Riministoria © Antonio Montanari / Archivio

I fratelli Amaduzzi 

L'Accademia ha recentemente arricchito la sua Biblioteca di una pregevole raccolta di documenti amaduzziani in due volumi. Il primo comprende 204 lettere a Monsieur l'Abbé François Marie Amaduzzi dans le College Insigne de Savignano, Roma 1766 - 1772. Il secondo contiene: 122 lettere allo stesso François Marie Amaduzzi, Roma 1772 - 1792; 30 lettere con copertina che reca: Piccola raccolta di lettere dell'ab. Giovanni Cristofano Amaduzzi scritte al di Lui fratello Giuseppe Antonio dimorante in Savignano loro Patria (1772-1782); e Panegirico e sette prefazioni fatte in tempo de' suoi studi: sono esercitazioni scolastiche svolte presso Iano Planco a Rimini.

Nato a Santa Maria di Fiumicino (Savignano), il 18 agosto 1740, Amaduzzi è indirizzato al Seminario di Rimini dallo zio paterno, don Giovanni, parroco del suo paese. A 15 anni, passa alla scuola di Iano Planco, dove studia Greco e Filosofia, materia nella quale, come lui confessa, si pone "con giovanile ardore a cozzare con gli ultimi avanzi dell'Aristotelico rancidume". Planco lo avvia a Roma, dove Amaduzzi trova un protettore ed amico nel cardinale santarcangiolese Lorenzo Ganganelli, il futuro Clemente XIV. Amaduzzi ha 22 anni, Ganganelli 57. Fra la visita ad un museo e la consultazione di una biblioteca, Amaduzzi ha anche tempo per allacciare rapporti con altri studiosi. Alle "conversazioni" di casa Ganganelli, incontra vari conterranei, tra cui l'abate Costantino Ruggeri (di Santarcangelo), soprintendente alla Stamperia di Propaganda Fide. L'amicizia con il cardinal Garampi, di cui frequenta la ricca biblioteca, gli sarà utile in futuro. Influenza su di lui esercita pure il sammaurese padre Agostino Giorgi, teologo antigesuita.

Dotato di un carattere vivace e battagliero, Amaduzzi per le sue idee politiche e religiose, nella Roma di Clemente XIII (1758-69) non ha vita facile. Agli occhi di molti lo rendono sospetto i rapporti che intrattiene con ecclesiastici chiamati giansenisti. La propensione da lui dimostrata verso i cambiamenti politici che in Francia sono sostenuti dagli scrittori illuministi, ne fa un personaggio pericoloso. Lo accusano infatti di essere indifferente ed eretico in materia di Religione.

Planco, ex allievo della Compagnia del Collegio di Rimini, è anch'egli contro i "Loyolisti": al suo pupillo Amaduzzi raccomanda di prender contatto con mons. Giovanni Bottari, considerato il capo degli antigesuiti. L'abate dà ascolto al dotto maestro. I rapporti fra Amaduzzi e Bottari saranno frequenti e cordiali. In casa Bottari, è spesso ospite mons. Scipione de' Ricci che nel 1780 viene nominato vescovo di Prato e Pistoia: con lui, Amaduzzi entrerà in una fitta corrispondenza.

La carriera di Amaduzzi, per quanto folgorante, nei suoi inizi è stata tuttavia in salita. Il suo ingresso nella Stamperia di Propaganda Fide, avviene per gradi: dopo essere stato fatto lettore di Greco alla Sapienza nel '69, l'anno dopo finalmente viene nominato da Clemente XIV soprintendente alla Stamperia, al posto di Costantino Ruggeri, contro il parere del Prefetto di Propaganda Fide, cardinal Castelli. Amaduzzi non piace a Castelli, che lo ritiene antigesuita. In base a tale opinione, Castelli ha già respinto un precedente intervento a favore dell'abate, fatto da papa Ganganelli.

Lo stipendio di Amaduzzi è misero, ma lui dice di preferire quella vita modesta, piuttosto che un trasferimento alla corte antigesuitica di Napoli, dove è stato invitato. Non se ne va anche per privare i suoi "emuli del godimento della mia partenza da una città ove si teme qualche poco la bontà e l'invariabilità delle mie massime e de' miei portamenti".

Cura articoli per riviste, anche se a malincuore, perché (come confida) sulle gazzette non si può disgustare nessuno. In Arcadia, pronuncia discorsi che fanno scandalo. Nel '76, esalta Galileo e considera la Filosofia rivolta a togliere i pregiudizi nella conoscenza. Nel '78, sostiene che la Filosofia deve essere "alleata della Religione": la ragione insegna a dubitare e ad assicurare, scopre le forze della natura ed i suoi arcani. La fede comanda "di sottomettersi" a ciò che la ragione non sa spiegare. La ragione ha liberato la Religione dalla superstizione e dall'ignoranza, ed ha mostrato il bisogno che l'uomo ha della stessa fede.

Mentre cresce la sua fama nel mondo letterario italiano come erudito e pensatore illuminato, gli ambienti conservatori gli si mostrano ostili. L'abate Luigi Cuccagni di Città di Castello, in una Lettera anonima a stampa, lo accusa di non conoscere la lingua greca che insegna, di essere "impudente e fanatico…, nemico di tutti ed anche di quelli dai quali suole desinare tutte le settimane", e di non perdonarla "a veruno, se non forse a quei che sono come lui nemici del Papa, di tutto il clero e di Roma". Pio VI (il cesenate Braschi, succeduto a Ganganelli nel '75), sostenendo che "conveniva lasciare una certa libertà ai letterati" su alcune questioni, lo scagiona. Amaduzzi si difende con una Rimostranza umile al trono pontificio che, su consiglio di amici pavesi, non affida alla stampa, ma invia come lettera privata a Pio VI.

Il documento richiama (anche se un po' confusamente) dottrine illuministiche sull'origine del potere politico, lette in chiave cattolica: predisposto da Dio "allo stato sociale", l'uomo obbedisce ad un capo voluto da Dio stesso come suo rappresentante; questo capo deve difendere gli uomini, ma se ciò non avviene, ognuno ha diritto di respingere gli attacchi altrui, però "senza turbare l'ordine sociale".

Amaduzzi vuole ribellarsi alla "cabala" ordita contro di lui da "alcuni falsi zelanti", e conferma la sua ortodossia, rifiutando l'etichetta di eretico che gli è stata appioppata. Egli sa che la sua posizione contro i "Loyolisti" è ben nota, e non soltanto a Roma. Giudica "infelice" il pontificato filogesuita di Clemente XIII. Per proteggere la Compagnia, il papa si è scontrato con i sovrani: "A questo impegno egli associava talento e sveltezza… ed anche cabala ed intrigo che aveva appreso nelle scuole gesuitiche e nella Curia romana".

"Nemico della bugia", come si definisce nella Rimostranza, con un carattere comune agli "uomini vivaci e liberi" della sua terra, Amaduzzi però non può ignorare che i rapporti con mons. Ricci ed i cosiddetti pensatori "pistoiesi" considerati giansenisti, lo potevano far sospettare di allontanamento dalla dottrina ufficiale di Roma. Per questo, rivendica la sua fedeltà alla linea della Chiesa. Diversa è la questione politica: se in questo campo ha sentimenti differenti da quelli del papa, tuttavia si dichiara convinto "che il Santo Padre non sarebbe giammai per farmene un delitto", perché l'uomo non può essere privato del diritto a ragionare.

La Rimostranza è inviata al papa il 18 settembre '90. Pio VI siede sul trono di Pietro da 15 anni. Tutto questo lungo periodo non ha cancellato le astiosità accumulatesi attorno alla figura di Amaduzzi, dopo la morte del suo protettore Clemente XIV, avvenuta il 22 settembre '74. Quando papa Ganganelli soppresse l'ordine dei Gesuiti il 21 luglio '73, Amaduzzi fu considerato l'ispiratore della "bolla" Dominus ac Redemptor con cui il provvedimento venne sancito.

L'"atleta dell'antigesuitismo", è stato definito il nostro abate per il suo gran daffare con i "pistoiesi". Le lettere che Amaduzzi scrive a Planco testimoniano che era addentro alle segrete cose. Aveva potuto dichiararsi sicuro dell'abolizione della Compagnia già nel '69, quando papa Ganganelli era afflitto ed angosciato sino all'insonnia per colpa dei "Loyolisti". Nel febbraio '72, assicurava che il papa non dimostrava più incertezze. Nell'aprile '73, annotava che il pontefice, "ilare e brillante", faceva trasparire "sicurezza e tranquillità". Pubblicata la "bolla", Amaduzzi il 7 agosto scrive a Planco che "finalmente si comincia a veder chiaro…".

Il 18 agosto 1794, Pio VI con la "bolla" Auctorem fidei condanna tutte le idee espresse da mons. Ricci. Amaduzzi è denunciato al papa: ha infatti inviato uno scritto a Ricci, anche lui quindi deve essere punito. Pio VI lo assolve: quel testo era anteriore alla "bolla" pontificia, quindi l'abate è innocente. Nelle lettere a Ricci, Amaduzzi si è scagliato spesso contro la "corrutela", l'"anarchia ecclesiastica e politica" di Roma, fino a scrivere nell'86: "Quant'è mai dura la condizione dei nostri tempi. Le verità cattoliche debbono essere reputate eresia e le riforme debbono passare per innovazioni scandalose ed illecite". Con Ricci, Amaduzzi ha assunto il ruolo di ‘talpa’ in Vaticano, inviando a Pistoia notizie che poi Ricci passa agli Annali ecclesiastici di Firenze, organo dei cosiddetti giansenisti italiani che propugnavano una linea riformatrice, alla vigilia del grande sconvolgimento dell'89. Dopo gli eventi francesi, Amaduzzi osserva che "tutto il mondo è in combustione… Le cose peraltro sono così complicate che se uno piange l'altro non ride e v'è solo da sospirare per tutti".

Amareggiato, egli si ritira tra i suoi quattromila volumi che destina alla "Comunità di Savignano", con un testamento rogato dal notaio Bassetti il 19 gennaio 1792, due giorni prima di morire. Amaduzzi ha raccolto non soltanto libri, ma anche manoscritti, epistolari, ritratti, incisioni. Tutto questo materiale viene trasportato a Savignano, sotto la sorveglianza del canonico Angelo Battaglini e dell'abate Fabrizio Zanotti, fra l'aprile e l'ottobre dello stesso anno.

Antonio Montanari

autore di "Lumi di Romagna"

per bollettino Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone

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