Antonio Montanari
«L'esame di coscienza di un letterato».
Il diritto di fare letteratura, malgrado la guerra.

Il manoscritto dell'Esame di coscienza di un letterato (1915) di Renato Serra, esposto nella scorsa primavera alla Biblioteca Malatestiana di Cesena, è ora riprodotto in volume per le edizioni Il Vicolo & Il Ponte Vecchio della stessa città, a cura di Marino Biondi e Roberto Greggi, e con un saggio critico di Ezio Raimondi. Oltre all'autografo serriano, il libro offre «la prima stampa» dell'Esame, cioè la riproduzione anastatica delle pagine apparse il 30 aprile 1915 nella Voce (cosiddetta 'bianca') di Giuseppe De Robertis.
L'Esame ha avuto in questi ultimi anni numerose riproposte presso vari editori, che Biondi elenca in una nota a pag. 114 del libro. Ricordiamo qui soltanto quella di Fara (1995), la quale, sotto il titolo de Il senso del silenzio, e con una rapida ed intelligente introduzione curata da Alessandro Ramberti, raccoglie pure le «ultime lettere» scritte da Serra fra settembre 1914 e 20 luglio 1915, giorno della sua morte al fronte, e del suo ultimo saluto alla madre: «Niente di nuovo [...]. Noi sempre al solito posto, con molte faccende dei servizi di seconda linea...» (p. 88).
La parte conclusiva del Diario di trincea di Serra (riproposta da Viola Talamonti nella Vita di Renato Serra, Girasole, Ravenna 1996), reca: «Scoramento. [...] Che cosa resterà da fare a me? Esame di coscienza; triste - Si fa sera, tra le nuvole e la luna fresca» (p. 200). È la vigilia della morte.
Ce lo immaginiamo, questo giovane romagnolo, che di giorno con gli altri ritrova «vita e gusto da ragazzi» (è una cartolina del 14 luglio 1915, inviata a De Robertis, e ricordata da Biondi in Renato Serra, Biografia dell'ultimo anno nel carteggio con Giuseppe De Robertis, Fara, 1995); e che al tramonto, davanti ai fogli del Diario s'incupisce (come spiega Biondi) fino a perdere quella spensieratezza che nasceva in lui quasi per reagire alla disperazione del dolore disseminato attorno: «Il povero Combi - Stelluti e gli altri, feriti e feriti. La trincea rioccupata e perduta: le bombe», sono le righe che precedono nel Diario quelle già citate, composte alla vigilia della scomparsa.
Se ci sono come due registri narrativi (quello pubblico nella corrispondenza con la madre o con De Robertis, tutto giocato sul piano di un'attenuazione dei toni; e quello privato che non ammette altro modulo espressivo al di fuori della totale sincerità); resta tuttavia unico, filosoficamente inscindibile il criterio di giudizio con cui Serra affronta il tema della guerra, sia che la guardi come uomo, sia che la analizzi sotto la specie del letterato.
Facciamoci caso: anche l'ultimo foglio che il soldato Serra compone nel Diario di trincea, contiene quella formula («esame di coscienza») che, già presente nel 1910 nel saggio Per un catalogo, nell'Esame battezza le carte del critico il quale, di fronte alla guerra rivendica, come aveva reclamato sulla Voce De Robertis, «il diritto di fare della letteratura, malgrado la guerra».
Queste parole introduttive dell'Esame, hanno il preciso significato di rifiutare le posizioni di chi riteneva che la guerra fosse capace di partorire (anche) una nuova letteratura; cioè le posizioni dei giovani «irrazionalisti» italiani, i quali avevano glorificato la guerra come «sola igiene del mondo» (F. T. Marinetti, Manifesto del Futurismo, 1909), o come «un caldo bagno di sangue» che ponesse fine alla «siesta della vigliaccheria» (G. Papini, in Lacerba, ottobre 1914), all'ombra, come osservò Benedetto Croce nella Storia d'Italia dal 1871 al 1915, di quel D'Annunzio che nel 1908 aveva fatto rappresentare La Nave «col sonante verso "Arma la prora e salpa verso il mondo"».
Serra appartiene ad altra stirpe letteraria. Non guarda al vate del superuomo, ma a Carducci considerato «maestro di civiltà». A quel Carducci dal «brusco irrequieto istinto tutto romagnolo di libertà e di audacia», come lo definisce nella commemorazione cesenate del marzo 1914.
Serra affronta la letteratura con un amore fatto di «trascuranza» ed «ironia», vergognandosi (gozzanianamente?) di prenderla «sul serio», come leggiamo nell'Esame. Dove la «vecchia lezione» (della Storia) ammonisce che «la guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma è quello solo; accanto agli altri, che sono stati, e che saranno: non vi aggiunge; non vi toglie nulla. Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo. Neanche la letteratura».
Questa semplice, «vecchia lezione» non esclude poi che l'Esame si articoli in altre profonde analisi sul «fare quello che bisogna», sull'«angoscia, che sorge dal fondo buio, fra una pausa e l'altra della vita monotona», sul sentirsi «fratelli» in trincea, sulla volontà di vivere e non morire, sul non avere né paure né illusioni («sappiamo che il nostro sacrificio non è indispensabile»), sullo sguardo disincantato verso diffuse mitologie politiche («Fatalità della razza risorgente, istinto di umanità ricuperata, son tutte frasi che non destano in me nessuna eco precisa»).
Ma la stessa «lezione» rende impossibile a chi la legga oggi, di dichiarare: «Serra [...] sosterrà che la guerra lascia immutata la coscienza degli uomini e il mestiere della letteratura», come ha fatto Gilberto Finzi nella presentazione a Il romanzo della guerra nell'anno 1914 di Alfredo Panzini (Ed. La Vita Felice, Milano 1996, p. 11).
L'Esame guida verso il lido opposto. L'interrogarsi sul «fatto» enorme della guerra, è indicativo dei mutamenti registrati dalla «coscienza» nei confronti del trasformarsi della realtà, non è la sua accettazione passiva. Esso inoltre porta a non esaltare la guerra stessa come generatrice di una nuova letteratura. Da Parigi assediata, scrive Serra, D'Annunzio ha inviato «frasi e parole odiosamente vecchie e false; come se niente potesse esser cambiato mai per lui!». Tutto si muta, ma questo non implica, sostiene Serra, che una morte al fronte ci costringa a cambiare giudizio su quanto c'è «di mediocre e povero e approssimativo in certi tentativi letterari». La guerra rivela «dei soldati, non degli scrittori».
Le pagine dell'Esame, secondo Renato Turci (in Un quadrilatero letterario. Serra, Vailati, Paulhan, Ungaretti, Il Vicolo & Il Ponte Vecchio, 1996), superano «il suo tempo generazionale» ed il nostro, collocandosi in una dimensione più vasta, anticipatrice di una crisi non soltanto europea, come già era stato sottolineato da Ezio Raimondi in Un europeo di provincia (1993), opera che riprendeva e sviluppava i temi de Il lettore di provincia (1964).
Raimondi è stato il primo studioso a leggere l'esperienza di Serra in una chiave nuova. Il saggio con cui si apre l'odierna edizione cesenate dell'Esame, traccia le originali coordinate in cui viene situata da Raimondi l'opera del bibliotecario della Malatestiana, la cui scrittura vive in un «impegno assoluto di verità», con una moralità che si ricerca nello stile e nel gusto.
Il «fanciullo solo» (così Serra dice di sé nell'Esame), che vive tra le casette di Cesena, «raccolte laggiù in una immobilità di pietra tagliata a secco, senza toni e senza intervalli», dove tutto è «così piccolo, così fermo», ha fremiti ed inquietudini su cui ha indagato con efficacia e dignità Viola Talentoni nella biografia edita dal Girasole, cercando (come scrive Biondi nell'ampia introduzione, a pag. 28), di svelare il volto «privato ed immediatamente oscuro, perduto nella leggenda provinciale, sotto il velo di testimonianze reticenti».
Serra non è mai stato portato a confidenze con gli amici. Ma sulla sua grandezza di scrittore contano poco gli esiti incerti o drammatici di amori inquieti, e le sconfitte al gioco.
Fu Raimondi (Il lettore di provincia, pag. 4) a parlare del «pudore» di Serra (definendolo «una norma della coscienza e una volontà di difesa, che poi, per attuarsi, avrà bisogno di una parte o [...] di una maschera»), sulla scorta di una carta serriana inedita: «La nostra moralità è più tenera e austera, si chiude in cuore la sua piaga e non la mostra alla grossa gente...».
(Altre belle pagine sul Nostro e l'Esame, sono nel saggio di Cino Pedrelli, Renato Serra, il Muraglione, le ginestre, vol. XLIII degli «Studi Romagnoli», 1996.)
Antonio Montanari

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