Antonio Montanari. Riminilibri 1994, speciale 50 anni dalla Liberazione della città, 21 settembre 1944 |
Un soldato tedesco «ha scritto un libro» sulla guerra a cui ha partecipato, ed è andato «personalmente, mezzo secolo dopo, nei paesi dove» era stato a combattere con i commilitoni. Lì, «voleva essere festeggiato»; e lì «mostra con la mano destra un foglio scritto a macchina, timbrato e firmato: è il certificato di buona condotta rilasciatogli dalle autorità italiane». Questo soldato è il piccolo, quasi impercettibile protagonista in cui Ferdinando Camon riassume il significato polemico del suo romanzo «Mai visti sole e luna» (Garzanti, lire 18.000). Quel soldato «ride benignamente come uno che è in pace con tutti e a tutti vuol bene». «Ha qualcosa che splende in bocca quando ride, una specie di stella, che manda lampetti [ ]: ma non è una stella, guardando bene si può vedere che in basso a sinistra gli luccica un dente d'oro». Così si conclude il libro, a pag. 140. Il lettore, a questo punto, rammentandosi di aver incontrato (molto prima) un soldato che rimanda a questo della conclusione, si rimette a sfogliare all'indietro il volume fino a che, a pag. 64, trova il passo con cui termina il cap. 7: «Uno dei due era più contento dell'altro, e sorridendo apriva così larga la bocca da fare vedere che in basso a sinistra gli mancava un dente». Il particolare del dente mancante, rimpiazzato dalla capsula d'oro, conferma: è lui, il soldato che chiude il romanzo. Ride oggi, sorrideva allora. Ma perché sorrideva allora? Il lettore allora ricorda le scene strazianti che precedono quel sorriso, riassunte da Camon in queste parole: «Da quel momento ognuno ha capito che l'urlo della bestia sta strozzato nella gola di ogni uomo, ma che ci vuole un'altra bestia per tirarlo fuori». In mezzo al dolore delle madri, il capo tedesco appariva soddisfatto e «lanciava verso i due scherani uno sguardo di degnazione come per dire: Noi siamo uomini, questi mah. I due soldati rispondevano con un sorrisino di soddisfazione per approvare». E uno dei due mostrava (appunto) quello spazio vuoto tra i denti, in basso a sinistra. Commentando l'assegnazione del Premio Pen Club al suo romanzo, ha spiegato Camon, ad Ottavio Rossani del «Corriere della Sera» (11. 9. 94): «Questa storia del nazista che torna in Italia convinto di essere stato un soldato buono, mi è caduta proprio addosso. Ha uno spunto vero. Il libro è nato dalla mia irosa reazione al fatto che egli si era presentato convinto di una sua biografia onesta. Invece ne aveva combinate di tutti i colori. Come lui, in Germania ce ne sono centinaia di migliaia e occupano posti di potere reale, cioè economico. Sono loro che guidano l'Europa verso l'unione. In fondo l'Italia sta vivendo proprio per opera loro un'altra sconfitta. E questo mi fa arrabbiare due volte». Il primo risvolto di copertina del libro spiega: «La comunità dei buoni e dei deboli, decimata e dispersa dal passaggio degli invasori, attende mezzo secolo per avere giustizia, e oggi si accorge che delle colpe che ha patito si è persa anche la memoria. È su questo oblio che nasce la nuova Europa : la storia, lavorando in segreto, ha reso i colpevoli più innocenti delle vittime». La visione di Camon traspare anche da alcune righe delle «Precisazioni finali»: « alla solita domanda che il lettore si pone dopo aver letto un romanzo d'avventure: vero o falso?, bisogna rispondere: falso, naturalmente. Perché la verità non è credibile». Apriamo questo numero speciale di «Riminilibri» dedicato alle pubblicazioni locali (nuove ma anche passate) sulla guerra, nel 50° della Liberazione della città, con un accenno al libro di Camon perché esso pare un testo esemplare sotto molti aspetti. Trattandosi di un'opera narrativa, ci preme di sottolineare che in quelle pagine il racconto si alimenta della realtà della storia in un modo che sembra fondamentale, ritraendo cioè la coralità di un dramma. Lì si vede con precisione di tratto e con focalizzazione del contenuto, che la guerra non è soltanto una questione di tecnica militare da manuale di Scuola per aspiranti ufficiali. È tutto il brutto del mondo che impietosamente cancella ogni regola: e le persone vi sono immerse, in quel brutto, e c'è chi affoga e chi sopravvive, ma sempre straziando nel ricordo dolente la meraviglia di poter raccontare un passato terribile. «Rimini in guerra, Sette storie a futura memoria» (a cura di Stefano Pivato edito per iniziativa del Circondario di Rimini da Maggioli, lire 20.000), raccoglie scritti di Liliano Faenza, Federico Fellini, Tonino Guerra, Flavio Nicolini, Luigi Pasquini, Maria Pascucci e Sergio Zavoli. L'epigrafe sotto cui si potrebbe inserire tutto il materiale selezionato, è nelle semplici parole di Tonino Guerra che Pivato cita nell'Introduzione: «A chi non ha memoria del proprio passato si prepara un futuro incerto». Guerra è presente nel libro con due testi: il primo è la ricostruzione parodistica del fascismo cittadino, scritta con FedericoFellini, e poi confluita in quel magico film che ha il titolo di «Amarcord». Il secondo è un'intervista (finora inedita) concessa da Guerra a Maurizio Casadei dieci anni fa. Soggetto dell'intervista, più che lo stesso Guerra, è Rino Molari, l'insegnante santarcangiolese ucciso dai tedeschi nel campo di Fossoli di Carpi. Guerra spiega come, nel '44, ha cercato di apprendere e di tradurre in realtà la lezione politica e morale di Rino Molari. Presi in consegna dei manifestini che erano stati lasciati ad un fabbro da Molari, nel frattempo ucciso, Guerra viene fermato da un fascista del suo paese, portato poi a Forlì, quindi a Fossoli («e sono stato nella stessa baracca dove era stato Rino Molari quattro o cinque giorni prima, la numero 19»), infine in prigionia in Germania per un anno. Sulla prigionia, Guerra ha scritto alcuni anni fa questa poesia: «Cuntént, ma pròpri cuntént/ a sò stè una masa ad volti tla vòita/ mò piò di tòtt quant ch'i m'a liberè/ in Germania/ ch'am sò mèss a guardè una farfàla/ sénza la vòia ad magnèla». Il «Ritratto del fascismo di provincia» di Fellini-Guerra descrive la visita del federale a Rimini: «in chiave paradossale e comica», scrive Pivato, «costituisce uno dei ritratti più fedeli della provincia italiana alla vigilia della seconda guerra mondiale». La scena culmina nei tre bicchieri di olio di ricino fatti bere al babbo del protagonista Bobo (poi Titta), per una spiata del Pataca, il cognato. «La provincia di Amarcord», sono parole di Fellini, «è quella dove tutti siamo riconoscibili, autore in testa, nell'ignoranza che ci confondeva». Se Fellini e Guerra ridicolizzano il consenso al fascio, Flavio Nicolini testimonia il dissenso dell'antifascismo con le pagine del romanzo inedito «Il trenino rosso». Maria Pascucci narra la vita partigiana nel Riminese, raccontando, tra l'altro, di come venne vissuta l'uccisione dei Tre Martiri. Luigi Pasquini racconta la vita sotto le bombe in un podere sulla Linea Gotica. Di Pascucci e Pasquini presentiamo a parte alcune pagine. Liliano Faenza, con un racconto-diario di vita militare nei giorni cruciali della guerra, presenta il momento delle scelte di un giovane soldato, classe 1922, ed il suo ritorno a casa. Convinto che la guerra dovesse finire, e con esso il fascismo, egli rifiuta però la lotta della resistenza. Le pagine di Faenza, commenta Pivato, spiegano «attitudini mentali e comportamenti largamente presenti in quei mesi di guerra». Infine, Sergio Zavoli, con un brano del suo noto «Romanza», chiude il volume descrivendo i bombardamenti e l'immediato dopoguerra. Ci auguriamo che «Rimini in guerra, Sette storie a futura memoria» abbia circolazione soprattutto tra i giovani, per far loro conoscere, nella molteplicità di un'antologia azzeccata e centrata, i vari volti ed aspetti di quella Storia che nei libri di scuola finisce freddamente descritta in brevi frasi che non possono far risuonare le varie tonalità del dramma e del dolore di un'epoca e della gente che in essa visse. Il Circondario, per il 50° della Liberazione, si è fatto promotore di numerose iniziative svoltesi a Rimini, Coriano, Riccione Santarcangelo, Gemmano, Montecolombo e Verucchio, all'insegna del motto «Il principio della libertà». (Bellaria ha organizzato una Veglia con memorie scritte e interpretate da protagonisti ed attori.) Il 19 e 20 settembre a Rimini c'è stato l'«Incontro internazionale della gioventù», intitolato «La libertà della pace», al termine del quale i partecipanti israeliani e palestinesi hanno firmato un appello a rispettare i diritti di entrambi i popoli, superando le barriere del passato. È stato anche firmato da tutti i presenti un appello alla pace, ispirato al principio della non violenza come strumento per la risoluzione dei conflitti. I Tre Martiri «C'è un sentimento comune nei riminesi, profondo, doloroso, di umana pietà; è quello legato alla tragica fine dei Tre Martiri, impiccati la mattina del 16 agosto 1944 sulla piazza fino ad allora dedicata a Giulio Cesare. Ed è un sentimento comune ai riminesi perché quelle tre giovani vite recise rappresentano in qualche modo la fine della lenta e tragica agonia della città e affidano i loro ideali di libertà e giustizia a coloro che, di lì a un mese, ritorneranno per riprendere a vivere, lavorare, cancellare le immani ferite della guerra. Rimini ha molto sofferto per la sventura dell'ultima guerra. Il sacrificio di questi tre giovani, come quello di molti altri, l'ha riscattata dal buio della dittatura e del suo tragico epilogo. Questo volume di Amedeo Montemaggi, vuole ricordare quei giovani, la loro vita, le ragioni e le idee che li portarono a ribellarsi e combattere. Non dobbiamo dimenticarli». Con queste parole, Giuseppe Chicchi introduce «16 agosto 44: Tre Martiri», edito dal Centro Internazionale Documentazione Linea Gotica (presieduto da Montemaggi stesso), Anpi e Comune di Rimini. A sua volta, il presidente dell'Anpi cittadina, Vittorio Vitali, scrive tra l'altro: «Noi partigiani siamo stati l'anima e la forza della Resistenza, abbiamo combattuto in pochi e male armati contro un nemico addestrato militarmente in misura senza eguali, animati solo dalla nostra passione e dalla nostra volontà». Come si svolse la tragica vicenda che ha per protagonisti Mario Capelli (23 anni), Luigi Nicolò (22 anni) e Adelio Pagliarani (19 anni), i Tre Martiri di Rimini? Anzitutto, essi quando furono arrestati? Il 13 agosto, verso le 17.30, secondo un articolo di Montemaggi («Carlino», Cronaca di Rimini, 15. 8. 1964), in cui si riportava una testimonianza dell'ex capo del fascio repubblichino di Rimini, Paolo Tacchi. Stessa data anche in uno scritto di Piero Meldini («storie e storia», 4/1980, p. 90). Ora Montemaggi («Tre Martiri», pp. 44-47) sposta l'evento al giorno 14 in base al «Rapporto riservato» (stilato il 30 agosto), del 471° Gruppo germanico. Nel «Diario di guerra» del Comando Supremo della 10. Armata tedesca (ibid., p. 47), la notizia è registrata il 15 agosto: lì si trova anche scritto che la cattura dei tre «banditen» avvenne «nell'ospizio Marino (poco a sud-est di Rimini)» in località Comasco: è un errore. I tre giovani erano stati infatti catturati nell'Ospedalino Infantile (Aiuto Materno, via Ducale). In altre fonti si parla di quanto tempo i tre giovani restarono nelle mani dei nazi-fascisti. Secondo Maria Pascucci, si tratta di «tre giorni» («Rimini in guerra», 1994, p. 64). Essendo stata eseguita l'esecuzione capitale il 16 mattina, la cattura sarebbe dunque avvenuta il 13 pomeriggio. Per Guido Nozzoli (in Ghigi, «La guerra a Rimini», 1980, p. 218), tra l'arresto e l'esecuzione non passarono che 36 ore. Quindi la cattura sarebbe del 14. Ma perché Tacchi aveva parlato con Montemaggi del giorno 13, sul «Carlino» di trent'anni fa? A proposito di Tacchi, quale fu il suo ruolo nell'intera vicenda? Tacchi spiegò a Montemaggi nel '64 si essere andato «casualmente» in via Ducale con i tedeschi. Nel '46 un giornale locale, «Città nuova» aveva pubblicato il rapporto inviato dalla polizia di Rimini al federale fascista di Forlì in cui si diceva: «La cattura, nella caserma di via Ducale, di tre ribelli è stata opera personale della intelligente ricerca del Segretario Politico della città di Rimini, coadiuvato da elementi della Feld-Gendarmeria tedesca». Quel Segretario Politico era appunto Tacchi. Il suo vice Mario Mosca, per difenderlo, ne rovesciò il racconto. Non fu Tacchi a seguire casualmente i nazisti, ma «un maresciallo tedesco si mise alle costole di Tacchi» per quella ricerca in via Ducale. Una volta scoperti i tre ragazzi armati, il nazista «si fece avanti: voi non c'entrate più, ora è affar nostro» (in O. Cavallari, «Bandiera rossa », 1979, p. 86). Tacchi, per l'uccisione dei Tre Martiri, è prima condannato a morte ('46), poi assolto ('49) dalla Cassazione (cfr. in Antonio Montanari, «Rimini ieri», 1989 , cap. 26. I conti con il passato). La coscienza di chi visse quei giorni reca incise immagini di terrore. Diamo ancora la parola a Maria Pascucci: «Tre partigiani sono stati condannati a morte dai fascisti e dai tedeschi. Saranno impiccati domani se un miracolo non viene a salvarli. Il ras di Rimini [Tacchi, ndr] li tortura per far loro confessare i nomi. Essi tacciono e resistono » (p. 63). Chi era presente alla cattura dei Tre? Secondo una testimonianza riportata nel nuovo testo di Montemaggi (p. 48), c'era Alfredo Cecchetti [Cicchetti, ndr]. Per Nozzoli (p. 218, Ghigi cit.), Cicchetti non era nella base di via Ducale al momento dell'irruzione. Infine, chi era quel Leone Celli (barbiere, originario di Forlimpopoli), che aveva permesso la cattura dei tre giovani? Un «infame» come scrissero i partigiani nella relazione sul fatto? O anche lui una vittima degli eventi? «Celli si sarebbe trovato coinvolto casualmente nella vicenda. Assieme ad altre persone [ ] verso l'8 agosto, aveva assistito alle minacce rivolte da un contadino ad una vecchietta che raccoglieva frutta da un albero del podere. Celli ne prese le difese, minacciando il contadino per il tono violento usato contro la donna, eccessivo rispetto all'entità del furto subito. Qualche giorno dopo quell'episodio, è incendiata la trebbiatrice, il 12 agosto. Celli viene sospettato di essere l'autore del sabotaggio. Fermato dai repubblichini, forse perché picchiato o forse per evitare guai peggiori, scambiò la propria salvezza con la delazione: So dove ci sono dei partigiani, avrebbe detto. Lui, come barbiere, in via Ducale, c'era stato qualche volta» (cfr. «Rimini ieri», cit., p. 57). L'immagine della morte accompagna la repubblica di Salò sin dal suo nascere. Il 5 novembre, il segretario del pfr, Alessandro Pavolini, incita i suoi uomini ad applicare i metodi di repressione usati dai tedeschi: «Di fronte al ripetersi di atti proditori nei riguardi dei fascisti repubblicani per parte di elementi antinazionali al soldo del nemico», Pavolini «ordina alle squadre del partito di procedere all'immediato arresto degli esecutori materiali o dei mandanti morali degli assassinii», e di passarli per le armi «previo giudizio dei Tribunali speciali». «Praticamente», osserva lo storico Arrigo Petacco, «le squadre hanno carta bianca di arrestare chi meglio credono. È l'inizio di una spirale di violenza che insanguinerà il paese e della quale Pavolini sarà il principale responsabile». Intanto, i tedeschi deportano seicentomila soldati italiani. Il nuovo fascio è appena nato a Rimini, che subito appaiono per le strade i simboli di una violenza che terrorizza la gente. Dopo la riunione di dicembre al Cinema Impero, durante la quale viene scelto come segretario Paolo Tacchi, «si vide subito di che pasta erano fatti i nuovi militi. Non avevano ancora dato il nero agli scarponi e messo in ordine le divise grigio-verdi, prelevate da chissà quale fondo di magazzino, ma avevano già il moschetto a tracolla e un piglio piuttosto truculento», racconta lo scrittore Guido Nozzoli: quei militi inscenarono subito «alcune bravate. Quelli che mi trovai di fronte davanti al Palazzo Gioia, alla fine della loro adunanza, pur essendo dei ragazzini, con un'arma a portata di mano dovevano sentirsi importantissimi». Giulio Mancini, classe 1927, ricostruiva così quei giorni: «Una mattina mi trovai in centro a Rimini, per fare delle spese; ci fu un rastrellamento; quei fascisti avevano fatto dei posti di blocco per la città, negli incroci avevano rastrellato tutti i ragazzi che lavoravano per i tedeschi, in stazione, a chiudere le buche delle bombe, e ci portarono tutti alla Colonia nel fiume». I bombardamenti su Rimini erano cominciati il 1° novembre 1943. La Colonia solare Montalti sul Marecchia, alle Celle, era diventata la sede del fascio repubblichino. Proseguiva Mancini: «Loro ci hanno preso, ci hanno messi in fila, con violenza, e poi ci hanno chiusi in una camera, ne facevano uscire due alla volta e cominciavano a menare Cominciavano col farci mettere in ginocchio, con le mani per terra, su con la testa; partivano con una piccola rincorsa, e calci nel sedere e via; poi ricominciavano sempre da capo, sette, otto, dieci volte ». [ ] I tedeschi vanno a protestare con Tacchi, perché così sottrae manodopera alla Todt, l'organizzazione germanica del lavoro, «e Tacchi ha avuto delle grane», concludeva Mancini. Quelli che venivano catturati, i repubblichini li picchiavano e torturavano, e poi li fucilavano come «traditori della patria»: ad Augusto Signoretti di Tavullia (Pesaro), tagliarono «i capelli a mo' di croce», prima dell'esecuzione capitale. Con lui furono uccisi altri quattro giovani del posto: Giuseppe Benelli, Nino Balducci, Ivo D'Angeli e Celestino Gerboni. «Dopo la fucilazione i loro corpi vennero abbandonati, e soltanto la pietà dei cittadini di Tavullia provvide a raccogliere i corpi straziati dei poveri giovani barbaramente assassinati». [ ] Di quei giorni, la gente ricorda i rastrellamenti operati dai militi di Salò, assieme ai tedeschi. Un episodio accaduto in Valmarecchia, a Ponte di Casteldeci: «I rastrellatori tedeschi oltre il bestiame razziato avevano nove ragazzi che consegnarono ai repubblichini Per evitare che durante la notte i prigionieri fuggissero, li avevano messi sul ponte, e all'entrata e all'uscita del ponte s'erano accampati centinaia di militi». Nonostante questo imponente servizio di sorveglianza, un rastrellato di origine slava riesce a fuggire. «Al mattino presto i militi prendono gli altri otto prigionieri, ad uno ad uno gli tagliano i capelli con la baionetta, asportando anche diverse parti della pelle della testa, poi li conducono nel fiume e gli chiedono qual era il loro ultimo desiderio ». Uno di quei ragazzi vuole una sigaretta, un altro va a lavarsi il viso nell'acqua del fiume, altri bevono: «Poi li fecero mettere tre per tre, con le braccia incatenate l'uno all'altro, e quando erano a posto un milite dalla strada li ha falciati con un mitra». Era il sabato santo 8 aprile 1944. I repubblichini spogliarono di scarpe, portafogli e documenti quei giovani, e stavano per andarsene quando si accorsero che uno di loro era ancora vivo: un grosso busto di gesso che indossava, aveva ridotto l'effetto delle pallottole. Si era alzato dal mucchio dei cadaveri, chiedendo perdono: «Sono figlio di mamma anch'io, lasciatemi vivere». Una seconda raffica lo fulmina. Poi «il brigatista boia, prende delle bombe a mano e le lancia sui cadaveri, riducendoli in uno stato pietoso». A Tavullia le bombe a mano i repubblichini le tirano contro la popolazione inerme che attende un'assegnazione di grano. È un ricordo di Carlo Tonti che dopo l'8 settembre fu costretto dai Carabinieri di Cattolica a presentarsi al Distretto militare di Forlì, dove assistette alla fucilazione di un gruppo di reclute (che rifiutavano di indossare la divisa di Salò), e di altri soldati che avevano tentato un'evasione : «Le fucilazioni furono eseguite alla presenza delle reclute in modo da intimorirle a non tentare altre fughe». A Gabicce c'era il Comando dei bersaglieri di Salò: due militari che avevano tentato di scappare, Rasi e Spinelli, vengono ripresi e giustiziati entro le mura del cimitero di Cattolica. Una pensionata comunale di Tavullia, Luigia Benelli, così ritraeva la situazione della primavera 44 nel suo paese: con l'arrivo di molti militi della Legione Tagliamento, comandati dal cap. Antonio Fabbri, quella popolazione «visse giorni tristi, difficili e tragici». Anche qui, cinque giovani fucilati accanto alle mura del cimitero per non aver risposto alla chiamata alle armi. Tra i fascisti, ricordava la Benelli, «oltre ai fanatici, vi erano anche dei buoni ragazzi, ingannati, costretti a dover prestar servizio militare perché presi in rastrellamenti». Ne ricorda uno, con la testa rapata a zero per punizione: aveva rifiutato di partecipare al plotone di esecuzione. Un altro era stato incarcerato, e raccontava: «Vede, per non fare del male agli altri, mi hanno messo in prigione». Nella settimana santa del 44, tedeschi e repubblichini danno la caccia ai partigiani tra i monti della Valmarecchia. Siamo a Fragheto, frazione di Casteldeci. Candido Gabrielli, classe 1921, vede arrivare i partigiani che portano con loro un soldato germanico. «Lo scontro tra partigiani e tedeschi durò tre o quattro ore», e si risolse con la fuga dei partigiani sopraffatti dalle truppe hitleriane. Il tedesco prigioniero riesce a scappare, raggiunge il suo Comando che decide un'azione di rappresaglia contro la popolazione di Fragheto, rea di aver ospitato i partigiani. I nazisti passano casa per casa, «uccidendo vecchi, donne, bambini». Trentatré vittime, tra cui una creatura di diciotto mesi. Le case vengono incendiate. È il venerdì santo. La domenica di Pasqua, mons. Luigi Donati si unisce a Ponte Messa ad un gruppo di persone che stavano andando a Fragheto: «Ci siamo trovati di fronte ad uno spettacolo terribile, raccapricciante. ( ) La maggior parte delle case bruciate aveva il tetto di lastre che era crollato seppellendo persone e cose, lì sotto il fuoco ardeva ancora». A chi gli chiedeva notizie, nei giorni successivi, sulla ferocia di tedeschi e repubblichini, abbattutasi a Fragheto, mons. Donati rispondeva: «Mi vergogno di essere uomo». Antonio Montanari (Dal cap. 17, Dopo il 25 luglio 1943 della biografia di don Giovanni Montali, intitolata «Una cara vecchia quercia», Il Ponte 1993.) |
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