Antonio Montanari.

Giovanni Cristofano Amaduzzi
e gli abati filosofi del Settecento romagnolo,
Battarra, Giovenardi e Bertola

[1993, conferenza Uciim]

I. PREMESSA
Nella seconda metà del Settecento, tre abati romagnoli s'impongono all'attenzione del mondo intellettuale italiano. In ordine di nascita sono Giovanni Antonio Battarra (1714-89), Giancristofano Amaduzzi (1740-92), e Aurelio de' Giorgi Bertola (1753-98).
Li unisce anzitutto la formazione culturale. Battarra ed Amaduzzi crescono alla scuola di Iano Planco. Bertola è guidato da un ex allievo di Planco (a Rimini e a Siena), mons. Francesco Pasini, vescovo di Todi. (1)
Li accomuna poi lo studio approfondito della Filosofia che, nell'esperienza dei tre abati, occupa un posto di primaria importanza, non sempre valutato adeguatamente in sede critica. Essi possono venir inseriti in quella vasta schiera di «illuministi cattolici» che caratterizzano l'ambiente italiano del Settecento, erroneamente definito «giansenista» secondo Codignola. (1 bis)
Gli aspetti illuministici delle loro esperienze, non sono però simili tra loro. Battarra privilegia l'indagine della natura, Bertola quello della Storia, Amaduzzi lentamente perviene ad un concetto di Filosofia che sia comprensivo della storia, della natura e dell'arte.
Dal punto di vista anagrafico, i nostri abati appartengono a tre diverse generazioni. Nel 1755, quando Battarra pubblica la Fungorum agri ariminensis historia, ha 41 anni, contro i 15 di Amaduzzi, ed i due appena di Bertola. Altrettanto differenti sono le loro personalità.
Battarra si rivela di «indole sdegnosa e cinica», scrive Carlo Tonini. (2) La bizzarria lo caratterizza, come suggerisce questo episodio: quando gli muore il cane Orione, Battarra dedica alla bestiola un funerale che, annota, «fu più splendido di quello del Vescovo Guiccioli morto pochi giorni prima». (3)
Amaduzzi ha carattere inquieto e sincero, che egli giustificava con la sua origine: la Romagna, scriveva infatti, è «produttrice di uomini vivaci e liberi». (4) Della sua personalità diceva poi che era «lieta, vigorosa, ed ingenua», come quella di tanti altri conterranei. Un teologo protestante danese, Federico Münter, che conosce Amaduzzi nel 1785, lo definisce dotato di una «sincerità veramente femminile», che lo fa parlare «senza ritegno e spesso senza ragione». (5) Il giovane scrittore siciliano Tommaso Maria Gargallo Montano, nella dedica di un proprio lavoro, chiamava Amaduzzi «sincero ma non impudente». (6)
Bertola soffrì per tutta la sua breve ma intensa esistenza (morì a 45 anni), a causa della scelta religiosa impostagli dalla famiglia, per motivi d'interesse. Nel 1777, ad appena 24 anni, si definiva già un «solitario infelice» vicino alla morte. Non gli mancarono però amicizie e consolazioni femminili. Il catalogo dei suoi amori ha molte pagine, talune delle quali alquanto torbide. Lui stesso era consapevole della sua «continua ed orribile contraddizione», nella quale si dibatté sino alla fine dei suoi giorni.

II. BATTARRA
Battarra celebra la prima messa nel 1738. Tre anni dopo, va ad insegnare Filosofia alla pubblica cattedra istituita da «alcuni zelanti terrieri» a Savignano. Poi, comincia a raccogliere materiale per la Storia dei funghi riminesi che, appena pubblicata, lo rende famoso tra i dotti d'Europa.
La scrive in modo classico, in latino, però espone idee molto moderne: combatte la teoria della generazione spontanea dei funghi dalla putredine o dal «guasto sugo nutritivo» delle piante, sostenendo che la riproduzione avviene «per semenza».
Spiega il suo primo biografo, Michelangelo Rosa, che Battarra come filosofo procedeva «secondo ragione», indagando «il vero e positivo». Si differenziava così da quanti preferivano invece «il più facile lavorio del supporre, fingere ed immaginare». (7)
In ciò, Battarra si rivela un filosofo nuovo, sperimentale, che rifiuta quelli che Amaduzzi chiama gli «errori dominanti» del vecchio pensiero. (8) E uno di quegli errori, secondo Amaduzzi, era appunto la teoria della «generazione dalla putredine». (9)
Dal '48, per sette anni, Battarra insegna dalla cattedra pubblica di Filosofia di Rimini. Nel 1762 passa a quella del Seminario: qui, la sua modernità di pensiero si scontra con il conservatorismo del card. Lodovico Valenti (vescovo di Rimini dal 1760 al 1765), per cui l'incarico gli viene ben presto tolto.
Su questa esperienza di insegnamento, ci sono rimasti Due discorsi a stampa.
Il primo fu pronunciato la sera del 6 dicembre 1762, lungo il porto canale. Battarra (da buon filosofo sperimentale), voleva spiegare in loco, alcune sue opinioni relative alla sistemazione del porto. Ai suoi allievi, Battarra disse che per risolvere i problemi del canale riminese, da 40 anni ad allora, non si era concluso nulla perché mai, a dirigere la fabbrica, erano stati messi «un Fisico» ed «uno di quegli Architetti che per fondamento dell'Arte hanno un forte presidio di Filosofia, e di tutte le discipline Matematiche...». (10)
Ai suoi alunni, Battarra confidava: a Rimini c'era una «persona da potersi consultare», ma non fu mai fatto «per un motivo che vi dirò poi in un orecchio». Quella persona altri non poteva essere che lo stesso Battarra.
Per dimostrare che il porto canale andava non prolungato (come suggeriva Planco), ma incurvato onde favorire il corso delle acque anche rispetto al gioco dei venti, Battarra cita l'autorità di Galileo, secondo il quale «per un arco di quarto di circolo, l'acqua si muove più velocemente che per la corda di esso». (11)
La mia Filosofia, diceva ancora Battarra quella sera, è molto diversa da quella che hanno studiato «i nostri Padri»: grazie ad essa, loro «sono gloriosamente diventati uomini inutili a se [sic] e di non volgar pregiudizio alla Repubblica». (12) Voi invece, proclamava Battarra ai suoi allievi, «vi consolerete in fine, che sotto di me studiando non avete perduto il tempo».
Lo spirito di questa "nuova" Filosofia, ci viene spiegato da Battarra in un breve passaggio della Storia: agli occhi degli uomini sensati, appare chiaramente che «Dio e Natura niente predispongono invano». (12 bis)
È l'empirismo moderno letto alla luce della dottrina cristiana, senza alcuna contraddizione tra fede e ragione; e quindi senza rifiutare la ragione in nome della fede.

III. GIOVENARDI
La Fungorum agri ariminensis historia presenta una lettera di Planco allo stesso Battarra, sui rimedi contro gli avvelenamenti da funghi. (13)
Battarra racconta perché si è rivolto al suo vecchio maestro. Battarra anzitutto è completamente digiuno di nozioni terapeutiche. Poi, come sacerdote, gli è proibito praticare la medicina.
Contro tale divieto, imposto dal Diritto canonico, si espresse in quegli anni un altro discepolo di Planco, il parroco Giampaolo Giovenardi (1708-89): il sacerdote dev'essere «custode... non di sole opinioni probabili», ma anche «di scienza». (14)
Secondo Giovenardi, la Filosofia «c'insegna la maniera di ben congiungere e separare le Idee, di ben regolare i nostri raziocini, ci libera dalle preoccupate opinioni, dagl'anticipati o da' precipitati giudizi, dagl'errori a noi venuti nella nostra Educazione dalle nutrici e dagli innumerabili pregiudizi della fanciullezza: malattie tutte che c'impediscono l'apprendere e il distinguere il vero dal falso». (15) In questa definizione, così generica, è possibile rintracciare un chiaro influsso della scuola planchiana. Per Bianchi, la Filosofia è il collante delle Scienze, il legame di ogni ricerca, il fattore che unifica e garantisce nell'indagine sulla realtà. Non è una disciplina a sé stante, con le sue regole, ed un suo sistema di conoscenza [cfr. parte 1ª].
Per inquadrare meglio l'atteggiamento culturale di Giovenardi, ricordiamo infine che quando egli parla dell'anatomia planchiana, ricorda che il suo maestro «la insegnò sopra la macchina stessa, aprendo, o facendo aprire continovamente cadaveri». (16) Anche quella parola «macchina», Giovenardi l'ha ascoltata certamente alla scuola di Planco. (17)

IV. BERTOLA
Per Battarra e Giovenardi lo studio e l'insegnamento della Filosofia sono parte costante e fondamentale della loro esperienza intellettuale ed umana. Per Bertola, invece, è molto differente l'itinerario culturale attraverso cui approda alla Filosofia.
Nei sogni di Bertola, ad un certo punto, appare una cattedra di Filosofia morale a Ferrara, ma semplicemente come alternativa alla vita claustrale da monaco olivetano, che non sopportava. Nel 1775, scrive ad Amaduzzi: «Non vi spaventate. Ho dei motivi, ve lo giuro, atti non solo a provarmi un diritto alla secolarizzazione... ma a contestarmi altresì non valida la Professione». (18)
Nel 1784 Bertola inizia ad insegnare Storia a Pavia, di ritorno da Napoli, dove per sette anni (1776-1783), ha insegnato Storia e Geografia all'Accademia navale. A Napoli, ha conosciuto i temi dell'Illuminismo europeo. A Pavia li approfondisce, accostandosi anche ad ambienti giansenisti.
Nell1787 Bertola pubblica un volume che racchiude in sé il significato delle esperienze culturali vissute fino ad allora. È il Della Filosofia della storia. Per la prima volta in Italia (come osservò Carducci), appariva quella definizione di «Filosofia della Storia».
L'opera è divisa in tre parti, rispettivamente dedicate alle cause dei fatti, ai mezzi con cui essi si manifestano, ed agli effetti che producono.
Già avanti di scrivere quel libro, Bertola si è fatto la fama di uomo che non era «solamente poeta», ma anche «filosofo ed artista come voi dite di Leonardo da Vinci», gli scrive il «cavalier Pindemonte» nel 1780. Nel 1776, in un articolo delle Effemeridi letterarie di Roma, Amaduzzi chiama Bertola «Vate filosofo». (19)
Dove si parlava di Filosofia, in quei tempi, al di là dei libri? Di certo nei salotti che Bertola e Pindemonte frequentavano golosamente. Uno dei più rinomati, è quello di Silvia Curtoni Verza, che il Bettinelli chiamerà «giacobina» e «terrorista» (20), e che la Elisabetta Contarini Mosconi definisce «una gran dritta». Ma più che il cervello, nel giudizio della Contarini pesano il ricordo del sentimento e la gelosia. Il 1787 è l'anno non soltanto del nuovo libro di Bertola, ma anche quello della fine dell'amore tra Bertola ed Elisabetta Contarini che, nell1785, si era concessa all'abate riminese, dandogli una figlia, Lauretta, che Pindemonte ricorderà come fiore dai «delicati stami», tanto rassomigliante nella sua fragilità fisica al padre.
In quei salotti, nascono amicizie e sodalizi letterari, e si tessono le trame di una cultura che viene ravvivata da scambi di idee, da invii di lettere, giornali, libri, come testimoniano i vasti epistolari di Bertola, Amaduzzi e Pindemonte.
La Filosofia della storia è stata definita da Piromalli come l'opera in cui si esprime l'«educazione illuministica moderata» che caratterizza il Bertola di quegli anni. A Napoli nell1784, Bertola si era iscritto alla massoneria locale, «che sosteneva l'azione dei principi riformatori». (21)
In effetti, la Filosofia della storia esprime fiducia nell'opera politica dei governi per migliorare la vita degli Stati. Stati che, dice Bertola, sono ben saldi, come leggiamo nella conclusione dell'opera. Per quella legge di natura che tutto fa invecchiare, anche quegli Stati declineranno, ma lasciando il posto ad «un'epoca di calma e di tranquillità». (22)
Quando esce la Filosofia della storia, mancano due anni al 1789 francese. Bertola giustifica la propria visione politica in base a tre elementi: «i lumi del secolo, i progressi de' civili sistemi, i prodigiosi accorgimenti della dominante politica». (23)
Già qualche pagina prima, Bertola ha spiegato i motivi politici, costituzionali ed economici per cui l'Europa non doveva più temere le rivoluzioni. (24)
Piromalli osserva che gli scritti successivi di Bertola del 1797 (le Idee di un repubblicano sopra un piano di pubblica istruzione e le Lettere istruttive per il popolo dell'Emilia), sono «lo sviluppo» di quell'«educazione illuministica moderata», partendo dalla quale Bertola approdò «al radicalismo politico repubblicano, alla rivoluzione». Come ciò sia avvenuto, è alquanto oscuro.
Nella Filosofia della storia nulla fa presagire il mutamento di rotta rivoluzionario. Sembra quasi che le due opere del 1797, appartengano ad una stagione diversa che nulla abbia in comune con la precedente: il riformismo nega ogni estremismo, e non può essere considerato un sua fase preparatoria. I documenti sul Bertola di quegli anni sono scarsi, per cui è difficile ricostruire motivazioni ed eventi della vicenda personale dell'abate riminese. E dei suoi mutati umori politici.
Un esempio, si trova nell'episodio della fuga da Rimini in quel 1797, da parte di Bertola che temeva l'arresto «come uomo di opinioni infette e perverse». (25) Due sono le ipotesi formulabili: Bertola è giudicato così dai giacobini locali, ai quali il poeta doveva apparire come un conservatore? Oppure Bertola se ne andò da Rimini per l'avversione della popolazione ai giacobini? (26)
I dubbi che restano su questa fase della vita di Bertola e della sua produzione letteraria, sembrano quasi un'ironica e amara smentita dello spirito di chiarezza che il nostro autore andò ricercando per comporre la Filosofia della storia.
Scopo dell'opera, è di promuovere quello studio critico della storia che ci offre «preziosi vantaggi» rispetto ai popoli antichi. (27) Studio che, quindi, ci fa avanzare in civiltà.
Questo atteggiamento illuministico è confermato da altre osservazioni contenute nel volume, ad esempio là dove (tra le cause dei fatti storici), si prendono in considerazione anche il clima dei luoghi e il «temperamento fisico» dei popoli.
Bertola, nella sua idea di un'evoluzione della società umana, subisce l'influsso del Vico. In certi passaggi, poi, s'avverte un'ironia volterriana, se non un realismo derivato da Machiavelli, come quando Bertola parla degli oracoli: per ricorrervi, bastava essere in grado di pagare, ma talora le risposte erano preparate prima del consulto, per mezzo di imbrogli macchinati da ministri e sacerdoti. (28)
Machiavelli è ricordato da Bertola assieme a Paruta (29), come uno dei padri della Filosofia della Storia, per rivendicare all'Italia una gloria che i francesi attribuiscono a Montesquieu. (30)
Lo spirito illuministico di Bertola si colora di venature preromantiche nella conclusione dell'opera. I filosofi educano, sì, ma la loro opera non può tutto: essi agiscono come quei medici che, con «farmachi opportuni», curano i malati, «all'uom ricordando la sua inevitabile caducità». (31) La ragione si nutre di speranza, mentre la natura ci avverte «che tutto perisce». (32) Così, la Filosofia non si può ridurre all'esame di ciò che che è transeunte, ma deve rivolgersi alla verità di quanto è «eterno» e «incorruttibile», superando così i limiti della stessa natura e della stessa storia.
Né storia né politica debbono illudersi che sia possibile conseguire «una esteriore felicità, che la natura nostra manifestamente ci nega». Le idee ottimistiche sono definite da Bertola come «frivole e vane».
Egli non crede possibile «il raggiungimento della Felicità» [I costituzionalisti americani l'avevano inserito tra i diritti dell'uomo nella Dichiarazione del 4 luglio 1776].
L'origine dell'atteggiamento di Bertola, oltre che nel clima culturale europeo del Preromanticismo, potrebbe essere rintracciata nella stessa esperienza umana del nostro abate.
È partendo da queste idee, che egli giunge alla svolta rivoluzionaria degli anni '90?
Di tutto il travaglio che accompagnò la preparazione e la stesura della sua opera, Bertola ci ha lasciato un breve documento, in una lettera a Pindemonte del 25 novembre 1794, dove parla delle «tante fatiche» che il libro gli è costato. (33)
La parte più efficace dell'opera, oggi, appare quella in cui Bertola ricostruisce l'evoluzione degli studi storici, partendo dall'Umanesimo, quando si attese al recupero filologico delle opere. Poi, con il XVI secolo, le storie imitarono i classici. È qui che Machiavelli e Paruta sono citati come padri della Filosofia della Storia.
Nel XVII secolo, si produssero cronologie ed antiquaria «in prolisso metodo». Sul finire dell'età barocca, la Filosofia della Storia in Italia venne guastata da trattati vacui ed ampollosi, e da «scolastiche sottigliezze», per cui «quasi ricoverò oltramonti».
Infine, nel secolo XVIII «la filosofia della storia ha, diremmo quasi, alzato stendardo, sotto cui venuti sono a raccogliersi illustri ingegni di varie nazioni», tra cui Montesquieu. (34)

V. AMADUZZI
Amaduzzi è autore di tre Discorsi filosofici: Sul fine ed utilità dell'Accademie (1776), La Filosofia alleata della Religione (1778), e Dell'indole della verità e delle opinioni (1786).
Nato a Santa Maria di Fiumicino (Savignano) il 18 agosto 1740, Amaduzzi è indirizzato al Seminario di Rimini dallo zio paterno, don Giovanni, parroco del suo paese. A 15 anni, passa alla scuola di Iano Planco, dove studia Greco e Filosofia, materia nella quale, come lui confessa, si pone «con giovanile ardore a cozzare con gli ultimi avanzi dell'Aristotelico rancidume». Planco lo avvia a Roma, dove Amaduzzi trova un protettore ed amico nel cardinale santarcangiolese Lorenzo Ganganelli, il futuro Clemente XIV. Amaduzzi ha 22 anni, Ganganelli 57. Fra la visita ad un museo e la consultazione di una biblioteca, Amaduzzi ha anche tempo per allacciare rapporti con altri studiosi.
Dotato di un carattere vivace e battagliero, Amaduzzi per le sue idee politiche e religiose, nella Roma di Clemente XIII (1758-69) non ha vita facile. Agli occhi di molti lo rendono sospetto i rapporti che intrattiene con ecclesiastici chiamati giansenisti. La propensione da lui dimostrata verso i cambiamenti politici che in Francia sono sostenuti dagli scrittori illuministi, ne fa un personaggio pericoloso. Lo accusano infatti di essere indifferente ed eretico in materia di Religione.
Planco, ex allievo della Compagnia del Collegio di Rimini, è anch'egli contro i «Loyolisti»: al suo pupillo Amaduzzi, raccomanda di prender contatto con mons. Giovanni Bottari, considerato il capo degli antigesuiti. L'abate dà ascolto al dotto maestro. I rapporti fra Amaduzzi e Bottari saranno frequenti e cordiali. In casa Bottari, è spesso ospite mons. Scipione de' Ricci che nel 1780 viene nominato vescovo di Prato e Pistoia: con lui, Amaduzzi entrerà in una fitta corrispondenza.
La carriera di Amaduzzi, per quanto folgorante, nei suoi inizi è stata tuttavia in salita. Il suo ingresso nella Stamperia di Propaganda Fide, avviene per gradi: dopo essere stato fatto lettore di Greco alla Sapienza nel '69, l'anno successivo finalmente viene nominato da Clemente XIV soprintendente alla Stamperia, al posto di Costantino Ruggeri, contro il parere del Prefetto di Propaganda Fide, cardinal Castelli. Amaduzzi non piace a Castelli, che lo ritiene antigesuita. In base a tale opinione, Castelli ha già respinto un precedente intervento a favore dell'abate, fatto da papa Ganganelli.
Cura articoli per riviste, anche se a malincuore, perché (come confida) sulle gazzette non si può disgustare nessuno. In Arcadia, pronuncia i tre Discorsi, che fanno scandalo (35).
Mentre cresce la sua fama nel mondo letterario italiano come erudito e pensatore illuminato, gli ambienti conservatori gli si mostrano ostili.


L'argomento del primo Discorso (1776, Sul fine ed utilità dell'Accademie), si può riassumere in questa citazione: «Lo scopo principale, che aver debbono le Accademie», è quello «di detronizzare gli errori dominanti» [p. 12, I], proseguendo nell'opera svolta dai Lincei (1603-1630), «la primogenita di tutte le Accademie scientifiche, che fu cuna d'una miglior Filosofia» [ib.].
Questa «miglior Filosofia» ha iniziato a combattere contro l'«irragionevole autorità» ed il «cieco dispotismo» che caratterizzano la cultura del XVII secolo [ib.]. L'esempio italiano dei Lincei è stato poi ripreso nel resto d'Europa (a Parigi nel 1638, a Londra nel 1662), sempre con lo «stesso fine glorioso di porre sul trono la verità, e la ragione» [p. 18, I].
La filosofia è una scienza «sperimentale» [p. 6, I], che ci mostra «essere la semplicità il carattere della natura» [p. 29, I]. A questa semplicità deve ispirarsi anche l'attività letteraria. Per tale motivo, Amaduzzi rifiuta il «ridicolo ammasso di metafore, e quella gonfiezza di stile, che or dicesi seicentismo» [corsivo nel testo, p. 23, I].
Sul piano filosofico, il primo Discorso vuol confutare superstizioni ed errori, in base al principio di ragione. In campo letterario, condanna pedantismo ed imitazione in nome del «buon gusto».
Il concetto di «buon gusto» è una categoria critica già presente in Muratori, in un saggio del 1708 (Riflessioni sopra il buon gusto...), dal quale Amaduzzi ricava anche altri due aspetti di questo primo Discorso: il tema dell'importanza delle Accademie, e la critica alla cultura barocca.
Amaduzzi definisce la Filosofia «dono prezioso del cielo», per sottolineare come non esista nessuna contraddizione tra ragione e Religione [p. 21, I], i «due lumi» che «assistono l'uomo» [p. 6, II].

La ragione «insegna di dubitare», ma non si può procedere «dubitando in tutto». Amaduzzi così nel secondo Discorso (1778, La Filosofia alleata della Religione), critica il "dubbio metodologico" che Cartesio aveva riassunto in queste parole: «...considerando che gli stessi pensieri, che noi abbiamo quando siam desti, possono venirci anche quando dormiamo..., mi decisi di fingere che tutto quanto era entrato nel mio spirito sino a quel momento non fosse più vero delle illusioni dei miei sogni».
La Religione, spiega Amaduzzi, domina un territorio all'interno del quale la ragione deve sottomettersi [p. 6, II]. Però, la stessa Religione ha bisogno della ragione. È questo l'aspetto più illuministico di Amaduzzi: «Se si rinuncia ai principi della ragione, la nostra Religione diverrà ben presto assurda e ridicola» [p. 7, II].
È la Filosofia che mostra «colle sue sagge analisi i giusti confini» tra cose divine ed umane. L'indagine filosofica riguarda soltanto i «fenomeni della natura», e non tocca i «celesti misteri», adorando «l'onnipotenza del grand'Autore della stessa natura» [ib.]. Per questo, la Filosofia non è «la fonte delle eresie, e la sorgente dell'irreligione» [p. 13, II]. Purtroppo, «il falso zelo» ha fatto le sue vittime, come Galileo [pp. 14-15].
La Filosofia a cui Amaduzzi pensa, è quella che segue «lo spirito riformatore dell'immortale Bacone» [1561-1626, è del 1620 il Novum Organon, dove si parla degli idòla, complessi di dottrine erronee e di superstizioni, che bloccano la via per la verità]. È la stessa Filosofia che ha introdotto «la più regolata analisi della mente umana», per conoscerne limiti e capacità [p. 10, II].
Tale Filosofia (con Cartesio, Galileo e Newton), «sbandì tutto il meraviglioso, tolse i prestigi dell'ignoranza, detronizzò la superstizione..., seppe discuoprire le forze della natura, e spiegarne gli arcani, e i fenomeni più astrusi» [ib].
La parte centrale del secondo Discorso, è il tema della conoscenza, dove Amaduzzi attua una sintesi tra sensismo, Cartesio e Pascal [pp. 15-17]. La sensazione è il punto di partenza di ogni atto del conoscere, ma l'attività unificante e critica della riflessione sulla realtà, tocca al pensiero, inteso come l'«azione dell'intelletto» che medita sulle immagini ricevute.
Anima e cervello sono i due canali che in «intima unione» forniscono al pensiero rispettivamente idee ed immagini che vengono confrontate tra loro, per ricavare la verità mediante dei giudizi.
Attraverso questo processo, «l'uomo giunge così a conoscere la sua esistenza» («Cogito, ergo sum», aveva detto Cartesio), e «mentre si vede dotato della potenza di pensare... si riconosce per la più eccellente creatura; e quando risente la limitazione del suo intendimento, e delle sue facoltà, forz'è, che si confessi la più misera» (è, ripreso all'incontrario il pensiero pascaliano sull'uomo che «è una canna, la più debole della natura, ma è una canna pensante»).
Questa Filosofia non soltanto insegna la verità della Scienza, ma educa anche a quel senso di «umanità» e alla «civile tolleranza» che sono «diramazioni legittime della Cristiana carità», rafforzando «il patto sociale» e migliorando le condizioni di vita degli Stati [pp. 10-11, II].
Dall'accordo tra Filosofia e Religione, secondo Amaduzzi, discendono quelle riforme che mutano la società, e che «onorano e l'umanità, e la Religione insieme» [p. 11, II]. [Il tema delle riforme è vivo in quegli anni, nello Stato della Chiesa: Pio VI (1775-99), tentò un'opera di rinnovamento nel campo agricolo ed in quello finanziario.]
La Filosofia conosce «nella natura alcuni rapporti fra gli uomini» [p. 25, II], la cui scienza forma l'etica. La coscienza ci detta le regole secondo ragione da seguire nel nostro comportamento, culminanti nel «gran principio della morale, fondato nel non fare ad altri ciò, che non si vorrebbe per se medesimo» [pp. 27-28, II].
Il rispetto dei diritti altrui è quel principio di giustizia che costituisce la regola del «patto sociale», e che contribuisce «alla pubblica felicità» [p. 28, II].
I doveri di giustizia «debbono essere comuni a tutti i popoli», per cui i popoli stessi debbono aiutarsi tra loro [pp. 29-30].
Il discorso politico viene esteso da Amaduzzi anche al concetto di Stato. Il depositario della «sociale autorità» è il principe, ma il suddito è pur sempre però «un suo simile, ed un suo fratello» [p. 30, II].
Non è forse senza significato che, a questo punto, l'elenco dei doveri del principe verso il suddito, sia più consistente di quello dei doveri del suddito verso il principe.
L'idea che emerge da queste pagine è quella di un riformismo illuminato, operato sia dai filosofi sia dai politici.
È interessante l'esame che Amaduzzi fa dei miglioramenti introdotti nella vita degli Stati dal superamento delle vecchie regole e strutture (tortura, schiavitù, diritti feudali...), e con iniziative quali gli interventi per le libertà di commercio, o per la cultura, l'economia e la salute pubblica (come quella dell'inoculazione del vaiolo) [pp. 32-35, II].
La nuova Filosofia, dunque, crea secondo Amaduzzi anche una nuova società. Amaduzzi, addirittura, fa un parallelo tra «tirannia feudale» ed età della superstizione, per dimostrare che i «lumi filosofici» [p. 37, II], liberano non solo gli uomini sotto il profilo politico, ma anche la stessa Religione dall'ignoranza, in un processo unitario di miglioramento globale della società.
La vera Religione, scrive Amaduzzi, ha precetti «tutti alla ragione conformi» [p. 39, II]. E i «veri studiosi della Filosofia esser non possono nemici della Religione», come dimostrano Bacone, Newton, Pascal e Locke. Pascal è citato in questo secondo Discorso per ben due volte. Il suo nome era pericoloso da pronunciare, essendo legato alla condanna del Giansenismo, da parte di Clemente XI (1713, bolla Unigenitus). Nel 1734, il Saggio sull'intelligenza umana di Locke era stato messo all'Indice.Queste idee, contenute nel secondo «Discorso», procurano ad Amaduzzi una denuncia all'Inquisizione. Ma la pratica non ha corso. Lo salvano la protezione e l'amicizia del sammaurese padre Agostino Giorgi, consultore del Santo Ufficio. (35 bis)
La teoria della conoscenza, formulata da Amaduzzi sulle orme di Locke, nel terzo Discorso (1786, Dell'indole della verità e delle opinioni), è molto più semplificata rispetto a quella presentata nel secondo. Egli riprende dal Saggio di Locke la distinzione tra sensazione, ragionamento (come confronto di idee ed oggetti), e coscienza (intesa quale fonte della verità morale). Ciò non deve farci concludere che c'è scarsa originalità di pensiero in Amaduzzi: il nostro abate ricerca la strada per arrivare alla verità, con spirito di armonia tra fede e ragione, tra scienza e fede, tra natura e Dio, onde evitare che, in nome di quella verità, si commettano ingiustizie. Locke era un autore proibito, e la sua riproposta significa per Amaduzzi conciliare i diritti della ricerca coi i doveri del credente.
Amaduzzi, verso la fine del terzo Discorso [pp. 44-45], spiega come nasce l'errore che porta poi a quelle che sono chiamate le «opinioni». Ma egli precisa anche che ci sono «opinioni» che poi diventano verità. Ciò è accaduto (dice) pure in tempi recenti, quando alcune «opinioni» sono state dimostrate essere «verità trionfanti», mediante «più squisite osservazioni» [p. 54, III].
È questa l'idea di una cultura che può sempre progredire, secondo il concetto vichiano delle tre età, e mediante il principio galileiano che, per stabile «un grado di vera scienza», occorre un «corredo di esperienze sufficienti» [p. 48, III].
In questo passaggio del terzo Discorso, Amaduzzi parla di Planco, a proposito di Pitagora. La teoria della proporzione di Pitagora, secondo cui «la gravità de' corpi celesti decresce allontanandosi dal sole» [p. 50, III], era anticamente un'«opinione». Ma dopo la scoperta newtoniana delle forze centrali, la «si ricorda per un assioma fisico incontrastabile» [p. 51, III].
Solo «taluno», cioè Planco, l'ascriveva ancora ad una propensione («trasporto», dice Amaduzzi) di Pitagora «per un certo mirabile e spezioso» [ib.]. Con ciò, Amaduzzi vuole insinuare che Planco nulla avesse compreso delle teorie di Newton?
Le verità di cui Amaduzzi tratta in questo ultimo Discorso, sono di vario tipo: si va da quelle politiche ed economiche (in linea con il riformismo illuminato), a quelle scientifiche od artistiche (con il concetto del «bello ideale» ripreso dal padre Francesco Soave, il traduttore italiano del Saggio di Locke[1785]). [Soave diffonde in Italia il sensismo. Il sensismo italiano, in generale, alla componente edonistica (secondo cui l'apprezzamento estetico dà piacere), unisce una valutazione del contenuto (che deve essere utile e vero)].
La classificazione che Amaduzzi fa, vuole non tanto essere un pedante elenco di princìpi e di modelli a cui ispirarsi; quanto indicare che tutta l'attività umana dev'essere rivolta al conseguimento di una perfezione che non è qualcosa di astratto, bensì ha valore soltanto se si esprime in atti concreti, nella realtà quotidiana.
È per questo motivo che anche nel terzo Discorso Amaduzzi critica «l'universale dubbio Cartesiano» [p. 9], sostenendo un'idea di progresso che coinvolge tutta la vita sociale, la quale è migliorata dalla ricerca filosofica della verità. Non per nulla, il Discorso si conclude con questa affermazione: «Grazie ai nostri lumi scentifici [sic] non può ora prevalere la norma politica, che vi sieno verità, che rese manifeste a tutti addivenir possono pericolose, anzi perniciose» [p. 60, III].
Dopo aver pronunciato questo terzo Discorso, Amaduzzi scrive ad un suo corrispondente (il Pompei, in una missiva del 4 febbraio 1786), che ha intenzione di stampare la sua dissertazione, «senza assoggettarla alle mutilazioni di Frati superstiziosi, e fanatici» [Biblioteca Filopatridi, Savignano, fasc. 28].
Dopo quel terzo Discorso, cominciano le grane per Amaduzzi. L'abate Luigi Cuccagni di Città di Castello, in una Lettera anonima a stampa (del 1790), lo accusa di non conoscere la lingua greca che insegna, di essere «impudente e fanatico..., nemico di tutti ed anche di quelli dai quali suole desinare tutte le settimane», e di non perdonarla «a veruno, se non forse a quei che sono come lui nemici del Papa, di tutto il clero e di Roma». (36) Pio VI (il cesenate Braschi, succeduto a Ganganelli nel 1775), sostenendo che «conveniva lasciare una certa libertà ai letterati» su alcune questioni, lo scagiona. Amaduzzi si difende con una Rimostranza umile al trono pontificio che, su consiglio di amici pavesi, non affida alla stampa, ma invia come lettera privata a Pio VI.
Il documento richiama (anche se un po' confusamente) dottrine illuministiche sull'origine del potere politico, lette in chiave cattolica: predisposto da Dio «allo stato sociale», l'uomo obbedisce ad un capo voluto da Dio stesso come suo rappresentante; questo capo deve difendere gli uomini, ma se ciò non avviene, ognuno ha diritto di respingere gli attacchi altrui, però «senza turbare l'ordine sociale».
Amaduzzi vuole ribellarsi alla «cabala» ordita contro di lui da «alcuni falsi zelanti», e conferma la sua ortodossia, rifiutando l'etichetta di eretico che gli è stata appioppata. Egli sa che la sua posizione contro i «Loyolisti» è ben nota, e non soltanto a Roma.
«Nemico della bugia», come si definisce nella Rimostranza, con un carattere comune agli «uomini vivaci e liberi» della sua terra, Amaduzzi però non può ignorare che i rapporti con mons. Ricci ed i cosiddetti pensatori «pistoiesi» considerati giansenisti, lo potevano far sospettare di allontanamento dalla dottrina ufficiale di Roma. Per questo, rivendica la sua fedeltà alla linea della Chiesa. Diversa è la questione politica: se in questo campo ha sentimenti differenti da quelli del papa, tuttavia si dichiara convinto «che il Santo Padre non sarebbe giammai per farmene un delitto», perché l'uomo non può essere privato del diritto a ragionare.
La Rimostranza è inviata al papa il 18 settembre '90. Pio VI siede sul trono di Pietro da 15 anni. Tutto questo lungo periodo non ha cancellato le astiosità accumulatesi attorno alla figura di Amaduzzi, dopo la morte del suo protettore Clemente XIV, avvenuta il 22 settembre 1774. Quando papa Ganganelli soppresse l'ordine dei Gesuiti il 21 luglio 1773, Amaduzzi fu considerato l'ispiratore della «bolla» Dominus ac Redemptor con cui il provvedimento venne sancito.
L'«atleta dell'antigesuitismo», è stato definito il nostro abate per il suo gran daffare con i «pistoiesi». Le lettere che Amaduzzi scrive a Planco testimoniano che era addentro alle segrete cose. Aveva potuto dichiararsi sicuro dell'abolizione della Compagnia già nel '69, quando papa Ganganelli era afflitto ed angosciato sino all'insonnia per colpa dei «Loyolisti». Nel febbraio 1772, assicurava che il papa non dimostrava più incertezze. Nell'aprile 1773, annotava che il pontefice, «ilare e brillante», faceva trasparire «sicurezza e tranquillità». Pubblicata la «bolla», Amaduzzi il 7 agosto scrive a Planco che «finalmente si comincia a veder chiaro...».
Il 18 agosto 1794, Pio VI con la «bolla» Auctorem fidei condanna tutte le idee espresse da mons. Ricci. Amaduzzi è denunciato al papa: ha inviato uno scritto a Ricci, anche lui quindi deve essere punito. Pio VI lo assolve: quel testo era anteriore alla «bolla» pontificia, quindi l'abate è innocente. Nelle lettere a Ricci, Amaduzzi si è scagliato spesso contro la «corrutela», l'«anarchia ecclesiastica e politica» di Roma, fino a scrivere nell1786: «Quant'è mai dura la condizione dei nostri tempi. Le verità cattoliche debbono essere reputate eresia e le riforme debbono passare per innovazioni scandalose ed illecite». Con Ricci, Amaduzzi ha assunto il ruolo di 'talpa' in Vaticano, inviando a Pistoia notizie che poi Ricci passa agli Annali ecclesiastici di Firenze, organo dei cosiddetti giansenisti italiani che propugnavano una linea riformatrice, alla vigilia del grande sconvolgimento dell1789. Dopo gli eventi francesi, Amaduzzi osserva che «tutto il mondo è in combustione... Le cose peraltro sono così complicate che se uno piange l'altro non ride e v'è solo da sospirare per tutti».
Amareggiato, egli si ritira tra i suoi quattromila volumi che destina alla «Comunità di Savignano», con un testamento rogato dal notaio Bassetti il 19 gennaio 1792, due giorni prima di morire.

NOTE
(1) Planco chiama Pasini «egregio Adolescente» nelle lettera pubblicata al cap. V della Fungorum agri ariminensis historia di Battarra.
(1bis) Cfr. E. Codignola, Illuministi, giansenisti e giacobini nell'Italia del Settecento, La Nuova Italia, Firenze 1947, p. 51.
(2) Cfr. C. Tonini, La Coltura letteraria e scientifica in Rimini, Danesi, Rimini 1884, vol. II, p. 593.
(3) Ibidem, p. 594.
(4) Cfr. in G. Gasperoni, Settecento italiano (Contributo alla Storia della Cultura), I, L'ab. Giovanni Cristofaro Amaduzzi, Cedam, Padova 1941, p. 325. Nella dedica del discorso La Filosofia alleata della Religione, p. 3, Amaduzzi parla di una «sincerità inerente alla mia indole». Nel discorso Dell'indole della verità, dice di esser stato modellato dalla natura per la verità, e quindi di aver odiato doppiezza e menzogna (p. 5).
(5) Cfr. in G. Gasperoni, Settecento italiano, cit., p. 204.
(6) Il testo (finora inedito) della dedica del volume di Gargallo Montano, apparso nel 1780 (Elegia del padre Francesco Murena..., tradotta in terza rima...), che si trova nella Biblioteca della Rubiconia Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone, mi è stato segnalato da Carla Mazzotti, della stessa Biblioteca.
(7) Cfr. M. Rosa, Biografia di G. A. Battarra, in «Biografie e ritratti di Uomini Illustri di tutto lo Stato Pontificio - Serie romagnola», Hercolani, Forlì 1894, pp. 99-100.
(8) Cfr. il discorso Sul fine ed utilità delle Accademie, p. 12.
(9) Ibidem, p. 13. Sulla teoria della generazione dalla putredine, cfr. la Historia cit., pp. 3-4.
(10) Cfr. Due discorsi dell'Ab. Giovanni Antonio Battarra Professor Pubblico di Filosofia, e del Seminario nella città di Rimino sua Patria, fatti co' suoi Scolari, sopra la fabbrica del Porto di quella Città, tomo X degli «Opuscoli» del p. D. Angelo Calogerà, Venezia 1763, p. 460.
(11) Ibidem, p. 467.
(12) Ibidem, p. 459.
(12 bis) Cfr. Historia, cit. p. 17.
(13) Cfr. alle pp. 20-21.
(14) Cfr. G. P. Giovenardi, Dissertazione... sopra l'utilità dell'arte, o sia Scienza medica per bene esercitare l'Ufficio di Parroco specialmente in Campagna, recitata nell'Accademia dell'E.mo Sig. Cardinale Valenti Vescovo di Arimino la Sera de 2 Febraro 1761, Biblioteca Gambalunghiana di Rimini, ms. SC-MS 509, cit. da P. Meldini, Il medico di parrocchia, Giampaolo Giovenardi e il dibattito su scienza e sacerdozio nel Settecento, in AA. VV. «San Vito e Santa Giustina, contributi per la storia locale», a cura di C. Curradi, Maggioli, Rimini 1988, pp. 173-187. Giovenardi si era addottorato in Filosofia a Bologna. Divenuto parroco di San Vito (succedendo allo zio Gaudenzo), non cessò di tenere scuole gratuite dove trovavano posto Filosofia e Medicina (cfr. C. Tonini, La Coltura letteraria e scientifica in Rimini, cit., pp. 452-454).
(15) Cfr. p. 183 del cit. Meldini.
(16) Cfr. p. 184 del cit. Meldini.
(17) Nella parte 1ª abbiamo citato dalla Lettera Chillenio, p. 10: «...il corpo umano è una macchina Idraulica, com'è il Globo Terracqueo, e le vene e le arterie del corpo umano insieme col cuore sono come i Fiumi, e il Mare, su de' quali si fondano i Porti...».
(18) Cfr. in A. Piromalli, A. B. nella letteratura del Settecento, Olschki, Firenze 1959, p. 24. La lettera è del 6 dicembre 1775.
(19) Cfr. E. M. Luzzitelli, Ippolito Pindemonte e la 'fratellanza' con Aurelio de' Giorgi Bertola, Bastogi, Foggia 1987, p. 89. L'articolo di Amaduzzi (p. 108 delle Effemeridi), è a proposito delle polemiche successive alla biografia di Planco scritta da Bertola sulla Gazzetta Universale di Firenza, il 14 dicembre 1775. Amaduzzi prende le difese di Bertola.
(20) Ibidem, p. 27.
(21) Cfr. A. Piromalli, La storia della cultura, in «Storia di Rimini», V vol., Ghigi, Rimini 1981, p. 27.
(22) Cfr. p. 270 dell'ed. Silvestri, Milano 1817.
(23) Ibidem, p. 271.
(24) «L'Europa già più non le teme, l'Europa in cui le rivoluzioni ordinarie finanche sono oggi più rare assai, gagliarde assai meno, perché maggior semplicità nel principio delle costituzioni è rinchiusa; perché nelle forme sociali regna maggior perfezione; perché un franco e spedito maneggio di massime, tratte principalmente dalla sperienze molteplice de' secoli andati, è divenuto più familiare ad un tempo e più sistematico». Ibidem, p. 255. Osserva C. Tonini (cfr. La Coltura letteraria e scientifica in Rimini, cit., p. 400, nota 1), che «suol farsi carico al Bertola di aver sognato... un avvenire di placida e tranquilla felicità civile alla vigilia di quella grande catastrofe politica, che fu la Rivoluzione Francese». In questa previsione, Bertola non fu solo, ma «ebbe compagni altri grandi contemporanei». Infine, «quand'anche avesse in qualche guisa potuto sospettare quegli avvenimenti tanto straordinari, non crediamo che la prudenza gli potesse permettere di darne sentore».
(25) Lettera di Bertola dell'11 febbraio 1797: cfr in A. Piromalli, A. B. nella letteratura del Settecento, cit., p. 25.
(26) Ibidem, p. 26.
(27) Cfr. alla p. 91.
(28) Cfr. alle pp. 59-61.
(29) Paolo Paruta (1540-98), è autore di scritti politici e storici, ove trasferisce anche la sua esperienza di diplomatico (fu ambasciatore di Venezia a Roma, 1592-95). Nei Discorsi politici indagò le cause della grandezza e decadenza dei romani.
(30) Cfr. alla p. 21.
(31) Cfr. alla p. 269.
(32) Cfr. alla p. 271.
(33) Cfr. E. M. Luzzitelli, Ippolito Pindemonte, cit., p. 153.
(34) Cfr. alle pp. 17-21.
(35) Di seguito, le citazioni dai Discorsi sono indicate nel corso del testo, in parentesi quadra e numero romano relativo all'opera da cui esse sono riprese.
(35 bis) Cfr. la nota 34 in calce alla ristampa del primo Discorso, a cura di V. E. Giuntella, Palombi editori, 1992.
(36) L'edizione della Lettera consultata presso la Biblioteca Gambalunghiana (13. MISC. CIV. 41), appartenuta al Garampi (come attesta un timbro apposto a pag. XVI, l'ultima), reca in prima pagina sopra il titolo la scritta: «Viene attribuita all'Ab. Cuccagni». È forse l'edizione consultata da G. Gasperoni per il suo Settecento italiano? Recensendo il quale, E. Codignola (cfr. Illuministi, giansenisti e giacobini, cit., p. 272), scrive: «Non condivido la sicurezza del Gasperoni circa la paternità della Lettera...», datata Firenze 4 dicembre 1789, perché in quel periodo Cuccagni era a Roma.

Pagina aggiornata 06.08.2012, 15:01
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