I giorni dell'ira.
Settembre 1943 - settembre 1944 a Rimini e a San Marino

Capitolo XII. Il crepuscolo degli eroi.

Riministoria
il Rimino

Dopo l’esecuzione capitale dei Tre Martiri, la Polizia di Rimini ha inviato un rapporto al federale fascista di Forlì: "La cattura, nella caserma di via Ducale, di tre ribelli è stata opera personale della intelligente ricerca del Segretario Politico della città di Rimini, coadiuvato da elementi della Feld-Gendarmeria tedesca". Quel segretario politico è Paolo Tacchi.

La vicenda umana e politica di Tacchi ha i caratteri di altre storie nate sotto il fascismo e poi sfociate nello scontro della guerra civile. La sua figura è emblematica della situazione italiana tra ’43 e ’44. Ricostruirla, significa anche descrivere un tratto di vita nazionale con le contraddizioni, le esaltazioni e le miserie morali di ogni guerra. Nato a Scheggia nel 1905, alto 1.64, occhi castani, colorito roseo, capelli lisci, a vent’anni è descritto come un giovane "allegro", in mezzo ai balli di carnevale. Nel ’35 diventa dirigente dei fasci giovanili (nelle parate sfila in testa alla premarinara), ed è fra i trentotto riminesi che ottengono il brevetto della Marcia su Roma: molti di loro non si erano mossi dalla città il 28 ottobre ’22.

Nel ’38 il suo comportamento troppo impulsivo è censurato dal Fascio. Nel ’41 organizza la giornata di propaganda marinara; scrive un articolo sul Corriere Padano in ricordo di un caduto, e porta i suoi premarinari in gita a Venezia. Poi c’è il richiamo alle armi come maresciallo di Marina al deposito di Pola, quindi a Piombino, Roma e Trapani.

La notte del 25 luglio torna a Rimini in licenza di convalescenza. Gioca a fare il duro. Dalla stazione ferroviaria Tacchi va verso casa in via dei Mille; al Caffè Marittimo qualcuno gli grida: "È finita anche per te"; ne nasce una zuffa sedata per l’intervento di altre persone. Nominato segretario repubblichino di Rimini, detta legge in città e nel circondario. Non soltanto: come si è visto, estende la sua influenza a San Marino. Impone il nome di Ughi quale Commissario al Comune. Spaventa la gente con minacce, prepotenze, soprusi di ogni tipo. È "il fascista di punta", come lo definisce Oreste Cavallari.

Cavallari ha consultato documenti ed interrogato nemici ed amici di Tacchi, ricavandone un ritratto a due luci, senza alcuna sfumatura. "Un generoso, un uomo pieno di fede, un uomo che si esaltava nell’azione", per il suo patron Buratti. "Servì mirabilmente la causa della fraternità, della pace e della fede", attestò nel ’72 mons. Giuseppe Zaffonato, allora vescovo di Udine, che forse aveva conosciuto Tacchi nella sede precedente, a Vittorio Veneto dove restò dal ’44 al ’56 e dove lo ricordano come un patriota sostenuto dalla destra missina.

"Ligio al dovere e operoso", secondo il cap. Umberto Zamagni di Venezia. "Un sadico, un delinquente", "Mezzo normale e mezzo fanatico, quando era in divisa voleva fare il ‘duro’, peccato che fosse quasi sempre in divisa", dicono due riminesi. "Girava armato fino ai denti su un’auto con mitraglia sempre con la scorta. Voleva combattere, ma a combattere non andava, non andò. Anzi fuggì", puntualizza Cavallari: "un uomo sbagliato al posto sbagliato".

Il generale Carlo Capanna mi ha dichiarato: Tacchi era "un matto, un esaltato e violento. Uno che faceva pressione sui ragazzini". Federigo Bigi ha definito Tacchi "molto più odioso" del Comandante delle SS. Secondo Mario Mosca, il suo vice nel partito, "Tacchi era un impulsivo" che ideava "spericolate e inutili missioni". Un’anziana signora di Rimini mi dice che il nome di Tacchi per la gente significava terrore. Tutti conoscevano bene l’arroganza di ‘Paolino’, la sua aria di spavalderia e di sfida. La violenza esercitata ed esibita costituiva il suo credo.


Quando Tacchi cade in disgrazia dopo la Liberazione, anche i suoi ex camerati lo attaccano. Giuffrida Platania dichiara che ‘Paolino’ "era intrattabile specialmente se in compagnia delle sue belle, la Ines Porcellini e la Maria [Bianca Rosa] Succi, quest’ultima sua segretaria privata e cassiera del Fascio". Altra accusa di Platania: Tacchi aveva portato "il suo quartier generale a San Marino, ove soleva riposarsi dalle fatiche fasciste in compagnia delle sue compagne ed amanti abbandonandosi ad orgie neroniane durante le quali spesso venivano torturati i partigiani caduti nelle imboscate". Il riposo del guerriero.

Riferisce Cavallari che Platania disse pure "di aver sempre detestato il Tacchi per i suoi atti di violenza, per le azioni criminose che questi commetteva soprattutto se ispirato dalle sue amanti". Bianca Rosa Succi ‘canta’ davanti ai partigiani, nel ’45, accusando Tacchi di aver bastonato "spesse volte" alla Colonia Montalti, sede del fascio: "Platania poi, rimproverava Tacchi di essere troppo buono". I riminesi, aggiungeva la Succi, "quando avevano bisogno di fare affari o di ottenere qualcosa strisciavano" Tacchi, "magari inneggiando anche al Fascio Repubblicano".

"Per ordine del Capo della Provincia", leggiamo in una cronaca del ’45, "il Tacchi aveva avuto l’incarico di comandare tutti gli organi di polizia, compresi i carabinieri. La sua guardia del corpo era costituita da militi della Venezia Giulia in un primo tempo, poi da dodici ragazzi di Corpolò. Verbali e interrogatori erano spesso eseguiti da una delle donne che se la intendevano con lui, certa Bianca Rosa Succi". La Succi, in una lettera al presidente del tribunale di Forlì ove era imputato Tacchi, accusava il suo ex amante di aver organizzato i rastrellamenti nel Riminese, di aver catturato prigionieri di guerra alleati, e di aver collaborato con il Comando tedesco per la compilazione di liste di riminesi da deportare in Germania.

"La Ines Porcellini afferma nella sua deposizione scritta che i rapporti fra il federale riminese [Tacchi] e gli ufficiali germanici furono improntati sempre alla massima cordialità, provocando frequenti reciproci inviti a cene e a divertimenti" scrive Città Nuova il 12 maggio ’46.

A proposito della cattura dei Tre Martiri, Mosca difende Tacchi da ogni responsabilità, raccontando che "un maresciallo tedesco si mise alle costole di Tacchi" in via Ducale. Tacchi invece dichiara in tribunale di aver seguito lui, casualmente, la macchina con il maresciallo tedesco che si recava in via Ducale. Al processo di Forlì del ’46, dove è imputato anche per l’uccisione di partigiani e di renitenti alla leva oltre alla "responsabilità presunta" nell’impiccagione dei Tre Martiri, Tacchi viene condannato a morte. Nel ’49 la Cassazione lo assolve per non aver commesso il fatto: l’uccisione dei Tre Martiri avvenne, secondo la sentenza della Suprema Corte, "per circostanze improvvisamente sorte e non prevedute, per iniziativa e ordine dell’autorità militare germanica".


Giuffrida Platania ricostruisce al Giornale di Rimini nel ’45 la spedizione di Cagli, in cui Tacchi rimase ferito. Era stata organizzata, nel marzo ’44 contro la Quinta brigata Garibaldi, con una cinquantina di fascisti provenienti da Santarcangelo, Viserba e Bellaria. "La spedizione di rastrellamento non era ancora giunta sul posto", scrive il giornale, "che fu accolta da un fitto fuoco di fucileria da parte dei gruppi di patrioti nascosti nei paraggi". Tacchi venne ferito in modo "piuttosto grave", come spiegherà lui stesso al Carlino nel ’64, lamentando di esser stato "lasciato quasi solo" dai suoi.

Il 15 maggio dello stesso ’44 un altro attentato contro Tacchi avvenne nei pressi della sede del fascio alla Colonia Montalti, mentre lui stava ritornando in auto da Santarcangelo: "Gli attentatori fuggirono, lasciando sul terreno le armi, con tracce di sangue". Ad agire sono stati due gappisti, Alfredo Cicchetti e Gino Amati. Tacchi dice di esser stato fatto segno a colpi di mitra e di moschetto. I partigiani scrissero nella loro relazione che l’attentato non riuscì "causa inceppamento".

Tacchi elenca in tutto sei attentati alla sua persona. E smentisce quanto scritto nel ’62 da Adamo Zanelli, che cioè il 2 gennaio ’44 i gappisti lo ferirono gravemente. Oltre che alla Colonia Montalti e a Cagli, Tacchi sarebbe stato attaccato (a suo dire) a Spadarolo, alla Grotta Rossa, a Villa Ruffi ed a Serravalle. Quest’ultimo episodio del luglio ’44 è il più misterioso. Esso è stato già ricordato. Tacchi parla di "colpi" contro la sua ‘Topolino’, dalla quale egli era sceso poco prima. In una pagina di Montemaggi, quei colpi diventano "una raffica di mitra e lancio di bombe a mano", con un volume di fuoco imponente che non avrebbe lasciato scampo al conducente della vettura, Francesco Raffaellini. Tacchi, racconta Giordano Bruno Reffi, "sospettava che i colpi che avevano perforato la macchina fossero partiti all’interno della stessa auto", e fece una "scenata" a Raffaellini, uno dei suoi fedelissimi.

L’attentato sarebbe stato compiuto da due gappisti e da Adelmo Ciavatti (Sap), come si legge nelle Relazioni di Celestino Giuliani. In quei giorni Giuliani non è in zona, ma in montagna da dove rientra nell’agosto ’44. Ciavatti fu fucilato dai tedeschi che cercavano un suo fratello, accusato di aver ucciso un soldato nazista. Dei due gappisti, dei quali nessuno ha voluto farmi i nomi, non parlano gli atti storici dei Gap ("Relazione Gabellini"), dove non è neppure citato l’episodio di Serravalle che sembra rappresentare e siglare la storia di un personaggio "ambiguo e contraddittorio" (così lo definisce Bruno Ghigi) come Tacchi.


L’ultimo giorno dell’agosto ’44 Tacchi scappa da Rimini verso il Nord con la carovana repubblichina. "Si è parlato sempre e soltanto del suo successivo ‘soggiorno’ a Como", ci dice un gappista: "Non si è mai ricordata l’attività criminale che Tacchi svolse a Modena con la brigata nera ’mobile’ Pappalardo". Nella Gazzetta dell’Emilia del 15 ottobre ’44 si legge che a dar manforte ai camerati di Modena si erano appena trasferiti molti elementi della brigata nera "Capanni" di Forlì, della quale faceva parte come terzo battaglione la brigata nera di Rimini anch’essa intitolata ad Arturo Capanni, segretario federale del capoluogo ucciso dagli antifascisti il 10 febbraio ’44.

La "Pappalardo" aveva sede a Concordia ed era comandata dal medico bolognese Franz Pagliani, uno degli autori della strage di Ferrara, squadrista fanatico inviso agli stessi tedeschi. Operò tra Modena e Reggio Emilia. Pagliani era noto per il suo oltranzismo. Professore universitario, dirigeva l’Istituto di patologia chirurgica all’ateneo di Bologna. Fu anche federale di Modena ed ispettore regionale per l’Emilia-Romagna di tutte le brigate nere. A Pagliani fece capo la corrente più violenta del fascio modenese. Di lui, si ricorda una frase pronunciata dopo l’adunata del 28 ottobre ’43: "Da oggi cominceranno a funzionare sul serio i picchetti di esecuzione". Nel gennaio ’44 fu giudice al processo di Verona.

Il generale tedesco Frido von Senger und Etterlin, comandante del 14º Corpo d’armata corazzato, definisce Pagliani l’"anima nera" del brigatismo fascista, un intrigante che von Senger stesso fece di tutto per estromettere dall’incarico di ispettore regionale. E ciò avvenne il 28 gennaio ’45, per decisione di Mussolini, dopo l’uccisione di quattro noti professionisti di Bologna. Von Senger in un libro di memorie scrisse parole di fuoco contro le brigate nere emiliane, da lui definite "nostro comune avversario": "Autentico flagello della popolazione, queste erano altrettanto odiate dai cittadini come dalle autorità […] e da me. Le brigate nere erano composte dai seguaci più fanatici del partito", i quali "erano capaci di compiere qualsiasi nefandezza quando si trattava di eliminare un avversario politico". Quei fascisti, prosegue il generale tedesco, si dimostravano solo "fedeli e devoti al Duce", ed erano "incapaci di esprimere un giudizio personale".

Von Senger ricorda anche che a seguito di una serie di azioni terroristiche, violenze, torture ed omicidi compiuti dalle brigate nere emiliane nel tardo autunno ’44, lui stesso, come capo della zona di operazioni, il 21 dicembre convocò a rapporto i maggiori responsabili politici e militari del fascismo. In quell’occasione Von Senger accusò le brigate nere di compiere azioni "che hanno tutte le caratteristiche di assassinii da strada".

Dopo la guerra, Pagliani fu condannato e scontò un lungo periodo di detenzione prima di tornare a fare il chirurgo, non più a Bologna, ma a Perugia.

L’ambiente della brigata nera Pappalardo, nel quale questa testimonianza inedita inserisce la figura di Paolo Tacchi, è uno dei più terribili dell’Italia di Salò. Circa la presenza di Tacchi a Modena non esistono atti ufficiali, come precisa una lettera del 26 novembre 1990 scrittami dall’Anpi di Modena: "Delle nefaste gesta della Pappalardo nel Modenese, possediamo solo documentazioni e nomi di appartenenti alla medesima, ricavati dal processo celebrato contro il ‘comandante’ Franz Pagliani ed altri, ma il Tacchi non figura tra essi. Abbiamo interessato l’Istituto Storico della Resistenza di Modena della questione, ma nulla è stato trovato nei suoi archivi sul Tacchi". Anche Bianca Rosa Succi non porta lumi al riguardo: nell’intervista concessa a Il Garibaldino del 14 settembre ’45, accenna soltanto a "rastrellamenti contro i Partigiani in Val Sesia e in altre località del Nord", compiuti da Tacchi che "divenne comandante del reparto operativo di Como".

"Perché i partigiani modenesi oggi non sanno nulla di Tacchi?", ho chiesto al gappista che mi ha fornito la notizia. La sua risposta: "I partigiani hanno nascosto le notizie perché anche loro avevano le loro pecche da coprire".


Dopo il 25 aprile ’45 Tacchi cerca di cancellare i precedenti a suo carico. Nel Garibaldino del 14 settembre ’45 si legge di un padre Stanislao Sgarbozza "lurido frate, ex cappellano delle Bande Nere", che "divenuto membro del C.L.N [di Appiano Gentile] stava lavorando alacremente per dimostrare alle autorità locali che Tacchi aveva fatto soltanto del bene e che, nemmeno a Rimini, esisteva nulla a suo carico".

Secondo il Giornale di Rimini dell’8 luglio ’45, il vice di Tacchi nel partito e nella brigata "Capanni", Mario Mosca, "rivelò che il Tacchi […] era in possesso di un certificato di partigiano". Aggiungeva il giornale che "forse facendosi forte di questa carta il Tacchi non s’è peritato di scrivere al sindaco di Rimini una lunga lettera nella quale, "dopo lunghe giornate di dolore", intende aprire il suo animo per ottenere "non la pietà ma la giustizia"".

Era particolarmente abile Tacchi, oppure i tempi confusi dell’immediato dopoguerra favorivano il recupero di personaggi che, per quanto compromessi con il passato regime, potevano far sempre comodo in funzione anticomunista, come sembrano dimostrare certe vicende politico-storiche? Il caso Gladio, ad esempio, potrebbe insegnare qualcosa: con quel simbolo, il gladio appunto, che nel settembre ’43 i repubblichini avevano messo sulle loro divise, al posto delle stellette del Regio Esercito.


Il generale Carlo Capanna, medaglia d’argento al valor militare, nel 1989 mi ha raccontato come lui ‘catturò’ Tacchi nella tarda primavera del ’45. Il ras repubblichino dopo l’arresto a Como è stato trasferito a Padova: qui presta servizio militare un ufficiale riminese amico di Capanna, Piero Albani. Capanna fino al 10 maggio ’45 ha fatto parte dell’Oss, Office of Strategic Service, il servizio segreto americano che agiva in appoggio alle forze di liberazione.

Albani viene da Padova a Rimini ad avvisare Capanna di una voce raccolta in ambienti bene informati: "Tacchi sta per essere liberato, la dc cerca di tirarlo fuori". Capanna chiede subito al Commissariato di Pubblica sicurezza di Rimini un mandato di cattura per ‘Paolino’. Ottenutolo, corre a Padova per eseguirlo. Viaggia a bordo di un’auto militare americana ed indossa la sua vecchia divisa dell’Oss, accompagnato dai ricordi politici che lo legano suo malgrado anche a Tacchi.

Carlo Capanna è figlio di un noto antifascista di vecchia data, Giuseppe: "Lo hanno arrestato una prima volta nel ’21. Sotto la dittatura ogni volta che succedeva qualcosa a Mussolini lo portavano in galera con Isaia Pagliarani, Bordoni, Naccari, Faini", tutti oppositori del regime. Nel ’24 uno di quegli arresti avviene in modo diverso dal solito. Dopo che gli hanno messo le manette, suo figlio Carlo si avventa contro il ‘questurino’ che ferisce Giuseppe Capanna per immobilizzarlo.

Nei giorni successivi all’8 settembre Carlo Capanna è tra gli organizzatori della resistenza ai nazifascisti. A Spadarolo fa razzia di armi, che erano state trasferite dalla caserma dell’artiglieria riminese appena dato l’annuncio dell’armistizio. Sale a San Leo con un camion requisito e consegna le armi ai Bucci di Secchiano: passerà a prenderne la metà prima di salire in montagna. A Spadarolo quel giorno Capanna va in bici. Ha con sé una pistola. L’arma gli cade in piazza Mazzini: mentre la recupera, lo osserva un suo ex compagno di scuola, "Semprini, quello che accomodava le biciclette in un bugigattolo". "Ecco come succedono le disgrazie", gli dice Semprini. Capanna prosegue, fa finta di nulla. Qualche giorno dopo la polizia dà la caccia a Capanna padre, per ordine di Tacchi. Parlando in giro Giuseppe Capanna ha criticato duramente il tentativo di pacificazione progettato dai repubblichini.

"I ‘questurini’ prendono un certo Tosi di Corpolò che rassomigliava a mio padre. Ma visto che non era lui, dovettero rilasciarlo". Tosi appena libero avvisa Giuseppe Capanna che stavano per catturarlo. Capanna padre fugge, e si nasconde in un suo podere a Ponte Uso. La polizia a questo punto arresta la moglie di Giuseppe Capanna, signora Marzia, e la porta davanti a Tacchi: "Dov’è vostro marito?".

"Le faccio un regalo se me lo trova", risponde la signora inventando con felice prontezza una storia di tradimenti coniugali e di affari in pericolo: "È scappato con soldi ed amante. Io debbo fare dei pagamenti e non so come comportarmi…". Anche Tacchi inventa. Ma la sua è una balla che non sta in piedi: "Volevamo che vostro marito ci desse qualcosa per gli sfollati". "E che bisogno c’era d’arrestarmi? Per dei soldi? Vi darò mille lire. Ma non le ho dietro. Manderò mio figlio a consegnarvele", risponde la signora.

Due giorni dopo Carlo Capanna porta a Tacchi le mille lire promesse. Sono presenti Platania e Frontali. Tacchi chiede al giovane dove sia suo padre. Carlo ripete la storia della fuga d’amore: "Lei è sadico, sa già come sono andate le cose, ha avuto i soldi ma vuole rinnovare il dolore". Il colloquio ha una svolta inattesa. Tacchi guarda fisso Capanna: "Le è caduta una pistola". Capanna ammette: "È vero, è la mia pistola d’ordinanza". Tacchi ribatte confidenzialmente: "Tu voi andare a fare il militare". "Lei è sergente, io equivalgo a sottotenente. Non accetto il tu. Le do del lei. Faccia altrettanto" risponde severo Capanna. "No, del voi semmai", puntualizza Tacchi.

Capanna da accusato diventa accusatore: "Io ufficiale dovrei stare a disposizione di un sergente di Marina? Poi, so tutti i suoi precedenti". Tacchi cambia espressione nel volto. Capanna alza il tiro: "Lei era impiegato in banca ed ha rubato, e per non finire in galera si è sparato un colpo ‘intelligente’…". (A Rimini si sapeva che Tacchi si era ferito di striscio con un’arma da fuoco.) Tacchi comincia ad urlare come un dannato: "Questo, lo denuncio per diffamazione". Poi lo licenzia ammonendolo: "Si ricordi bene di non incontrarmi sulla mia strada, perché altrimenti saranno guai". Capanna saluta: "Ognuno ha la sua strada davanti, e vedremo chi la spunta".

Le loro strade, due anni dopo quello scontro di fine settembre alla sede del fascio riminese, s’incontrano a Padova. Le parti si sono rovesciate. È Capanna a dare la caccia a Tacchi. Con Capanna ci sono il maresciallo di ps Nicola Galdieri ed il partigiano comunista Nicola Pericoli: "Al carcere di Padova esibiamo il mandato di cattura, e ci consegnano Tacchi. Non gli faccio mettere le manette per sottolineare la differenza di trattamento che noi sapevamo riservare" al nemico, dice Capanna: "Uno schiaffo morale".

Il comandante la piazza di Padova rifiuta il trasporto. Capanna replica infuriato: "Vogliamo che Tacchi sia giudicato", ed esce sbattendo la porta (avrà una punizione di dieci giorni di rigore, poi annullata). "Con un mezzo di piazza, una Balilla, porto Tacchi via da Padova. Sempre senza manette. Per strada, Tacchi comincia a parlare".

Ricostruiamo quel dialogo. Tacchi: "Che cosa dicono di me a Rimini?". Capanna: "Ne dicono tante. La cosa più grave è l’impiccagione di quei tre ragazzi…". Tacchi: "Sarà difficile dimostrarlo…". Capanna: "C’è la denuncia del frate [padre Callisto Ciavatti] che ha assistito al discorso fra lei ed il capitano tedesco che voleva mandarli in Germania. E lei, Tacchi, ha voluto che fossero impiccati. Bisogna dare l’esempio con il suo processo: altrimenti mi rivolgo alle autorità in alto. È una cosa che bisogna finirla". Tacchi "Allora, per me non c’è più niente da fare. Se io scappo, mi sparate?". Capanna: "Certo".

Quando a Pontelagoscuro l’auto è ferma per un rifornimento d’acqua al radiatore, sulla vettura restano soltanto Tacchi e Capanna. Tacchi dice: "Io scappo". Capanna lo prende per il cravattino e gli spiega: "Da un delinquente, io non ne faccio un eroe o un martire. Non scapperai, e non t’ammazzerò". Capanna chiama il maresciallo e gli ordina di ammanettare Tacchi.

Capanna vuole fermarsi a Forlì, non arrivare a Rimini. Ha già un’esperienza, l’arresto a Carpi di Giuffrida Platania, di professione burattinaio, che giunto a Rimini alla caserma dei carabinieri in borgo San Giovanni, fu sottratto a fatica all’assalto della folla. A Forlì al momento dell’ingresso in carcere Tacchi consegna i suoi beni a Capanna e si sfoga contro Ugo Ughi, nominato commissario straordinario al Comune di Rimini il 27 novembre ’43 per sua volontà. Secondo Tacchi, Ughi avrebbe ricevuto da Mussolini un milione per aiutare i fascisti in difficoltà: "Ma ’sto lazzarone è andato via senza dare niente a nessuno".

L’8 luglio 1945 il primo numero del Giornale di Rimini annuncia: "Tacchi arrestato".

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1587, 07.01.2012. Modificata, 07.01.2012, 10:55

Antonio Montanari

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