mezzo del loro valore numerico che è, senza dubbio, l'aspetto più affascinante dell'ermeneutica cabbalistica, mi conduce in una vertigine di segreti, ponendomi domande, di volta in volta sempre più inquietanti, per i sette sentieri della Torah, facendomi infine approdare alle enigmatiche acque del Sefer ha-zohar (Il libro dello splendore).
Succede anche, che un'improvvisa nostalgia di giovinezza, un senile, irresistibile bisogno di ritornare alle memorie più lontane, induca Guido a rievocazioni di personaggi famosi o di compagni che in tempi passati si sono esibiti, chi come augusto chi come clown bianco, sotto lo zingaresco chapiteau del giornalismo. Da una Bologna rabberciata in preda a forti tensioni post-belliche, dalle spoglie stanze, niente di più di taccagne stamberghe, che fungevano da redazione al "Progresso d'Italia", spunta la figura del redattore-capo Giosuè Ravaioli. Canticchiando arie mozartiane, quest'uomo di Forlimpopoli, singolare ed incantevole per maestosità e ponderatezza, osava, dissipando le sepolcrali, dense nebbie che avvolgevano i lugubri comitati centrali del PCI, contraddire il segretario generale del partito e contrastare, con perfetto, agghiacciante equilibrio logico, la collera servile di funzionari cortigiani e disutili frapponi. Sarà in un clima di accesa guerra fredda, durante la campagna elettorale del 1948, mentre i "comitati civici" di Luigi Gedda, attraverso la vischiosa, cagliostresca rete parrocchiale, lanciavano la loro malanimosa crociata ideologica, che Guido Nozzoli vivrà la stagione più esaltante, dando modo alla sua propria naturale ironia, al suo implacabile rigore dialettico di trionfare in qualsivoglia contraddittorio.
 
Nel cuore della storia e della grande politica
 
Inseguiva ovunque andassero i rapinosi "frati volanti" e con studiato zelo perseguitava la lucida paranoia controriformistica di padre Lombardi, "vero e proprio architetto di calunnie", assurto, per prodigio tecnologico, a marconiano microfono di dio. Padre Samoggia, incalzato e messo alle corde dagli artifizi verbali e dalle scaltritezze retoriche del giovane giornalista riminese, fuggì dopo esser caduto in attacchi isterici e non prima di aver ricoperto l'antagonista di maledizioni, vomitandogli contro una cascata di appellativi propri della satanica legione: Rubicante, Graffiacane, Ciriatto, Barbariccia, Libicocco, Cagnazzo, Alichino, Calcabrina, Farfarello...
Inviato speciale in ogni parte del mondo, Guido Nozzoli, abilissimo a stringere in netti contorni ed a contenere, descrivendole in raffinati servizi, le grandi vicende epocali che hanno caratterizzato questi ultimi cinque lustri di storia, fu lucido testimone allorché i carabinieri del colonnello Luca, annunciarono, il 5 luglio 1950, di aver ucciso il bandito Giuliano in uno scontro a fuoco avvenuto in località Castelvetrano. Seguì il processo che, il 31 ottobre 1951, decretò la condanna all'ergastolo dell'ex maggiore delle SS, Walter Reder. Fu a Modena quando, nel freddo inverno del 1950, la polizia del ministro dell'interno Mario Scelba, dai tetti delle Fonderie Orsi, sparò sugli operai, causando sei morti ed una decina di feriti. Visse da protagonista la catastrofe biblica che il 17 novembre 1951, colpì il Polesine nel momento in cui il Po ruppe gli argini e otto miliardi di metri cubi d'acqua si riversarono per le campagne distruggendo paesi e case, uccidendo e devastando. Seguì, minuto per minuto, l'azione con la quale il generale vietnamita Vo Nguyen Giap, costrinse alla resa, il 7 maggio 1954, la roccaforte francese di Dien Bien Phu, difesa dal generale Christian de Castries, con i suoi 10.000 uomini. Si recò a Budapest per tener dietro agli esiti della sollevazione ungherese, repressa brutalmente dai carri armati sovietici, nonostante la disperata resistenza della popolazione, nell'autunno del 1956. Esemplari furono i suoi reportages sulla rivolta algerina, tra i quali spicca l'intervista strappata al capo del Fronte di Liberazione Nazionale, Ben Bella. Scrivendo sulle pagine de "Il Giorno", il quotidiano milanese voluto e finanziato da Enrico Mattei, Guido Nozzoli, continuò le peregrinazioni di giornalista girovago e, da qualsiasi luogo che rappresentasse una tappa della sua geografia antropica, produsse singolari ed incantevoli "articoli". Protagonista di una enorme, incessante sfilata avente come passerella l'atlante, Guido Nozzoli, percorse regioni e stati: la Praga di Dubcek, il Congo e l'Uganda, Firenze sott'acqua, la penisola del Sinai, la Cisgiordania e le alture del Golan, la Liberia mangiata da mosche, Barbiana sperduta, maggio a Parigi, Quartiere Latino, Vajont e processi e ancora il Vietnam. Chissà se a Cecco Rosso, Igor Man, Egisto Corradi, che gli furono compagni fedeli in codesti tortuosi pellegrinaggi, sia capitato di trovare la verità? La coscienza della vanità d'ogni cosa impedisce al vecchio cronista, di nutrire eccessive speranze. "L'intera mia generazione - dice Guido - è ridotta povera e cieca. Chissà di cosa parlano i giovani tra loro?". Le ore della notte, che scivolano silenziose, sembrano attenuare la ciclotimia e la tristezza del mio caro amico anche se il dolore di un distacco, di una luttuosa sciagura che incessante si ripropone, l'avvolge come in un velo. Provo a dirgli che nonostante tutto dobbiamo avventurarci nel nostro assurdo, insensato, crudele destino. E parlo e dico che è forse giusto dare un senso perfino alla disperazione. Ringrazio Guido per i suoi silenzi, per gli amari pensieri, per la sua incomparabile scrittura, per l'onesta esibizione della sua vecchiezza, per il suo sapere, per i suoi racconti che sanno penetrare fino al cuore. Ringrazio Guido di essermi amico.
Enzo Pirroni
Nozzoli e i Tre Martiri (da La Piazza).
Tre giovani riminesi uccisi dai nazi-fascisti pochi giorni prima della fine della guerra per Rimini, liberata il 21 settmbre ‘44
Guido Nozzoli compose un’elegia di forte intensità emotiva. Che come tutti i pensieri che raccontano l’animo umano è sempre attuale. La riproponiamo per non dimenticare
di Silvio Di Giovanni


Ogni città ha la sua piazza grande, la sua “agorà” come la chiamavano i greci, il “foro” per i romani.
Quella di Rimini è ricordata nel 1892 dal poeta dialettale Giustiniano Villa in uno dei suoi lavori in vernacolo intitolato, con feconda fantasia, con viva speranza nel futuro e con la ripresa della utopia costiana, “Nell’anno 2000".
Si chiamava Piazza Giulio Cesare fino al 1944.
Qui i nazi-fascisti, la mattina del 16 agosto 1944, sulla sinistra forca innalzata tra il sacello ed il suggesto di Cesare, impiccarono i tre partigiani Mario Cappelli, Luigi Niccolò e Adelio Pagliarani.
La Piazza grande da allora porta il nome dei “tre martiri”.
A quasi sessant’anni di distanza il Comune di Rimini, nel riordino dell’arredo urbano della piazza, ha finalmente immortalato il luogo del martirio vicino al Sacello ed ha ricollocato il suggesto restaurato.
Furono seviziati e spietatamente torturati, i tre gappisti partigiani, ma non parlarono. Morirono senza parlare, senza rivelare i nomi dei loro compagni che pur conoscevano.
Guido Nozzoli, giornalista riminese di prestigio, ne riferisce nell’ampia intervista concessa all’editore Bruno Ghigi, 23 anni fa, per il libro “La guerra a Rimini”.
Nozzoli, nato nel 1918, era un giovane ufficiale che prestava servizio a Siena nel 32° Reggimento Carristi della Divisione Centauro, quando arrivò l’8 settembre del 1943.
Fino dal 25 luglio era in contatto con i giovani antifascisti del Riminese e dapprima aveva anche subito un processo dai fascisti dopo l’arresto del gennaio del ’43 per attività sovversiva.
Fu anche un uomo di cultura, all’Università di Urbino aveva seguito i corsi di docenti del calibro di Carlo Bo, di Apollonio, di Ronconi, di Musatti, di Rebora.
L’elegia che egli scrisse nell’ottobre del 1944, dedicata ai tre martiri di Rimini, con il titolo di “Elegia per i Martiri di Agosto”, è di una intensità lirica degna dei più grandi poeti e uomini di lettere del Novecento quali Gatto, Quasimodo, Bo, Pratolini, Ricci.
Si avverte nella cruda descrizione dei fatti il dolore per l’impotenza dell’autore e degli altri compagni di fronte al dramma, di fronte alla tragedia della morte a quella giovane età. Ed ancor più dolorosa e straziante quando erano convinti che tutto l’incubo della guerra stesse per finire. E il fronte di guerra passò e Rimini fu liberata il 21 settembre ‘44.
Questo giovane, pur preso con gli altri nell’intensa attività della immediata e necessaria rinascita della vita cittadina di ogni giorno, nella prosaica azione materiale quotidiana per far rivivere Rimini e i suoi abitanti, questo giovane, dicevo, compone una spendida lirica.
La sua sensibilità sente il bisogno e la sua penna sente l’obbligo di esternare la gratitudine a quei tre modesti compagni, che appaiono grandi come una montagna e il cui silenzio ha permesso la continuazione della vita degli altri compagni tra cui lo stesso Guido.
“E’ un pensiero che non mi ha mai abbandonato” scriverà Nozzoli ed ancora: “e spesso mi chiedo: siamo stati sempre degni del loro sacrificio?”

Articolo ripreso da La Piazza, 4/8/2003.
Guido Nozzoli,
così salvò San Marino dal bombardamento alleato


Anni Trenta, favolosi e tragici [*]

La guida turistica di Rimini curata da Luigi Gravina esce nel 1933, ultimo dei quattro anni in cui Pietro Palloni (1876-1956) è podestà, e mentre si sta realizzando (1932-35) il maestoso lungomare dal porto a piazza Tripoli. Palloni l'ha voluto per competere con la «passeggiata degli Inglesi» a Nizza. Gravina elogia «gli splendori del lido» introducendo i lettori alla vita della Marina, che per «comodità dei forestieri» precede la descrizione della città.
Il primo stabilimento balneare di Rimini è inaugurato nel 1843. Nel 1868 la sua gestione passa al Comune (fino al 1904). Lo scarso numero di frequentatori per mancanza di infrastrutture alberghiere e d'intrattenimento, non riesce a coprire le spese. Nel 1873 apre il Kursaal: «il primo di tutta Italia», lo definisce il celebre igienista Paolo Mantegazza che ne è direttore. Nel 1876 nasce l'Idroterapico. Sarà demolito nel 1929. Nel 1878 il sindaco conte Ruggero Baldini inutilmente cerca di convincere alcuni investitori milanesi ad accettare la gestione privata dello stabilimento balneare. Baldini non ha fatto buoni affari con il turismo, ha dovuto vendere all'asta anche la casa natale. Dal 1885 ai nobili ed ai ricchi borghesi il Comune inizia a cedere gratuitamente od a basso prezzo, appezzamenti e tratti di spiaggia acquistati dallo Stato. Nel 1908 apre il Grand Hotel. Il Comune lo acquista nel 1931.
Il 16 agosto 1916 il terremoto provoca gravi danni alla città, per cui sono demoliti 615 fabbricati. Una sventura peggiore al foglio cattolico «L'Ausa» appare la «Società dei bagni». Fallita nel 1912, essa ritorna nel 1926 in gestione al Municipio dopo oltre quattro anni di trattative. Dal 1917 la spiaggia, da Riccione a Bellaria, è data in concessione al Comune. Nel 1921 l'amministrazione di Rimini ha debiti per 17 milioni di lire con seri ed onerosi problemi sociali da risolvere, e poco credito presso le banche. Il Comune ha creato la nuova industria turistica, i privati si sono dedicati all'edilizia. Le perdite sono state municipalizzate e le rendite promosse. Molti contadini scendono dalle campagne al mare, attirati dalla «monocultura balneare» che trionfa nel Novecento, come Giorgio Conti ha spiegato in pagine fondamentali per la storia della città. Dal 1929 si vola a Milano. Nel 1932 è inaugurata la ferrovia per San Marino. Il duce ha insignito Rimini d'una etichetta rimasta celebre: «Scarto delle Marche e rifiuto della Romagna».
La Rimini tra le due guerre mondiali, ha scritto Guido Nozzoli, era una cittadina provinciale in cui «l'unica opera nuova che mutasse non sgradevolmente la sua fisionomia fu il lungomare 'di Palloni'. [...] Sembrava tutto nuovo, ed erano le ultime frange dell'800».
Nel 1930 Rimini ospita 48.315 turisti. Nel 1934 sono 66.231 (+37%). Gli stranieri raddoppiano da 1.561 a 3.402. Nel «Corriere del Mare» del Ferragosto 1930, Valfredo Montanari (capo ufficio dell'Azienda di Soggiorno) scrive: «... abbiamo vissuto momenti di aspirazioni infinite. [...] La valorizzazione industriale della Riviera Riminese non è impresa di facile compimento». Per il ferragosto del 1936, quello delle picconate di Mussolini per l'isolamento dell'arco d'Augusto, al Kursaal si organizza il primo festival della canzone italiana. «Il vero successo si ottenne l'anno successivo», racconta nel 1962 Valfredo Montanari a Gianni Bezzi de «il Resto del Carlino»: «Il 5 agosto 1937 cinquemila persone affollarono il parco del Kursaal» che non era soltanto «il più raffinato edificio della città» ma anche uno dei 'personaggi' che «diedero la loro impronta, la loro voce, il loro spirito alla storia di una marina che accolse gente di ogni Paese».
Alla fine dell'agosto 1939 il cinegiornale Luce n. 1571 presenta la «gaia, spensierata, salubre vita balneare di grandi e piccini» sulla nostra spiaggia. Dal primo luglio la filovia Rimini-Riccione ha sostituito la tramvia elettrica del 1921. A Miramare fa scalo la linea aerea Praga-Roma.
Sabato 2 settembre 1939 «il Popolo d'Italia» annuncia: «L'Italia con le armi al piede». Il resto lo sappiamo. La gente scappa dalla «città morta». Rimini è distrutta dai bombardamenti tra primo novembre 1943 e 21 settembre 1944. La Repubblica di San Marino diventa uno «sterminato rifugio», come dichiarò a Bruno Ghigi il giornalista Guido Nozzoli. Che il 19 settembre 1944, mentre si combatte per la presa di Borgo Maggiore, riesce a passare le linee ad Acquaviva giocando il cane di famiglia, Garbì. Deve contattare ufficiali dell'Ottava Armata che stanno preparando la "seconda Cassino". Si consegna loro prigioniero e li informa della «drammatica situazione dei civili rintanati nelle gallerie». Il comando inglese rinuncia così «al bombardamento di spianamento di San Marino programmato prima». Il Titano è salvo con gli oltre centomila rifugiati italiani. Nozzoli, allora sottotenente del Regio Esercito, scrive in un documento ufficiale (edito da Liliano Faenza nel 1994): «Assicurai l'assoluta assenza di batterie tedesche nel perimetro della città».
La guida di Luigi Gravina si apre con tre brevi citazioni. Palloni ammonisce: Rimini non deve rivolgersi indietro ma «guardare al futuro». Ci sono versi bucolici del medico concittadino Domenico Bilancioni (1841-1884). Lo storico Giovanni Maioli definisce la città «antica e moderna, di sogno e di vita».
Bilancioni, ex garibaldino e carducciano in poesia, fu tra i ventotto dirigenti repubblicani arrestati il 2 agosto 1874 a Rimini, sul colle di Covignano, nella villa dell'industriale Ercole Ruffi. Del gruppo faceva parte l'anarchico Domenico Francolini (1850-1926), marito di Costanza Lettimi e legato da fraterna amicizia a Giovanni Pascoli.
Il riminese Giovanni Maioli (1893-1961) diresse a Bologna il Museo del Risorgimento. A questo periodo storico egli ha dedicato centinaia di articoli e saggi, recando «il contributo di fonti ignorate o malnote, esaminate ed approfondite», come osserva Antonio Mambelli nell'orazione pronunciata a Rimini il 2 giugno 1962 durante il XIII convegno degli Studi Romagnoli.

[*] Questo testo di Antonio Montanari è la presentazione alla ristampa anastatica (ed. Bruno Ghigi, Rimini) della guida di Rimini di Luigi Gravina apparsa nel 1933. [13.12.2008]
Guido Nozzoli. La "sua" Rimini
I gagà seduti al Caffè Zanarini

Così Guido Nozzoli raccontò la "sua" Rimini.
L’11 novembre scompariva Guido Nozzoli. Era nato il 2 dicembre 1918. Proponiamo una piccola antologia di alcuni suoi scritti. Nel l967 usciva "La mia Rimini" di Federico Fellini, nel quale appare anche il racconto che Nozzoli fa del mito dell’estate cittadina.
La pagina sembra anticipare lo stile narrativo di "Amarcord" (1972): "La nostra estate cominciava sempre molto prima di quella dei forestieri, tra la fine d’aprile e i primi di maggio. Un mattino, risvegliandosi, si sentiva nella camera, mescolato all’odore della garofanina, un alito fresco che sapeva di cocomero appena tagliato. Era l’odore del mare che il levantino portava fino in città, dopo il lungo letargo dei ‘mesi morti’. Quel giorno lasciavamo i libri nel caffè della Vittoria (madre di ‘Corrado il brado’) e facevamo ‘pufi’ per andare sulla cima del porto a prendere il sole, a tirare sassi ai gabbiani e a guardare Omero che pescava i cefali con la fiocina per rimediare i soldi da giocarsi a ‘scala quaranta’. E c’era sempre qualcuno di noi che si tuffava nudo per il primo bagno, facendo finta di non patire il freddo che gli serrava le mascelle e gli macchiava la pelle di viola".
Prosegue il racconto: "Al mare - ‘a marina’ come si dice noi - ci passavo mesi sotto la custodia di mia sorella, fin dalla prima infanzia, e non ricordo neppure quando ho imparato a nuotare. Si andava giù con la sporta della colazione in tram, possibilmente sul rimorchio, tra lo sventolio delle tendine di juta che sfioravano gli alberi del viale, e si tornava su a piedi, con il costume e i sandali intasati dalla sabbia e un gran caldo tra pelle e pelle. Seguendo alla lettera le consegne della mamma, mia sorella non mi permetteva di fare il bagno se non erano passate tre ore dal pasto, non voleva che sudassi (per il pericolo della polmonite), che facessi la lotta (perché ci si poteva rompere la spina dorsale come ‘Balena’), che scavassi buche nella sabbia (per via dei reumatismi), che mi togliessi il berrettino (per non prendere insolazioni e meningite), che succhiassi le palle di ghiaccio tritato da Guerrino (per il rischio di tifo). Anzi, non dovevo allontanarmi dall’ombra della cabina - il capanno - in cui lei se ne stava a leggere i libri di Gotta o a ricamare chilometri di pizzo, mentre Pedro, Amerigo e gli altri miei amici più scatenati, passando al largo, si rotolavano sulla sabbia dal ridere facendo versacci". (…)
"Delle estati della mia infanzia, a parte l’ossessione delle malattie e i rigori di quella disciplina, ricordo con nostalgia e dolcezza le limpide mattine passate sulle secche della bassa marea a raccogliere ‘poveracce’ e ‘cannelli’ (che mia sorella mangiava crudi infischiandosene di tutte le norme igieniche imposte a me) e le brevi fughe tra i cespugli di tamerici sulle dune che erano lì, al limitare della spiaggia, e parevano lo sfondo di quelle oleografie della battaglia di Dogali appese ai muri della scuola. E ricordo i circuiti che si scavavano nella rena in cui facevamo correre a buffetti palline colorate come se fossero automobili; l’‘Idroterapico’ rimasto come al tempo di Mantegazza, con i vasi di gerani e i signori in paglietta; la Piattaforma di legno verdino che si spingeva su una trama di palafitte oltre la riva, ultimo relitto dei ‘café-chantant’ dei nostri nonni (…). Dopo cena, di tornare a marina (‘allo stabilimento’), a casa mia non si parlava neppure. La notte ‘è fatta per dormire’. Un paio di volte a dir tanto, tra luglio e agosto, si andava a prendere il gelato e magari ci si spingeva fino al ponte di ferro e la Madonna della scala lungo i greppi di via Sacramora punteggiati di lucciole, io ne prendevo due o tre da mettere sul comodino, sotto un bicchiere capovolto."
Le estati della dolce vita riminese, per i ragazzi come Guido Nozzoli, finiscono nel 1939, l’ultima ancora di pace per l’Europa. Il 10 giugno 1940, anche l’Italia è in guerra. Saltiamo al 21 settembre del 1944: "Quei partigiani riminesi che arrivarono a Rimini con le prime pattuglie alleate marciando lungo la riva di un mare immoto e deserto nel tiepido sole settembrino, si accorsero subito, sbigottiti, di non aver liberato una città, ma una distesa di rovine. In piazza Giulio Cesare le rane gracidavano nell’acqua putrida stagnante nel crateri delle bombe. Rimini era morta tra le macerie e i calcinacci. Neppure gli alberi s’erano salvati. Di intatto non c’era che una forca di legno grezzo piantata dai nazisti per impiccare tre ragazzi coraggiosi del GAP". (A loro, quella piazza è oggi intitolata).
Dopo le distruzioni della guerra, "la città con un sussulto imprevedibile, ricominciò a respirare come un corpo già spento che si rianima per una sorta di prodigio. Come Lazzaro sotto le bende. In marzo, tra un ‘bidone’ e un ‘boogie-woogie’, si pensava già a rappezzare qualche pensioncina. (…) Agli ultimi di maggio, finita la guerra anche al Nord, arrivò un autocarro di aiuti civili dalla Svizzera, su cui, tra balle e cassoni, avevano trovato posto due svizzerotte tedesche di mezza età, con gli occhi arrossati dal vento e coperte di polvere come i corridori dei vecchi giri d’Italia. Giunte in piazza, prima di scendere dal camion, cominciarono a chiedere ansiosamente alle persone che s’erano raccolte attorno: ‘Tu conosce Carlini? Essere sempre in Rimini Ovidio?’" (…).
"La Rimini tra le due guerre, dove siamo nati e cresciuti così come siamo, assomigliava ben poco a quella specie di frenetica Copacabana dei nostri giorni. Con tutte le sue pretese di modernità e di cosmopolitismo era - ce ne saremmo accorti più tardi - una cittadina provinciale di gusto quasi ottocentesco, con tante ville circondate da cespugli di oleandri e di ligustri, qualche solido albergo di stile floreale, la litoranea sonnecchiante fino al tramonto in una sua aristocratica solitudine, e una rete di viali e vialetti, per metà di terra battuta, fiancheggiati dalle cancellate e dalle siepi di qualche orto. Essendo antipatica a Mussolini - che non vi fece neppure costruire la casa del fascio ‘elargita’ anche all’ultimo paesello di Romagna - Rimini fu risparmiata, per sua fortuna, dalla deprimente retorica dell’architettura del littorio, conservando la propria faccia fino quando le bombe non gliela maciullarono con il resto del corpo. L’unica opera nuova che mutasse non sgradevolmente la sua fisionomia fu il lungomare ‘di Palloni’. Tra il porto e l’Ausa, nel tratto di spiaggia più elegante, il lungomare cancellò le dune - ‘i muntirun’ - e divenne subito il ritrovo pomeridiano dei bagnanti, l’equivalente estivo del Corso d’Augusto per i riminesi seduti a gruppo sulla lunga balaustrata all’ora del passeggio o pigramente ronzanti in uno sfarfallio di biciclette. Il centro di quel firmamento, il perno di quella giostra, era il Caffè con orchestra di Zanarini, dove si videro i primi gagà spregiatissimi dal fascismo (erano poi tutti figli di fascisti) prendere l’aperitivo seduti sul marciapiede. Tenuta quasi di rigore: la maglia a girocollo blu da cui spuntavano colletti immacolati (…). Sembrava tutto nuovo, ed erano le ultime frange dell’800".
In "Questa Romagna" (1965), Nozzoli ha pubblicato un saggio, "Il pianeta Romagna", dal quale riproduciamo l’inizio: "Questa Romagna, tanto per intenderci, dove comincia e dove finisce? Nessuno lo ha mai stabilito con precisione. Né i Romani che l'associarono a casaccio persino alla Liguria, né i Bizantini da cui ebbe il nome, né i signorotti che la fecero a brandelli, né i papi che, ricucendola, tennero gli orli abbondanti aggiungendovi Bologna e Ferrara.
I limiti che le assegnava Dante - Tra il Po, il monte, la marina e il Reno - erano invece troppo stretti, anzi del tutto fuori di misura. Se mai si poteva dire: Tra il Reno, il monte, la marina e il Conca. L'endecasillabo avrebbe perso d'eleganza, però la Romagna avrebbe riguadagnato le province di Forlì e di Ravenna: le sole, in fondo, che le appartengano.
Ma gli umori della terra romagnola non si esauriscono entro i confini amministrativi convenzionali di queste due province, anzi si spandono per un buon tratto nell'imolese in provincia di Bologna, verso Marradi in Toscana, attorno alla Repubblica di San Marino e in certi pigri paeselli del Montefeltro nelle Marche.
Per segnare almeno una linea di divisione tra l'Emilia e la Romagna, Antonio Baldini suggeriva di scendere da Bologna verso Imola chiedendo da bere ad ogni casolare: finché vi danno dell'acqua siete in Emilia, dove cominciano a darvi del vino - e' be', il bere, come lo chiamano - comincia la Romagna.
Il geografo di un'autorevole enciclopedia italiana non fornisce indicazioni molto più precise quando scrive che, pur facendo parte dell'Emilia, la Romagna continua a imporre la sua individualità, impressa più nel carattere della popolazione, in molti elementi folkloristici, nella vivace letteratura dialettale e nelle caratteristiche tradizioni musicali, che nel paesaggio geografico. Una terra senza confini, che non si riconosce dai boschi, dai monti, dai fiumi, dal clima, ma dalla gente e dalle sue abitudini. Non una regione geografica, dunque, ma una regione del carattere, un'isola del sentimento. Un pianeta inventato dai suoi abitanti".
Da "Il Ponte" del 10 dicembre 2000.

Guido Nozzoli e il Vajont.
DolomitiNews - Rete Civica Belluno - Isbrec - I Protagonisti - N.64
N.64 Anno XVII luglio-settembre 1996
Ad un anno dalla catastrofe il comunista Giorgio Bettiol denunciò, attraverso l'editoriale de "L'Unità" del 9/10/64 che ancora non era stata resa giustizia ai superstiti e che la mancata ricostruzione era dovuta alle
N.64 Anno XVII luglio-settembre 1996

Ad un anno dalla catastrofe il comunista Giorgio Bettiol denunciò, attraverso l'editoriale de "L'Unità" del 9/10/64 che ancora non era stata resa giustizia ai superstiti e che la mancata ricostruzione era dovuta alle lentezze burocratiche, ma anche all'assenza di una volontà politica governativa indispensabile per il superamento di queste difficoltà. Il deputato rimarcò maggiormente che ad un anno di distanza si fosse ancora obbligati a richiedere una tempestiva e concreta attuazione delle leggi straordinarie, a sollecitare una giusta erogazione e un produttivo impiego dei fondi raccolti dalla solidarietà nazionale e internazionale(26).
L'anno seguente (settembre 1965) la situazione denunciata dal quotidiano sembrò non essere mutata di molto. Sotto il titolo Vajont un dramma che non ha fine vennero riportati i disagi segnalati l'anno precedente, sottolineando che l'incapacità governativa di mantenere gli impegni assunti per la rinascita dei paesi distrutti fosse risolvibile solo col conferimento agli organi elettivi ed amministrativi decentrati di poteri decisionali atti a coordinare localmente tutte le procedure di competenza delle varie amministrazioni statali.
Il secondo anniversario della catastrofe fu l'occasione per un'ennesima freccia spezzata dal quotidiano per richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica nazionale e locale sui continui disagi vissuti dalla popolazione superstite. Fu Mario Passi a smuovere le acque:"Il Vajont è ancora una ferita aperta [...]. La ricostruzione vera e propria deve tuttora cominciare. L'individuazione delle responsabilità [...] è stata incredibilmente rifiutata dalla maggioranza della commissione parlamentare d'inchiesta, verso la quale era rivolta l'attesa del Paese. Oscure manovre sono in corso ai margini della complessa, laboriosissima istruttoria penale, tutte rivolte a creare le condizioni perchè anche il processo si risolva praticamente in nulla di fatto"(27).
"L'Unità", quindi, oltre ad occuparsi primariamente della "questione dei superstiti", perseguì lo scopo, unitamente all'azione svolta dal PCI a livello nazionale, di denunciare a tutti e tener viva nella memoria dell'opinione pubblica la situazione di precarietà non risolta celermente dal governo.
 

Note
M. Dardano, Il linguaggio dei giornali, Laterza, Bari, 1974, p. 16.
2) N. Tranfaglia, Il giornale, in G. De Luna, P. Ortoleva, M. Revelli, N. Tranfaglia (a cura di), Il Mondo Contemporaneo. Gli strumenti della ricerca, vol. X, Tomo II, La Nuova Italia, Firenze, 1983, p. 26.
3) Cfr. "Corriere della Sera", 11/10/63, p. 1. Un'attenzione particolare merita anche "Il Giorno" che visse al suo interno forti contraddizioni e profonde spaccature d'opinione proprio sul problema delle responsabilità. Giorgio Bocca prudentemente seguì la scia della fatalità: "Ci siamo solo noi -scrisse- i moscerini, che vogliamo conquistare l'universo, dichiarare guerra alla natura, ricostruire con folle tenacia la nostra torre di Babele, e che poi un mattino, nel crepuscolo davanti a una tale cancellazione, ritroviamo le nostre misure" [Cfr. "Il Giorno", 11/10/63, p.1]. Guido Nozzoli, Francesco Forte e il direttore Italo Pietra, invece, condannarono i monopoli elettrici e i soprusi subiti da lungo tempo dalle popolazioni locali. Valga come esempio di ciò l'articolo di Pietra La febbre dei perché: "Non c'è da scandalizzarsi della febbre dei perchè e dei percome. Altro è la speculazione sulla sventura, altro è la ricerca di tutti gli elementi, di tutte le voci, di tutte le tessere che possono aiutare a comporre il mosaico della tragedia [...] e a mettere in luce tutte le eventuali responsabilità degli uomini [...]" [Ibidem, 13/10/63, p.1].
4) Cfr. "Il Corriere della Sera", 11/10/63, p. 3. Vedi anche Ib., 12/10/63, p. 3 in cui si parlò di "ondata apocalittica", mentre il giorno seguente Cavallari scrisse: "E' l'immagine di un giorno del giudizio, surreale, come nelle pitture dell'orrido del Seicento. [...] Hai la sensazione violenta della spietata valle di lacrime". Un episodio significativo lo si lesse sul "Corriere d'Informazione" del 10-11/10/63, a p.3, in cui il giornalista Mosca affermò che la colpa non era di nessuno, solo della fatalità e della natura. Il 12-13/10/63, a p.3, distaccandosi completamente dalla linea del suo quotidiano e smentendo quanto aveva scritto il giorno prima, Mosca sostenne: "Viene spontaneo parlare di fatalità, di diabolica forza della natura [...]. Ci si rifiuta di pensare che possa esserci stato anche un minimo di colpa, che la tragedia avrebbe potuto essere evitata. In che mondo viviamo? Perbacco, in un mondo civile, ben organizzato [...]. La nazione non ha funzionato. [...] L'Italia era un deserto, distanze incolmabili, da Belluno a Longarone come andare in America su una barchetta. [...] Può darsi che nella vita di una città o di una nazione vi siano giorni vuoti, durante i quali tutto si rilascia, si slabbra, nulla più funziona, per colpa di tutti e di nessuno e che anche questo si debba ascrivere a quell'ineluttabile, a quel fatale che assolve da ogni responsabilità. Ma è un'ipotesi troppo comoda. [...] Chi ha mancato dev'essere punito, concedere l'alibi della fatalità sarebbe vergognoso".
5) Cfr. "Il Corriere della Sera", 11/10/63, p. 4. Vedi anche "Il Popolo" dell'11/10/63, p. 2, in cui troviamo scritto: "Per immaginare quanto è accaduto ieri notte bisogna far violenza a se stessi, vincere la pietà, superare il senso di angoscia e di tremore che nasce davanti ad eventi che gettano una luce agghiacciante sul significato stesso della vita dell'uomo e sulla sua capacità di dominare le forze della natura". Nello stesso giornale a p.1 si sostenne che "[...] il disastro appare come una forza cieca della natura che si abbatte sull'uomo e per la quale l'uomo resta, almeno per un istante, solo con la sua coscienza di fronte alla morte". Cfr. anche "L'Unità" del 24/10/63, in cui venne riportato l'articolo comparso nel settimanale "La Discussione" intitolato Perchè sono morti?. Secondo il giornale democristiano, "catastrofi come quella del Vajont sollevano anche un problema sul piano religioso". Subito dopo: "Quanti sono coloro che [...] si sono chiesti: Perchè Dio ha permesso tutto questo? Come ha potuto permettere, nella sua bontà, un simile disastro? Ma anzitutto, c'è una risposta? L'ateo la nega: egli pensa che non bisogna cercare, perchè non esiste una risposta che pretenda di andare al di là delle leggi fisico-chimiche della natura. [...] La sciagura del Vajont è dunque un appello alla fede, un invito a credere all'amore che Dio ha per i suoi figli. [...] Quella notte nella valle del Vajont s'è compiuto un misterioso disegno d'amore". Nella stessa pagina il settimanale ufficiale della Democrazia Cristiana deplorò, con l'articolo Barbarie premeditata, la morte sul ring del pugile Knox attribuendola alla "mostruosa macchina del pugilato americano". Mentre per i morti del Vajont si invocarono ragioni soprannaturali e si esortò alla rassegnazione, per i pugili morti si diedero spiegazioni materialistiche e si esortò alla ribellione.
6) Cfr. "Il Corriere della Sera", 12/10/63, p.1.
7) Ibidem, 13/10/63, p.1.
8) Ibidem, p.1. Cfr. anche "Il Popolo" dell'11/10/63, p.2, in cui si sostenne che "i comunisti sembravano convinti che la diga si fosse schiantata e parevano disposti a cogliere l'occasione per accusare il governo di non aver controllato la perfetta realizzazione tecnica della diga; per fare insomma della sciagura pretesto per sollevare uno scandalo".
9) Cfr. "Domenica del Corriere" , 13/10/63. Il 19/10/63, inoltre, comparve con diffusione nazionale il manifesto della Dc intitolato a caratteri di scatola "Sciacalli" e subito sotto affermava:" Additiamo al disprezzo del paese gli sciacalli comunisti". Infine "La Nazione" del 17/10/63, p.2, evidenziò le polemiche insorte tra democristiani e comunisti riportando un articolo intitolato "Cattivo gusto e incoscienza in una trasmissione TV" comparso sul settimanale democristiano "La Discussione". "La TV- si legge- ha presentato [...] ai telespettatori un servizio in cui è difficile dire se fosse prevalente il cattivo gusto o l'incoscienza nel dare una mano ai comunisti nelle loro azioni di sciacalli". Si considerò " impietoso e disumano il sistema di piantare il microfono davanti alla bocca della gente stravolta dal dolore, insistendo nel sapere il numero dei familiari perduti e le impressioni provate nell'abbandonare il paese distrutto [...]" e si condannò con fermezza " un tipo di inchiesta suscettibile di dare l'impressione [...] di un intero regime politico messo sotto inchiesta". Concluse affermando: "Si lasci agli attivisti del Pci, calati in forze sul teatro della sciagura, il compito di seminare odio e di avvelenare l'atmosfera. I sopravvissuti del Vajont hanno bisogno di giustizia, non di rissa politica".
10) Cfr. "Il Corriere della Sera", 12/10/63, p.2.
11) Ibidem, 13/10/63, p.3.
12) Cfr. "Il Gazzettino", 11/10/63, p. 2.
13) Ibidem, p. 4.
14) Cfr. M. Isnenghi, Il potere della carta. Il dopo-Vajont e la lotta delle parole, in M. Reberschak (a cura di), "Il Grande Vajont", Tip. Commerciale, Venezia, 1983, p. 54.
15) Cfr. "Il Gazzettino", 13/10/63, p.1, in cui ancora una volta il direttore Longo con l'articolo Giudicare dopo, affermò: "Ogni parola appare vana, sia che voglia paragonare l'evento al diluvio, sia che voglia confortare chi è sopravvissuto, scappando, come scappano quelle formiche che il piede dell'uomo inconsapevolmente risparmia, eppure appartenevano alla medesima colonna che il piede ha schiacciato". Subito dopo manifestò il dubbio che vi potessero essere anche colpe umane, "perchè la mente non si appaga dell'idea della fatalità. [...] Noi non pretendiamo di sostituirci agli inquirenti e alla Magistratura come, purtroppo, a fini di speculazione politica e di confusione generica, è stato già fatto e non soltanto dai comunisti. [...] Non saremo certo noi a dire che i capitalisti sono degli altruisti, [...] ma si offende il più elementare buon senso quando si sostiene che costoro possano aver mandato miliardi alla malora per far morire gli abitanti di Longarone e di Erto Casso e che abbiano voluto costruire la diga con la consapevolezza del gigantesco rischio". Infine concluse così: "A noi pare che le possibili responsabilità siano di due ordini. Innanzi tutto di ordine tecnico, [e cioè] alla costruzione della diga in quel posto. In secondo luogo di ordine morale e si riferiscono alla probabile leggerezza di coloro che [...] nell'immediata vigilia del disastro, non ne intesero l'entità e non provvidero a mettere in allarme le popolazioni. [...] Giudicheremo dopo, non prima. Di fronte alla grande tragedia cerchiamo di dare spettacolo di serietà".
16) Ibidem, 16/10/63, p.2.
17) Ib., p.2.
18) Cfr. Intervento di G. Lago tenuto a Belluno l'8 ottobre 1993, in "Protagonisti" n.53, ottobre-dicembre 1993, pp. 55-56.
19) Nel 1960 la giornalista Tina Merlin ed il direttore de "L'Unità" furono denunciati e processati per aver diffuso notizie false e tendenziose sulla pericolosità della diga. Il Tribunale di Milano si pronunciò per l'assoluzione affermando che "il bacino artificiale costruito dalla Sade costituiva ed era considerato dagli abitanti del luogo un serio pericolo, appunto perchè si temeva che le acque, erodendo il terreno franoso, determinassero lo sprofondamento delle acque". Cfr. PCI (a cura di), Il Libro bianco, Roma, 1963, p. 43. Il libro bianco, redatto dal PCI e consegnato a Segni il 13/10/63, oltre a contenere le fasi di questo processo, raccolse numerosi documenti e testimonianze sulla diga, sulle proteste fatte dalla popolazione, dai Consigli Comunali delle zone limitrofe alla diga e dal Comitato Provinciale d'azione per il Progresso della Montagna.
20) Cfr. "L'Unità", 11/10/63, p.1. Vedi anche "L'Avanti!" dell'11/10/63, p.1.
Significativo fu anche l'articolo di Aldo Lualdi comparso su "L'Avanti!" il 20/10/63 a p.6, intitolato Due giovani si sono sposati fra un mare di rovine. Il giornalista scrisse: ""E vissero felici e contenti": così finiscono le favole che anche i bambini di Longarone, di Pirago e delle altre frazioni distrutte avranno sentito innumerevoli volte [...]. Che cosa vogliamo raccontare loro, adesso? Che c'era una diga sicura e una montagna cattiva, che il destino, all'improvviso, ha fatto franare la montagna e l'acqua ha ucciso tanta gente? No: i bambini diventano grandi, non ci credono più sin da adesso a questo tipo di fatalità. [...] E poi ci sono "loro", no? quelli che sanno tutto, gli studiosi, i tecnici e quelli responsabili dell'incolumità della gente. Se c'è pericolo, diranno qualcosa. O la patria, come disse Vanoni, si ricorda di noi solo quando arriva la cartolina rosa del servizio militare? [...] Esce l'ondata assassina. [...]L'acqua cancella Longarone. Cosa fare? Si alzano le braccia: perbacco! [...] E' proprio un destino crudele. [...] Sembra grottesca la risposta della SADE all'ultimo drammatico allarme [di pericolo]: "Dormite con un occhio solo". Nessun riferimento al sonno eterno. [...] Entra in funzione l'Italia dei poeti e dei sottosegretari e, fra la commozione generale, si distribuiscono soccorsi ai sopravvissuti. E' un po' tardi, adesso, e c'era tutto il tempo di pensarci prima. [...] La vita riprende e la favola non bella del Vajont si conclude come nelle favole della nonna, con un matrimonio; ma vicino è un mare di rovine e di morte. "...e sopravvissero felici e contenti"". Vedi, inoltre, "Paese Sera" del 20/10/63, p.7, in cui Bruce Renton, corrispondente del "New Statesman" di Londra, pubblicò l'articolo Il giorno più lungo di Longarone. Il pezzo cominciava con una frase di Shakespeare: "La colpa non è nelle stelle, ma in noi stessi..." e proseguiva con la descrizione del paesaggio devastato, affermando: ""L'Italia frana!...": ecco il grido fatalistico che si sente dopo ogni disastro. I geologi alzano le spalle, i tecnici promettono sicurezza per l'avvenire. E ognuno aspetta il prossimo disastro. C'è una specie di circolo vizioso della catastrofe in Italia!". Il 19/10/63 su "Paese Sera" Enrico Ardù sottolineò che "se c'è tragedia che dimostra il distacco totale, assoluto, irreparabile, tra le popolazioni e le autorità costituite, è questa del Vajont. [...] Ma lo Stato italiano non può essere rappresentato soltanto da quei ragazzi di vent'anni in penna nera che dopo aver disseppellito i morti stanno adesso vegliando i vivi".
21) Cfr. "L'Unità", 11/10/63, p.2. Vedi anche "L'Unità", del 25/10/63, p.3, in cui Mario Passi scrisse che "il grande dramma nazionale si va diluendo nelle pratiche della burocrazia, nell'eterno conflitto delle competenze, nell'elemosina spicciola della POA. Era il momento in cui l'Italia del miracolo economico doveva dare prova di se stessa. Stringere con una mano il collo dei responsabili e con l'altra mano correre qui, per restituire la fiducia, una prospettiva a costoro che tutto hanno perduto".
22) Ibidem 12/10/63, p.1.
23) Ib., 13/10/63, p.1. A tale proposito anche l'editoriale del 20/10/63, Via i farisei dal tempio, del direttore del quotidiano, Mario Alicata, in cui accusò i gruppi dominanti conservatori, in particolare la DC, di fariseismo, di essere cioè "falsi zelatori della verità, del bene e del giusto".
24) Ibidem", 24/10/63, p.5, in cui il giornalista Passi affermò: "C'è da far conoscere ora il dramma dei vivi: [...] di queste donne di Erto e di Casso che il lutto vestono fin da ragazze con i fazzoletti neri annodati sul capo, le vesti lunghe fino ai piedi; di questi uomini che si aggirano con aria smarrita, umiliata [...] e chiedono soltanto di riprendere a lavorare; di tutta questa gente che vorrebbe ricominciare a vivere". E continuò: "L'assistenza della CGIL non è carità pelosa, umiliante elemosina. Se la fanno gli ertani tra loro. L'assistenza va bene, ma non può bastare". Cfr. anche "L'Ora" del 19/10/63, p.3, in cui Ardù affermò: "La retorica continua a imperversare: la vita riprende. E' lo slogan di oggi. Qui la vita non riprende: continua la morte. Giungono richieste di adottare bambini. Il vice-sindaco Arduini risponde secco con un comunicato: " La tragedia che ha colpito Longarone ha distrutto il 90% delle famiglie del capoluogo, famiglie intere. Delle famiglie colpite non vi sono superstiti e quindi non vi sono bambini da adottare". Queste è la terribile realtà, non si possono adottare dei morti".
25) Cfr. "L'Unità", 1/11/63, p.2.
26) Lo stesso giorno, a p.5 Passi affermò che "[...] Il paesaggio è davvero lunare, così arido, deserto. C'è stanchezza ed esasperazione fra questa gente. [...] Essi sentono soprattutto che la tragedia non è servita a mutare [...] il rapporto fra stato e cittadini: che lo stato rimane un'entità lontana, estranea, spesso ostile, presso la quale possono più un pugno di potenti, la Sade, che non un'intera comunità colpita fin nelle sue fibre più profonde. [...] Una barriera tricolore sventola dal campanile. Altri segni di vita non ci sono. Tutto è morto, il silenzio fa stringere il cuore". 27) Ibidem, 9/10/65, p.2. Per capire quanto detto valga questo episodio: numerosi scienziati ed esimi titolari di cattedre universitarie di geologia e idraulica declinarono l'invito ad assumere l'incarico di periti di parte civile contro gli imputati del Vajont. A tale proposito un giornalista anonimo il 10/10/65 scrisse su "L'Unità": "Non si sfida la Sade, l'Enel. Occorre [...] un grande coraggio civile. Come quel professore francese che ha detto: " So che vado incontro a un suicidio professionale". Pochi in Italia e in Europa sembrano possedere questo coraggio. Studiosi stranieri che avevano accettato l'incarico si sono fatti prendere da strani ripensamenti, scienziati che avevano manifestato in vari modi il loro giudizio di condanna sul Vajont non osano esporre tale loro giudizio al tribunale, in contraddittorio con lo schieramento mobilitato dall'Enel a protezione degli imputati. Non a caso le società ex elettriche italiane, grazie ai capitali disponibili per gli indennizzi derivanti dalla nazionalizzazione, sono considerate oggi, su scala mondiale, fra le più importanti imprese progettatrici e realizzatrici di nuovi impianti all'estero".
Guido Nozzoli, il Giorno ed il Vajont
Un caso particolare: una pagina de “Il Giorno”.

“Il Giorno” di venerdì 11 ottobre 1963 presenta una pagina emblematica. Non si vuole – e sarebbe deviante – tentare di ricostruire la linea ideologica adottata dal quotidiano attraverso l’analisi e la visione di una pagina soltanto, tuttavia quest’ultima presenta degli aspetti interessanti di linguaggio giornalistico. Innanzitutto sono presenti tutti i temi che poi saranno ampliati nel resto del giornale: dall’angosciante remissività di Giorgio Bocca alla ricostruzione storica di Guido Nozzoli, dalle dichiarazioni ufficiali dell’ENEL all’annuncio che “l’Unità” aveva denunciato la precarietà della situazione tempo prima che la tragedia si verificasse.
“Nel 1963 «Il Giorno» è appena al suo ottavo anno di vita[…]. Vuol essere l’anti-«Corriere», l’espressione dei nuovi gruppi dirigenti e dei ceti in ascesa, e in quegli anni vi riesce. Non gli si rende un servizio e non si intende la sua funzione, se lo si pensa, allora, come è divenuto poi: un giornale come altri, che sopravvive alla sua stagione migliore”37. “Il Giorno” ha un linguaggio giornalistico fortemente innovativo, il venerdì 11 è uscito con quattro sovraccoperte ricoperte quasi esclusivamente di fotografie. Anche dai titoli si ricava l’impressione di un lessico acceso, forte, toccante.
La pagina 3 si apre con un titolo piuttosto sobrio, “Il primo giorno dopo il diluvio”, preceduto dal sommario stranamente ridondante “Come si presenta il bacino di Vaiont dopo l’immensa frana del monte Toc”. Sulla sinistra dal titolo “Diga perfetta / ma roccia / pericolosa” vi è un articolo dell’inviato Guido Nozzoli che, in due colonne, prima descrive il panorama “da primo giorno dopo il diluvio”, poi ripercorre la recente storia del Vajont ponendo in risalto le voci che avevano contestato la presunta sicurezza della diga. Si domanda se sia “una congiura di fatalità” ad aver portato la morte nel Vajont, e risponde: “Non si sa nulla. Nessuno sa nulla”.
Sulla destra troviamo un articolo, che farà molto discutere, dell’allora giovane inviato Giorgio Bocca, che titola “Non c’è più nulla / da fare o da dire / tra fango e silenzio”. Il pezzo si apre così: “ECCO LA VALLE della sciagura nel crepuscolo del mattino: fango, silenzio, solitudine. E capire subito che tutto ciò è definitivo: più niente da fare e da dire. Cinque paesi, migliaia di persone: ieri c’erano, oggi sono terra, e nessuno ne ha colpa, nessuno poteva prevedere, nessuno può riparare.
In tempi atomici, si potrebbe dire che questa è una sciagura «pulita», gli uomini non ci hanno messo le mani, tutto è stato fatto dalla natura, che non è buona e non è cattiva, ma indifferente.
Ci vogliono queste sciagure per capirlo: terribile forza della natura che si catena a caso. Non uno di noi moscerini vivo, se davvero la natura volesse muoverci guerra.”
Bocca è pervaso da una sorda rassegnazione che trasforma in uno scritto altamente suggestivo e dal linguaggio accattivante, che si snoda tra il “guardare le carogne gonfie” e “contare i cadaveri allineati nei prati” cingendo citazioni colte quali lo shakespeariano “vermi che strisciano fra la terra e il cielo” e i “granelli di sabbia della Bibbia”, per concludere: “noi di fronte al vuoto e all’assurdo”.
Quello che è particolarmente interessante è il piccolo articolo a centro pagina che titola: “Catastrofe / del tutto / imprevedibile / - dichiara / l’ENEL” e che ha probabilmente il ruolo di decodificatore all’interno della pagina, invitando quindi il lettore a leggere le altre notizie da un ottica ben precisa.
L’articolo molto breve si apre in modo anomalo con le dichiarazioni dell’ENEL che però non sono virgolettate e, a prima vista, sembrano l’opinione del quotidiano:
“La sciagura del Vaiont non era prevedibile. La diga era solidissima e le acque contenute in margini di assoluta sicurezza. Così afferma in polemica con alcuni giornali un comunicato diffuso dall’ufficio stampa dell’Enel. Esso dice testualmente: «Le notizie pubblicate da qualche organo di stampa in ordine alla prevedibilità dell’evento catastrofico verificatosi nel lago del Vaiont non hanno fondamento […]»” E’ evidente come l’impatto nel lettore sia molto forte e non si comprende come le prime righe non siano virgolettate anch’esse. La delicatezza dell’argomento invita alla prudenza.
Ancora più significativo è, in basso a sinistra, il minuscolo articolo “I montanari / della valle / «sentivano» / il pericolo”. Dal titolo pare che si raccontino le avvisaglie che la montagna aveva dato agli abitanti attraverso le frane, il piegamento degli alberi, le fessurazioni. Queste sono le prime righe: “Il pericolo incombente sulla valle del Vaiont fu denunciato da «l’Unità» quando la diga era in stato di avanzata costruzione. Il 5 maggio del 1959, «l’Unità», in una corrispondenza da Belluno, riferì che i montanari della valle si erano costituiti in consorzio per tentare di impedire la costruzione del bacino. Si diceva, infatti, che la massa d’acqua…”

Da « Teorie e Tecniche del Linguaggio Giornalistico del Prof. Fiengo»
http://www.lettere.unipd.it/ebla/archivio/casagrande.pdf
Corriere della Sera, 06/02/1997
Enzo Biagi.
Strettamente personale. La storia del Giorno e l' onesta' dei fatti.

"Il Giorno" e' stato venduto. Meno di centomila lettori, miliardi di deficit. Ha rappresentato una svolta nel mio mestiere e nell'editoria: vivo, moderno, impegnato nelle sue battaglie, anche di "lobby". C'erano, con Baldacci, Bocca, Fusco, Forcella, Nozza, Natalia Aspesi, Pietrino Bianchi (cinema), Roberto De Monticelli (teatro) e Giulio Confalonieri (musica). E tra gli inviati Guido Nozzoli, l'unico dei nostri che capi' come andavano a finire le storie del Vietnam.
La mia categoria ha ormai piu' di mille disoccupati e sono sempre imbarazzato quando qualche ragazzo mi chiede consiglio perche' vorrebbe entrare in una redazione. Prova, gli dico, se non puoi proprio farne a meno. Il vecchio Luigi Barzini diceva di questo mestiere: "E' sempre meglio che lavorare". E con i colleghi che si lamentavano per la fatica aggiungeva: "I minatori del Galles se la passano peggio". Ma i tempi sono cambiati. Nei giovani che si avviano alla professione la spinta e' quasi sempre romantica: l'inviato speciale che fa grandi viaggi, verso grandi imprese, soggiornando in grandi alberghi e con memorabili incontri.
Non e' proprio cosi': c'e' chi non s'e' mai alzato dal tavolo e chi non ha mai lasciato la tipografia, e qualcuno ha percorso per tutta la sua vita un modesto itinerario: questura, tribunale, ospedale, carabinieri. Ma anche quando le prospettive sono mediocri e' una fortuna raccontare ogni giorno i fatti del mondo, una bellissima occasione per vivere piu' a lungo e - lo posso dire? - appassionatamente.
Non ho ricette da suggerire, ma penso che due cose aiutino il buon cronista: la buona salute e la curiosita'. Uno scrittore russo ha detto che "il fatto e' la cosa piu' ostinata che esista sulla Terra", dovrebbe essere rispettato. Il commento e' libero, disse una settantina d'anni fa il direttore del Manchester Guardian, ma cio' che e' accaduto andrebbe spiegato sanza faziosita'. E se non esiste il distacco totale, l'obiettivita', c'e' pero' la correttezza. Mi pare che il problema morale, cosi' importante in questo momento di crisi, coi politici che fanno le bucce alla stampa ed alla Tv, lo abbia interpretato lucidamente Abe Rosenthal, un vecchio direttore del New York Times: "Il nostro ruolo e' far si' che gli altri non abusino di questo potere".
Leggo in una brillante corrispondenza dall'America di Vittorio Zucconi, che ormai e' bravo come suo padre, il mio caro amico Guglielmo, che James Reston, il celebre columnist, dava ai praticanti due semplici consigli: ricordate che anche un presidente degli Usa soffre probabilmente di emorroidi (e c'e' gente che ha l'abitudine di distribuire baci indiscriminati) e che i politici lavorano per voi, e non voi per loro. Un inviato francese completava il discorso: "Un bravo reporter deve conoscere solo una linea: quella ferroviaria". Vai e racconta.
James Reston se n'e' andato da poco: era nato nel 1909, in Scozia, e per tre decenni aveva narrato, due o tre volte la settimana, quello che accade nel mondo. I suoi giudizi contavano per l'opinione pubblica. Reston sosteneva che ci sono giornalisti che hanno il loro dittatore preferito: gli fanno da eco o da spalla, e lo prendono sul serio anche quando non ha niente da dire. Ad esempio, certe comparsate televisive annoiano lo spettatore e non servono, credo, neppure al protagonista.
I teatrini, i dibattiti con gli ospiti di comodo, non fanno ne' ascolto ne' reputazione. D'Alema fa bene a dire che lui non ci sta, ma c'e' di sicuro tanta gente che invece si offre. Roosevelt, negli anni della Grande Depressione, faceva alla radio "i discorsi del caminetto": erano appuntamenti fissi, ma per render conto di una difficile navigazione. Serviva la sua causa, e la radio quella degli ascoltatori. E' un principio che dovrebbe funzionare anche con la Tv. Perfino con la nostra.
Enzo Biagi
Fusco e Nozzoli.
Da "E la mafia gli spedì piccole bare"

di Giulio Signori [Giorno Padano, 28.01.2003]

MILANO. Era ossessionato dalla solitudine, dall'idea di restare solo con se stesso senza saper cosa dirsi, o forse sapendolo fin troppo bene. Un male antico dal quale ci si illude di guarire stendendosi sul divano dello psicanalista oppure creando attorno a sé una piccola platea di ascoltatori. Era accaduto perfino a Socrate, forse incapace, come Giancarlo Fusco, di dare forma grafica alla parola, e se non fosse stato per un attento ascoltatore come Platone, sapremmo ben poco di quel grande filosofo.
Parlatore fluviale e fascinoso, Giancarlo dava il meglio in quella trentina di righe che scriveva quotidianamente su Il Giorno, quando non aveva bisogno di confessarsi in pubblico, come pare accada in quelle comunità di alcolisti che, sotto la protezione dell'anonimato, tentano di colpevolizzare se stessi, e gli altri come loro, e magari finisce che si rimettono a bere per dimenticare quell'imbarazzante rimorso. Che non ha mai sfiorato Giancarlo Fusco.
Il caro Guido Nozzoli, colto da improvviso spirito di affettuosa fratellanza, si era proposto una missione impossibile, nella quale aveva tentato di coinvolgere me e qualche altro, reclutato in redazione tra i fans di Giancarlo: l'idea era di indurlo a seguirci con il pretesto di qualche avventuroso raid e, invece, consegnarlo a una clinica specializzata in disintossicazioni. Poiché Giancarlo non avrebbe mai consentito a un'operazione del genere, il progetto aveva tutta l'aria di un rapimento; e non era il fatto che avrei dovuto fare da autista, a indurmi a dissentire, ma una considerazione che Nozzoli aveva finito per condividere: togliere la grappa, o qualsiasi altro prodotto alcolico, dalla dieta di Fusco sarebbe stato non meno criminale che togliere il latte materno a un neonato.
E poi, quale Fusco ci sarebbe stato restituito? Un Fusco ragionevole, autore di operine edificanti? No, meglio il «nostro» Fusco litigioso, attaccabrighe, capace di infilare la dentiera nella birra di un rivale geloso di un'antica soubrette delle Folies Bergères, o di impugnare la pistola di Charles Fiori, il suo alter ego in «Duri a Marsiglia», per far uscire gli orchestrali di Anthony sui prati di Lambrate prima che si scoprisse che la Mauser era di plastica.
Il Fusco che aveva irriso al raffinato giornalista che, nella sala stampa del Giro, vergava il suo elzeviro intingendo nel calamaio la penna d'oca: «Guarda questo str..., che si chiama Mosca e muore dalla voglia di chiamarsi New York!». Il Fusco che alla giornalista che si lamentava del suo mestieraccio concludendo che sarebbe stato meglio andare a battere in viale Majno (dove a quei tempi i milanesi andavano a caccia di donne perdute, le più facili da trovare), dopo averla esaminata con attenzione critica, aveva emesso una sentenza senza attenuanti: «Guadagnerebbe molto meno».
Ma sia ben chiaro che, a chi ha avuto la fortuna di lavorare nei suoi dintorni, ripugna questo abuso che si fa di Giancarlo Fusco riducendolo a personaggio folcloristico che diverte molto chi non lo aveva conosciuto. Poco importava che, insieme con un inviato della Rai Tv, avesse dissipato l'anticipo ricevuto per un'inchiesta sulla mafia alla prima tappa verso la Sicilia; l'importante è che avesse colto nel segno, come testimoniavano quei pacchetti che gli arrivavano dall'isola, graziosi soprammobili a forma di bara miniaturizzata.
Era cronista scrupoloso, non ha mai avuto bisogno di inventarsi uno scoop fasullo per arrivare in prima pagina, per la sua estrema sensibilità nel cogliere il lato grottesco e anche drammatico di ogni situazione. Come si capisce da quei raccontini riscoperti e pubblicati da Sellerio: «L'Italia al dente» conferma che, di fronte alla pagina bianca, il sangue di drago che circolava nelle vene di Giancarlo Fusco si stemperava in uno sciroppo troppo annacquato.
Ma chi ha avuto la fortuna di aver vissuto, anche per poco, vicino a lui, riesce a riascoltare la sua voce mentre racconta, con ben altro veleno, gli incontri con D'Annunzio, con il Negus, con quanti erano capitati nella sua orbita di magico affabulatore.
Nel mosaico della memoria
Accreman, storia d’una educazione civile

Ottant’anni compiuti il 23 novembre scorso, Veniero Accreman ha presentato di recente un suo libro di memorie, nascoste sotto un titolo colto, «Le pietre di Rimini» (ed. Capitani, pp. 279, 10 euro) che non lascia indovinare nulla dell’interessante contenuto. Il mistero del titolo è chiarito verso la fine, nel ritorno in città dopo la conclusione del conflitto: «Le pietre di Rimini dicono: distrutte le case, cacciati gli abitanti, cessate le attività; non c’è più speranza. […] Rimanevano solo le sue pietre silenziose e ricordavano la vita del passato e la rovina di oggi».
Nella pagina che introduce il suo lavoro «a mo’ di prefazione», egli avverte subito che si tratta del «racconto di un’adolescenza» al tempo del fascismo e della Resistenza. E l’inizio delle sue storie avviene con un simbolico richiamo alla guerra: «Il fronte si era avvicinato insensibilmente; ma adesso era lì, dopo quelle colline verso sud, e le altre – appena un po’ più lontane – verso occidente».
Accreman è un noto avvocato penalista cittadino che ha esercitato anche la militanza e la professione politica per il partito di Togliatti, diventando sindaco di Rimini e deputato al Parlamento per due legislature. La sua fede comunista nasce spontaneamente quale avversione al fascismo imperante: «Cominciavamo a percepire il regime come una grave limitazione delle possibilità che la vita mostrava».

Indole ribelle
del liceale colto

Il mondo appariva diverso da come lo presentavano capi e capetti. Indole ribelle, egli finisce in carcere per tre giorni a causa di una bega burocratica legata all’attività commerciale della madre che vendeva lane sul corso d’Augusto. Recatosi all’ufficio dei Vigili Urbani per chiarire i termini di un adempimento amministrativo, ebbe alla fine della risposta del suo interlocutore un commento in termini spregiativi nei confronti dei commercianti: «Vidi mia madre e la sua fatica, poi non vidi più nulla: mi avventai, lo presi per il collo e lo scossi intimandogli di tacere». Ammanettato, il giovane Veniero è trasferito alla Rocca malatestiana, sede delle carceri: durante l’ora d’aria si mette «in compagnia di due studenti, arrestati per aver portato a scuola manifestini contro il regime», e sùbito fraternizza con loro. Liberato il sabato santo, Accreman non fu mai processato, in quanto salvato l’anno dopo dall’amnistia.
Al Liceo avverte tra le parole del professore di Lettere qualcosa che non quadra con le verità ufficiali del regime, «delle divise, delle fanfare, delle parate». Il resto lo fanno gli amici. Quattro ne elenca: Guido [Guido Nozzoli], «aitante, elegante; dalla parola rapida, inarrestabile; ricco di humour e di metafore ardite, insaziabile nelle letture. Scambiava il giorno per la notte; compariva di pomeriggio ed era il racconto ininterrotto delle sue esperienze letterarie del giorno prima». Parlava ed «incantava». Sarcastico verso ogni autorità, lo definisce in altro luogo del libro, dove completa il ritratto intellettuale dell’amico.

Guai per un
cuscino di fiori

Ci sono poi Gino («continuamente teso – nel ragionamento – verso uno scopo, tenace nel perseguirlo fino a che la discussione non riposasse su certezze indiscutibili»). e Giorgio che, meno interessato alla politica e portato alla Medicina, «difendeva a ogni momento il valore della scienza come la più grande conquista umana».
Infine, Walter: suo padre aveva negozio di fronte a quello della madre di Accreman. Era andato via da Cesena per ragioni politiche. Quando il padre di Walter morì, la famiglia Accreman inviò «nella camera ardente un cuscino anonimo di garofani rossi; a una certa ora fummo avvertiti che i fascisti avevano individuato i committenti e li stavano cercando; mio padre e i miei zii si rifugiarono in un anfratto lungo il fiume Marecchia, e io andai con loro; tornammo a casa di notte, quando sembrava che tutto si fosse acquietato; in famiglia c’era preoccupazione, io vivevo con malessere questa vicenda».
Se con l’occupazione dell’Etiopia (ottobre 1935 - maggio 1936) nella popolazione in generale «il consenso cominciò a diminuire», spiega Accreman, con la guerra di Spagna (1936-1939) i giovani come lui cominciarono a prendere «una coscienza politica».

Le stupidaggini
razziste

Sui muri di Rimini appaiono scritte contro Franco. La questura arresta alcuni degli antifascisti «schedati», fra cui il pittore anarchico Giorgio Amati, «uomo che non avrebbe mai fatto male a una mosca», e sofferente di cuore. Una volta liberato Amati, Accreman si reca a salutarlo nella sua bottega di corso Umberto: «Era seduto davanti al cavalletto; lasciò la tavolozza e i pennelli, lo colse un singulto di pianto; poi si asciugò le lacrime e mi scongiurò, per il mio bene, di andarmene; disse che la bottega era sorvegliata, e forse sarebbero venuti a casa mia a chiedere spiegazioni per quella visita».
Intanto nel 1938 è cominciata la campagna antisemita per la difesa della razza pura. «Ragazzi come noi, amici e compagni di classe, mostravano di condividere le stupidaggini razziste che radio e giornali propinavano ogni giorno». L’odio contro gli ebrei entusiasma alcuni giovani che si dichiarano pronti ad eseguire gli ordini del regime, a fare il loro dovere contro gli impuri. «Comparvero manifesti con diaboliche facce semitiche, che succhiavano sangue». L’allontanamento dei ragazzi ebrei dalle scuole, scrive Accreman, «ci sembrò un provvedimento ignobile». I commercianti sono invitati ad esporre il cartello «Questo negozio è ariano». Sua madre rifiuta.
«L’intelligenza riminese – quella viva – era all’opposizione». Tra gli amici troviamo anche due pittori, Demos («popolano, ombroso») e Sesto («riservato, aristocratico nel portamento»). «Eravamo felici. Commisuravamo la nostra giovanile capacità di giudizio con la becera stupidità di gerarchetti intenti a impartire ridicoli ordini; avevamo il senso del nostro valore intellettuale, anche se al momento impossibilitati a farlo contare».
Quei ragazzi vogliono misurare la loro capacità mentale non soltanto nella polemica quotidiana che affascina ed angoscia, ma pure con qualcosa di più vero e grande: «studiare le idee che avessero attinenza con la storia, con i regimi politici, coi cambiamenti delle nazioni». Questa almeno è la scelta di Accreman. Giovane latinista, egli si definisce, dichiarandosi in particolare ammiratore di Tacito: «Cercavo nel molto buio e nelle poche luci il senso della storia, e alla fine l’insegnamento ne sgorgava». Quello del suo ideale, lo Stato, come organizzazione creata dagli uomini per la salvezza comune. Dopo Tacito, ricorda Machiavelli di cui apprezza la dignità non schiacciata dalla malasorte.

La lettura
dei Vangeli

Intanto Accreman continua a leggere i Vangeli: «Non ero più un credente; avevo iniziato lo studio della scienza e le congetture metafisiche non facevano più per me; continuavo però a ritenere che quello dei Vangeli fosse l’insegnamento morale più alto conseguito dagli uomini». Di quest’insegnamento e dell’effetto che il giovane Accreman ne ricevette come impronta fondamentale per il suo comportamento, abbiamo testimonianza esplicita proprio all’inizio di queste sue memorie (affascinanti anche per lo stile letterario usato), in una pagina sulla guerra, che merita di essere ricordata per intero.
«Fin’allora», scrive Accreman, «avevo solo letto, studiato; adesso la vita mi battezzava a quella maniera: uno scontro a fuoco con un gruppo di soldati tedeschi – i soldati più forti del mondo – per la vita o per la morte». Veniero, Sergio e Libero sono assieme a Tonino e Nicola. Accreman ha una P38. Sergio gli dà ordine di sparare. Non obbedisce. Quei militari nazisti, loro non li uccidono. Li catturano. Commenta Accreman: «Ho cercato di capire meglio quel momento, in cui l’azione, per fortuna, aveva consumato l’esitazione del pensiero».
Alla fine comprende che quell’esitare era stato dettato «dal timore di dover uccidere. L’educazione cristiana aveva segnato con forza la mia mente; non credevo più nella divinità, ma l’insegnamento morale rimaneva immutato. Il rifiuto della violenza, il rispetto per la vita, l’orrore per la sua soppressione erano una parte di me. Perciò ho sempre stimato che il modo e l’esito di quello scontro (il disarmo dei tedeschi senza sangue) sia stata la cosa la cosa migliore che potesse accaderci. E’ la massima di un antico storico che mi viene in mente: ‘La guerra è un maestro violento’. Sono stato felice di non aver imparato troppo».
Una pagina di Guido Nozzoli nel Museo virtuale del turismo
«Balnea-museum online» di Rimini

Anima e corpo al servizio del turismo,
da Guido Nozzoli, L’avventurosa estate dei birri, in Federico Fellini, La mia Rimini, Bologna 1967
L'ESTATE DEI BIRRI
In una città che non offriva poi tanti diversivi e dove la vita dei giovani era tutta da inventare, l'estate era la stagione delle esperienze nuove e dei tanti incontri, delle inconsapevoli reazioni all'angustia della provincia, del cimento fisico, della sfida, una festa dell'amore e della violenza. In questa specie di esaltazione trovava il suo clima e la sua dimensione il "birro", (così detto da "bérr", che in dialetto significa letteralmente tacchino) e che per i riminesi è il giovane intraprendente, spavaldo, apparentemente cinico, un po' esibizionista e aggressivo, che va a caccia di forestiere con un accanimento da collezionista e, a tempo perso, tra una "imbarcata" e l'altra, combina scherzi quasi sempre eccessivi e molesti, organizza cene da olio santo, qualche volta si azzuffa e rompe l'anima alla gente con il "lampézz", capace di strappare una bestemmia a una dama di San Vincenzo. Il "birro", sia che operi isolato, a piccoli gruppi o a bande, si distingue, a seconda della specializzazione, in "birro da spiaggia" e in "birro da hallo". Il "birro da spiaggia", per entrare di diritto nella categoria, deve avere un corpo atletico abbronzato fin sotto la pianta dei piedi, nuotare con bello stile e fare almeno il tuffo di partenza con disinvoltura, saper giocare "alle assette", compiere eleganti esercizi ginnici sulla riva, portare al largo il moscone a remi senza stancarsi (soprattutto al ritorno), pilotare una barchetta, sopportare una doccia gelata senza aver l'aria di restare assiderato e, qualità non trascurabile, riuscire simpatico ai bambini per non averli ostili nella ronda di avvicinamento alla madre. Ovviamente, deve poter disporre di tanto tempo libero. Per essere già a punto all'arrivo delle prime forestiere, il "birro da spiaggia" – studente, fannullone, disoccupato – approfitta di ogni raggio di sole primaverile, comincia a fare bagni quando l'acqua ha temperature da infarto e, dovendo riparare i guasti degli ozi e delle intrippate invernali, compie segretamente, tra aprile e maggio, faticosi esercizi di ginnastica da camera accompagnati da penosissime diete. Verso i primi di luglio, come stormi di uccelli migratori ormai pronti al volo, i "birri" lasciavano gli scogli del porto e andavano a farsi il nido sulla spiaggia, ognuno nella zona dove "batteva" abitualmente. Al porto (sul porto dicevamo) ci si ritornava ogni sera per gli allenamenti di nuoto e di palla-nuoto che duravano fino al tramonto, quando l'acqua in bonaccia, scaldata da una giornata di sole, mandava un tiepido, femmineo odore di alghe. Il vero "birro" non era malato di snobismo: per lui la donna, a parte 1'origine e la condizione economica era solo una donna, da giudicare per quel che valeva e per quel che sapeva dare. Ognuna veniva poi classificata abbastanza minuziosamente, con definizioni che formavano un vero gergo impastato di parole dialettali italianizzate, di espressioni della marineria, di contaminazioni triviali, ma, in fondo, innocenti come tutto il dialetto romagnolo. Giudicandola dall'età, dall'aspetto, la donna poteva essere: un "tubo" (brutta) o un "vallo" (brutta e sfasciata), un "ludero" (volgare, equivoca e neppure bella), un "osso" (magra), una "spippola" (piccola e vivace), una "creatura" (molto giovane), una "baldona" (prosperosa e di gamba solida), una "carampanaza" (la tardona poco lontana dai cinquanta), un'"orfanella" (modesta, smarrita, sgraziatella), una"zinganazacia" (campagnola o paesana), una "di prima" (bella), una "patacca mondiale" (bellissima). Secondo il carattere la "gnorgna" era la lamentosa che ha sempre le scarpe strette o il mal di testa e per giunta fa la gelosa; la "smanata", quella sciatta nel vestire e disordinata; il "fanello", la furba che sa quel che vuole, la "sbruvaldona", il tipo a cui piace correre di qua e di li, ridere, far chiasso piuttosto che appartarsi, la "gnichela" o 'piangerai" una romantica sospirosa, facile alla commozione, sempre piena di patemi d'animo, la "procaga", una formalista sofisticata e saccente che assume pose da gran dama, la "sureina" (suorina), 1'ipocrita finta moralista, "una da battuta", quella senza smorfie e senza complicazioni. Temutissima, quella che "tira il blocco", la zitelletta in cerca di marito che, dopo un paio di incontri frettolosi, trascina i conoscenti a prendere il caffè dalla zia. Tre categorie di donne che hanno sempre  atterrito il "birro": 1o "scacchero" cioè la professionista anche se in veste di villeggiante, quella "di braccio corto" che costringeva "a battere le ginocchia sul bancone" cioè a pagare le spese intere della serata, Li "freida", (la fradicia), malata di un qualsiasi ma1e, dalla tonsillite al "tincone". Incontrando un "birro" accanto a una "f'reida", per metterlo in guardia bastava dirgli: “Ti cerca Catrani”. Non occorreva altro: il dottor Catrani era il medico riminese più noto di malattie veneree e della pelle. Il vero guaio per i giovani "birri", en quello di ritrovarsi davanti la "nave scuola” dieci anni dopo, sfatta con le vene varicose, se non addirittura con il piedone ingessato per la gotta. "Di' la verità, son diventata vecchia stronca". No, stai benissimo. In quel caso il "birro" nella menzogna attingeva il sublime, riscattando con una eroica cortesia tutta la sua gaglioffaggine.

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