Il Magistero di Bologna.
In ricordo di Ezio Raimondi.

1963, la rivoluzione della Media unica.
Era l'anno della «Pacem in terris» di Giovanni XXIII

Fu una vera rivoluzione culturale la nascita della nuova scuola Media unica istituita nel gennaio 1963. L'obbligo scolastico fu portato al quattordicesimo anno d'età, e scomparve il doppio binario dopo le Elementari con la Media che poi conduceva agli istituti superiori di tipo liceale, e l'Avviamento che instradava alle Professionali. Le quali ebbero un ruolo importante di seria preparazione tecnica per tanti giovani, e di procacciamento di un qualificato posto di lavoro. Alla base della riforma della nuova Media c'era il progetto di rendere eguali nei punti di partenza tutti gli studenti che uscivano dal ciclo delle Elementari.

L'anno precedente
il Vaticano II
Prima del 1963 per accedere alla Media occorreva superare un doppio esame: quello di licenza elementare, e quello di ammissione. La nuova legge modificava tradizioni e costumi. Provocò accese reazioni. Era giudicata troppo progressista. Si temeva che i grandi numeri degli allievi potessero inquinare la sete di sapere dei migliori. In realtà si eliminava il primo segno di una selezione sociale che cominciava troppo presto, al termine della quinta elementare, quando secondo i programmi l'allievo doveva essere in grado di leggere, scrivere e far di conto.
La nuova Media nasceva come una specie di utopia politica prima che culturale, in un momento storico del tutto particolare. Nel 1962 il congresso nazionale democristiano di Napoli approva la linea politica del Centro-sinistra. Si inaugura il concilio ecumenico Vaticano II. Fanfani diventa capo del governo, con l'appoggio esterno del Psi. Si nazionalizza l'energia elettrica con l'Enel. Nel 1963 papa Giovanni XXIII poco prima di morire pubblica la «Pacem in terris». A Fanfani dopo il governo monocolore democristiano "balneare" (tanto per far passare l'estate) di Giovanni Leone, subentra Aldo Moro: è il primo quadripartito organico di Centro-sinistra con Dc, Psi, Psdi e Pri.

Nuova legge,
vecchia scuola
I programmi avevano ambizioni forse eccessive. Per chi era da molto tempo nella professione, apparivano pieni di troppe pretese di cambiamento. Il tran-tran era stato bandito, si voleva una cultura di base per tutti con una generosità di propositi a cui non corrispondeva altrettanta abbondanza di mezzi. Polemiche e discussioni accompagnarono la nascita della Media unica. Bisognava registrare nuovamente gli orologi mentali.
Ero svergognatamente avvantaggiato, non soltanto perché al primo anno di lavoro, ma anche perché provenivo dal corso di Pedagogia dove i nostri docenti ci avevano preparato alle originali tematiche culturali ed educative della nuova scuola. Il guaio era che, considerato pivellino perché al debutto, non mi era possibile proporre qualcosa nelle discussioni tra colleghi, dove vigeva il doppio principio di autorità e di anzianità. A gestire con ironici sorrisi di compatimento i cambiamenti voluti dalla legge, furono persone che avevano ricevuto la loro formazione dall'università del periodo fascista. Erano mentalmente impreparate a credere nei diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, ed incapaci di ritenere che la scuola fosse qualcos'altro che costrizione ed obbedienza.

Al Magistero
bolognese
Il mio docente di Pedagogia era stato Giovanni Maria Bertin. Furono anni di grandi maestri al Magistero. C'erano Ezio Raimondi per Letteratura italiana, Gina Fasoli per Storia medievale e moderna. Sarebbe poi arrivato in Storia della Filosofia, al mio terzo anno, Paolo Rossi il quale avrebbe quasi sùbito abbandonato Bologna per Firenze. Estetica era affidata a Luciano Anceschi, Sociologia ad Achille Ardigò (che aveva un assistente terribilmente dongiovanni). Enzo Melandri tenne le lezioni del mio secondo corso (al quarto anno) di Filosofia teoretica, trattando di Logica simbolica, subentrando ad un collega che la carità di patria cancella dal ricordo. Con Rossi presi la tesi, sull'Irrazionalismo italiano nelle riviste culturali del primo Novecento, avendo come contro-relatore Raimondi, il quale nel frattempo mi fece pubblicare un breve saggio nella rivista «il Mulino», dedicato ad un libro di Luigi Barzini junior, «Gli italiani».

Ne «Il Giorno» del 18 gennaio 1966 (vedi foto sopra) Alberto Arbasino raccontava della scuola di critica letteraria bolognese al Magistero guidata da Raimondi. Il quale degli allievi diceva: sono «attratti dal metodo 'scientifico' in quanto contrario sia alla pedanteria scolastica sia allo sfarfallamento sentimentale che perde di vista il testo».
Bastano questi nomi per fotografare il clima intellettuale della nostra 'piccola' Facoltà, i cui allievi erano considerati di grado inferiore rispetto agli altri universitari perché usciti dall'Istituto magistrale che era più breve di un anno dei due Licei (dai quali si riteneva sortisse la crema della cultura nazionale). Noi delle Magistrali di Rimini provenivamo poi da una scuola comunale, in cui non sempre i docenti erano il meglio della piazza, se li confrontavamo con quelli dei due Licei cittadini. La nostra era una preparazione in genere modesta, tutta centrata su di un apprendistato intellettuale svolto con molta superficialità, anche per colpa dell'indisciplina delle classi. Alla quale doveva far fronte il preside Ermenegildo Prosperi, latinista autorevole (e temibile in certe interrogazioni impreviste, quando sostituiva insegnanti assenti).

Due maestri
riminesi
Ho avuto due ottimi docenti di Lettere in terza ed in quarta magistrale: Eraldo Campagna e Gianfranco Micheli. Campagna ha esercitato su di me un benefico influsso, con la sua passione verso la Letteratura che lo portava ad una specie di estasi nel corso delle lezioni, fin troppo particolareggiate e quasi sfarzosamente barocche nelle spiegazioni della «Divina Commedia». L'altra faccia della sua medaglia, era il disinteresse verso la Storia che lo portava a darci cattivi consigli come quelli di saltare nel libro di testo certi argomenti fondamentali. Consapevolmente sacrificava le lezioni di Storia a quelle di Italiano, ritenendo che tutto lo studio dovesse ridursi al mondo delle Lettere. A Campagna debbo la scoperta di Francesco De Sanctis, autore che approfondii durante le vacanze estive, con la lettura quasi integrale della sua «Storia» che mi aprì al programma dell'ultima classe e mi confermò nel mio interesse verso questo tipo di studi (benché non avessi allora nessuna intenzione di proseguirli).
Micheli era un parlatore elegante, sapeva con raffinatezza tessere trame originali fra gli argomenti trattati, aprendo nuove prospettive e suscitando curiosità. Per le sue doti poté proseguire proficuamente il lavoro di Campagna e prepararci con dignità alla prova dell'esame di Stato, dove io svolsi il tema sulle «Poesie scritte col lapis» di Marino Moretti, autore assente nel libro di testo e nel nostro programma.
L'approdo alle lezioni di Bertin fu una specie di trauma. Avevamo studiato soltanto Filosofia e niente Pedagogia con Gianna Di Caro, paziente e preparata ma legata ad un sistema idealistico-storicistico conciliato con il suo marxismo che la portava a leggere la successione dei pensatori come un perfezionamento inevitabile delle idee. Gianna Di Caro era subentrata in terza ad un insegnante laureatosi in età da pensione. Costui appariva estremamente assorto nell'introdurci ai segreti della Filosofia, che forse amava ma che non sapeva farci amare. Anzitutto era poco dialettico, o meglio decisamente schematico, e sempre irridente nei confronti di autori che considerava non all'altezza delle sue interpretazioni. Un mezzo sorriso di ironico disgusto segnava i capoversi del suo discorrere. Sembrava che il riflesso del suo luminoso intelletto dovesse proiettarsi sulle pareti dell'edificio squallido di piazzetta Teatini, sede poi dichiarata pericolante.

La «scoperta
dell'America»
La nostra generazione 'di mezzo' (dopo la guerra e prima della contestazione) non aveva nessuno strumento autonomo per giudicare e comprendere, al di fuori del bagaglio che ci veniva affidato quotidianamente da portare con fatica e scarsa soddisfazione. Arrivare al Magistero bolognese con tutti quei Maestri era davvero la «scoperta dell'America», di un mondo nuovo e diverso di fare Cultura. Il ruolo avuto da Bertin (1912-2002) nella mia maturazione, l'ho compreso durante l'insegnamento, negli studi storici, nel vivere giornaliero. La sua formula della «visione problematica della realtà» precisa un metodo, suggerisce un comportamento, obbliga ad una riflessione continua, forse disperante ed estenuante, ma certamente utile. Essa suggerisce di evitare ogni soggettivismo che può fuorviare e portare ad accettare il pregiudizio. Essa dimostra che non dobbiamo consolidare una visione della vita soltanto egoistica. E che non dobbiamo rifiutare il principio secondo cui ci sono anche gli altri ad agire su quella stessa visione, perché con gli altri siamo sempre dialetticamente rapportati.
La stessa «visione problematica della realtà» conclude poi ad una concezione «razionale» della vita educativa ed intellettuale che è l'opposto di quella dogmatica, e che si manifesta nella «soppressione della contraddizione». Riassumo il pensiero di Bertin con queste sue parole: «Ogni tipo di giudizio è problematico» («Educazione alla ragione», 1973). L'atteggiamento problematico è un abito mentale da accettare in ogni momento della vita intellettuale e pratica. Il nostro dovere è di non sottrarci dall'assumere responsabilità di fronte all'analisi degli atti di pensiero e delle azioni concrete, ricordandoci che essi debbono corrispondere ad un disegno morale.
Fonte: "1963, la rivoluzione della Media unica" [il Ponte, 26.02.2006].
[Indice di Viva la squola. Memorie tra pubblico e privato.]

Antonio Montanari

antonio montanari nozzoli/
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