Pino Blasone

 

 

Il canto delle Sirene,

o le voci di dentro

 

Paul Delvaux, Étude pour les grandes sirènes, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique

 

I mostri sapienti

 

Le Sirene stanno a Ulisse, un po’ come il Minotauro a Teseo. A maggior ragione, esse stanno a Ulisse come la Sfinge a Edipo. In particolare, sia la Sfinge sia le Sirene sono depositarie di un sapere. Il sapere della Sfinge è sapienziale ed enigmatico per antonomasia. Mentre quello del Minotauro era fatto di mura, il suo è un labirinto verbale. Da questo è illusorio evadere, perché esso riflette la ciclica ricorrenza dei ritmi della natura e insieme presuppone una cieca fatalità. Una doppia azione determina e limita la realizzazione individuale, quasi una variabile che si collochi all’intersezione fra tali coordinate. Quale ci viene presentato da Sofocle e da Seneca – assai più tardi, perfino da Freud –, il dramma di Edipo somiglia a un teorema o a un sillogismo. Per Edipo a Colono come per Socrate ad Atene, solo la morte può rappresentare una via d’uscita reale.

In effetti, il proverbiale “Conosci te stesso” collega intimamente il personaggio Edipo alla persona di Socrate. Il sapere suggerito o ammonito dalla Sfinge tebana è presa di coscienza dei propri limiti invalicabili. Ma è anche, almeno nel suo sviluppo socratico, “sapere di non sapere”, premessa metodica a ogni conoscenza attendibile di sé e del mondo. Essa è prefigurazione della consapevolezza di una dimensione inconscia (o noumenica), che fa da sfondo e da cornice – sia pure indefinitamente dilatabile – alle conoscenze umane. La “metafisica” socratica sembra consistere essenzialmente in ciò, ben al di qua di quella che sarà la costruzione metafisica aristotelica. Con tutti i mutatis mutandis del caso, per quanto riguarda la conoscenza di un sé individuale e collettivo, essa precorre semmai la moderna “metapsicologia” di un Sigmund Freud.

Di che tipo è, invece, il sapere delle Sirene? Indubbiamente, in esso c’è un aspetto che sarà platonico, nel senso che conoscere è soprattutto ricordare. Tale aspetto è però interpretabile in senso psicoanalitico, dal momento che quella reminiscenza riguarda soprattutto i contenuti rimossi dalla coscienza. Infatti, nel loro omerico canto rivolto a Ulisse, le Sirene affermano di sapere tutto “quanto accade sulla terra che nutre tanta gente”. Ma ciò che effettivamente promettono di narrare è “tutto quello che nell'ampia piana di Troia patirono Argivi e Troiani per volere degli dei”.[1] Cioè, nulla più di quanto è già nella memoria dell’eroe, compresi i ricordi apparentemente dimenticati – e probabilmente non pochi rimorsi – di quella terribile guerra. Ingannevoli nella loro rovinosa seduzione, i canori mostri altro non sono che le voci di dentro persecutorie dello stesso Ulisse.

Del resto in parte anche la Sfinge lo era stata per Edipo, così strettamente la sua immagine viene ad associarsi all’uccisione di Laio da parte del protagonista, e a ciò di tremendo che ne consegue. L’uccisione del padre da parte dell’eroe era stata inconsapevole, in quanto tale. Essa restava pur sempre un delitto per futili motivi. Solo gradualmente se non del tutto a posteriori, la Sfinge si carica di sensi di colpa e di relative associazioni mentali nell’animo di Edipo, finché il loro peso diventa insostenibile. Intanto, la Sfinge stessa assume valenza simbolica di coscienza aurorale o addirittura anticipante. Nelle Fenicie di Seneca, si assiste alla riunificazione del simbolo con la coscienza che lo ha prodotto: “Là piace ritrarmi a morire, dove sedette la Sfinge su un’alta rupe, imbastendo tranelli con la bocca di mezza belva. Là guida il corso dei miei passi, fa’ che tuo padre si arresti. Affinché non rimanga vacante la triste sede, ivi colloca un mostro maggiore. Sedendo su quella roccia, declamerò parole oscure sulla mia sorte, di cui nessuno sappia venire a capo”.[2]

Queste parole per niente oscure, anzi rivelatrici, vengono rivolte da Edipo alla figlia Antigone. Ma torniamo a Ulisse sulla sua nave. Una interpretazione psicoanalitica che si rispetti non può mancare della componente sessuale. Né si può negare che la scena del navigante legato all’albero spoglio della vela, mentre ascolta al sicuro il canto infido delle Sirene, offra un vago esempio di simbologia fallica masturbatoria. Tale suggestione fa da pendant con l’assicurazione omerica sulla verginità delle Sirene (vergine era pure la Sfinge, a detta di Sofocle e di Seneca). Il quadro che si delinea è di una sessualità frigida o perversa, lontano dalle fantasie erotiche posteriori che si imbastiranno sulle Sirene. Questa negatività solitaria ben si accorda con sensi di colpa e rimorsi che perseguitino il reduce, fuori dalle braccia delle sue Calipso o delle sue Circi.

Ed è la maga Circe, una che di sesso si intende, ad avvertire Ulisse su come comportarsi con le rivali sospette di antropofagia. Né mancherà chi accenni una malinconica riflessione sull’argomento. Questo qualcuno è Socrate, nel Cratilo platonico. Egli insinua che nemmeno le Sirene siano sfuggite, “così come tutti gli altri”, a un provvidenziale istinto di morte.[3] Socrate o Platone che sia, il filosofo allude a un’intima debolezza delle Sirene, che Circe deve aver intuito. Metafora di una coscienza che non sa svincolarsi dall’inconscio se non a costo di gravi sacrifici e menomazioni, le incantatrici sarebbero cadute vittime di un superiore incantesimo, o forse della presunzione di essere immuni da umane debolezze. Che Circe avesse letto Il disagio della civiltà?

A ogni modo, dal bestiale Minotauro all’ibrida Sfinge e alle ambigue Sirene, si ha un progresso “mostruoso” per il meglio. Così pure della significazione, dagli echi del labirinto agli enigmi in versi e al canto ammaliatore o rammemorante. Se si volesse insistere nella simulazione freudiana, potremmo insinuare che dai muggiti del profondo Es si è passati agli indovinelli di un Io contrastato, e poi alle voci inibitorie di un Super-Io interiorizzato: i primi passi incerti di un inconscio sociale, quello della civiltà occidentale, nei rapporti fra individui e proiezione culturale di se stessa. Mitico o epico, all’origine resta purtroppo un conflitto. Le Sirene non promettono di narrare solo i ricordi di Ulisse, bensì la materia dell’Iliade. Esse sono la cripto-firma di Omero.

 

Letture di tenore filosofico

 

A questo punto scendiamo su un terreno oggettivo, o preteso tale: quello della storia della cultura, tutt’al più della filosofia della Storia. Già nell’antichità ci si interrogava, anche oziosamente come attesta Svetonio, sul canto e la musica delle Sirene. È il greco Plutarco, nelle sue Questioni conviviali, ad accreditare la tesi platonizzante di un loro potere rammemorante. Tale effetto non è esente da rischi, per l’uomo dall’animo occupato da ansie nascoste o da inclinazioni volgari. Ma esso può essere positivo per un soggetto predisposto all’elevazione spirituale (va da sé che Ulisse sia più vicino alla seconda condizione). Tutto ciò, a tal punto da far accostare se non assimilare le inquietanti Sirene alle divine Muse.[4] Sulla scorta di suggestioni pitagoriche e del mito di Er nella Repubblica di Platone, dove le Sirene sono associate alle fatali Parche, il neopitagorico Giamblico e il neoplatonico Proclo affideranno loro la cura della cosmica “armonia delle sfere”.

In Sui confini del bene e del male il latino Cicerone approfitta dell’interrogativo per riscattare la figura di Ulisse, varando un nuovo mito destinato a incontrare fortuna, quello dell’eroe assetato di conoscenza: Vidit Homerus probari fabulam non posse, si cantiunculis tantus irretitus vir teneretur; scientiam pollicentur, quam non erat mirum sapientiae cupido patria esse cariorem. (“Si accorse Omero che la leggenda non sarebbe stata degna di approvazione, se si fosse ritenuto che un tale uomo venisse irretito da banali canzoni. No, la promessa era quella della conoscenza. Né deve destare meraviglia che ciò riuscisse più caro della stessa patria a uno desideroso di sapere”).[5]

L’Ulisse di Cicerone ispirerà quello dell’Inferno dantesco, dannato per i suoi astuti inganni non meno che per la sua profana e moderna curiosità di scoperta. In epoca cristiana, nemmeno le Sirene e il loro magico canto godono di buona fama. Per vari convergenti motivi e con una punta di misoginia, Giustino Martire, Clemente Alessandrino, Ippolito di Roma e altri le demonizzano o le trattano da meretrici. Neppure il frequente accostamento, o una pretesa competizione, con le artistiche Muse può ormai giovare loro. Così recita l’allegoria della Filosofia, in La consolazione della filosofia di Severino Boezio: “Via, o Sirene, esiziali dolcezze. Lasciate piuttosto a me curare e guarire costui, con le mie arti”.[6] Presto, questa filosofia diverrà però ancella della teologia.

Ci vorranno secoli, prima che le Sirene tornino a farsi ascoltare o a esercitare una seduzione in campo filosofico. Poi, ciò accade in maniera improvvisa e lucida, come non di rado in certi casi. “Il dodicesimo canto dell’Odissea narra del passaggio davanti alle Sirene. La tentazione che esse rappresentano è quella di perdersi nel passato”: ecco come l’argomento viene introdotto in Dialettica dell’illuminismo, da Max Horkheimer e Theodor W. Adorno.[7] Siamo intorno al 1944, periodo in cui si è consumata o sta per completarsi una frattura col passato di entità pari forse solo a quella avutasi in epoca omerica. La poesia omerica rifletteva la transizione dalla preistoria alla Storia, dalla mitologia all’epica. Adesso, un rischio di fine di quella Storia è diventato realistico.

Il passato, almeno quello più o meno recente, si carica di sospetto. È un passato da cui prendere le distanze, sia pure in maniera critica che ne implichi la conoscenza, ma con quel distacco che neghi l’adesione a esso nonché eventuali condivisioni di responsabilità. L’Ulisse di Adorno e Horkheimer è in fuga tanto dalle Sirene quanto dai propri trascorsi che esse gli evocano, quelli della guerra di Troia. Tuttavia, per fare ciò, egli non sa o non può rinunciare al potere della propria astuzia. Ancor più che astuzia, è un trucco della ragione: “In un racconto omerico è custodito il nesso di mito, dominio e lavoro”. Tale è la condizione di privilegio, che consenta di conseguire un distacco e una consapevolezza storica a un tempo, i quali ad altri sono prevalentemente negati.

L’espediente di farsi legare all’albero della nave per ascoltare senza pericolo letale, mentre i marinai remano con le orecchie turate dalla cera, acquista così una valenza metaforica estesa all’intera società. E non ci sono dubbi che qui si tratti della società contemporanea, ancor più che di quella dell’età di Omero. Nonostante i suoi presunti sensi di colpa, in ultima analisi Ulisse è un passato che sopravvive a se stesso, grazie alla razionalizzazione di opportuni aggiornamenti.La nostalgia di Itaca può tornare a prendere il sopravvento, ora che i conti con la conoscenza e con la coscienza sembrano regolati una volta per tutte. Quanto alle Sirene, allontanandosi, esse perdono consistenza etica. In compenso, recuperano o acquistano quel fascino estetico che le renderà celebri.

Sta di fatto, le fate alate pongono per prime il problema dei rapporti con la Storia. Memoria artificiale e fondamento di un sé collettivo, essa può rappresentare un bene rifugio per una individualità e una società statiche o conservatrici; un serbatoio di potenzialità da investire in vista dell’avvenire, per una civiltà dinamica e progressiva, purché con senso critico. L’invenzione della Storia lo è di una soggettività dilatabile nel tempo oltre che nello spazio, benché strumentalmente manipolabile. Contaminate nell’aspetto, ammansite ma mai domate, le Sirene tornano comunque in primo piano dai racconti fantastici, dalla poesia lirica, dal melodramma dov’erano confinate e si erano mimetizzate. Più letteraria e incentrata su Ulisse è l’interpretazione di Maurice Blanchot.[8]

In Le chant des Sirènes, primo capitolo di Le livre à venir, Blanchot paragona l’omerico Ulisse a Orfeo, quale personaggio del poema ellenistico Argonautiche di Apollonio Rodio. Entrambi incontrano e sfidano le Sirene, prevalendo sul loro maleficio. Ma Orfeo vi riesce non grazie a qualche sotterfugio della ragione, bensì scendendo in campo aperto, sullo stesso terreno della musica e del canto. Se c’è una dimensione in cui l’uomo può misurarsi con successo duraturo, con le forze a volte avverse della natura e del destino, essa è quella artistica e letteraria. In tale ambito, lo scontro si rivela un confronto vantaggioso a lungo termine, perché arricchisce sempre chi ne divenga attore e fruitore. A differenza di Ulisse, Orfeo ha ascoltato e assimilato fino in fondo il canto delle Sirene. Lui sì potrebbe magari dirci “che cosa le Sirene siano solite cantare”.[9]

Diversamente dal pratico Ulisse, in un noto mito Orfeo tenterà l’intentabile. Egli impiegherà anche la lezione strappata alle Sirene, per cercare di aggirare la morte e riportare in vita la sua Euridice. Non solo amore per la conoscenza, dunque, ma amore tout court. Sulla scia di Blanchot, al sottile legame fra Euridice e le Sirene in Il pensiero del di fuori Michel Foucault ha dedicato un intero capitoletto, per concludere subito dopo: “Tendere l’orecchio verso la voce argentata delle Sirene, rivoltarsi verso il volto proibito che già si è sottratto alla vista, non è soltanto infrangere la legge per affrontare la morte, non è soltanto abbandonare il mondo e la distrazione dell’apparenza, è sentire improvvisamente crescere in sé il deserto nel quale, all’altra estremità […] balena un linguaggio senza l’assegnazione di un soggetto, una legge senza Dio, un pronome personale senza personaggio, un volto senza espressione e senza occhi, un altro che è il medesimo”.[10]

 

Il silenzio, letterario, delle Sirene

 

Sul momento lo scampato Ulisse pare più che altro interessato al presente, proiettato verso un futuro da ricostruire, preoccupato di un passato paralizzante o imbarazzante. E le narratrici omeriche hanno assolto il loro compito di conversione all’epica, forma precoce di storicizzazione, a  compimento di una tradizione orale affabulante ampiamente femminile. Ma esse lasciano in sospeso quel residuo arcaico, che è il loro stesso mito. Adorno e Horkheimer così commentano: “L’epos non dice che cosa accade alle cantatrici dopo che la nave di Odisseo è scomparsa. Ma nella tragedia sarebbe stata certo la loro ultima ora, come per la Sfinge quando Edipo risolve l’indovinello, eseguendo il suo ordine e così rovesciandola”. In effetti il poeta Licofrone, il geografo Strabone e il mitografo Igino ci informano su un loro suicidio o inabissamento, a causa dello scacco subìto.

Nell’apologo Il silenzio delle Sirene, è Franz Kafka a fornirci una risposta alternativa sul loro destino. Esse sarebbero state ridotte al silenzio. Anzi, l’autore insinua che abbiano sempre taciuto. Tuttavia, l’astuzia “puerile” di Ulisse fu tale, da lasciare loro lo spazio di cantare nella propria immaginazione. Si può aggiungere quanto implicito nella narrazione di Kafka. Che quello spazio si sia talmente ridotto in epoca moderna, da non permettere più di esprimersi alle voci dell’inconscio personale – in questo caso, attendibilmente comunicante con uno naturale –, se non in maniera remota, deformata e confusa. Oggi come oggi, quel silenzio sarebbe pressoché totale. E “le Sirene hanno un’arma ancora più terribile del canto, cioè il loro silenzio”. Per fortuna, l’ironia kafkiana lascia aperto uno spiraglio, tramite la morale di una pensosa didascalia: “Dimostrazione del fatto che anche mezzi inadeguati, persino puerili, possono contribuire alla salvezza”.[11]

Il tema del silenzio delle Sirene viene ripreso e sviluppato da Maria Corti, nel racconto Il silenzio della sirena, compreso nella raccolta Il canto delle sirene. Ma qui l’ambientazione è spostata nel Medioevo, nel Sud d’Italia, dalle parti di Otranto. Il giovane pittore Basilio prende il posto di Ulisse o di Orfeo, in quanto protagonista maschile. Allora, le Sirene non erano ancora scomparse dalla fantasia popolare, specialmente in una terra e su un mare che erano stati Magna Grecia. E Basilio se ne fa un’idea personale: “le sirene invece di scomparire dalla storia umana davano luogo a frequenti apparizioni, ritorni qua e là nel corso dei secoli; niente meraviglia che figurassero in capitelli, in libri di poesia, nelle prediche, di volta in volta con diversa natura”.[12]

Pian piano, l’idea diventa una magnifica ossessione. Basilio dipinge Sirene, si mette sulle loro tracce sperando – e temendo – di essere fra gli eletti cui esse accordino le loro apparizioni, crede di avvertirne la misteriosa presenza durante i suoi tragitti sul mare intorno a Otranto, si pone in ascolto del loro canto. Ciò che ottiene è solo un profondo, panico silenzio. In parte, è però questo silenzio a ispirare quello che egli ritiene il suo capolavoro: un sacro dipinto di Santa Sofia, la divina sapienza raffigurata secondo la tradizione dell’iconografia bizantina. È qui evidente, da parte della narratrice e filologa, un recupero dell’idealizzazione pitagorico-platonica delle Sirene, ma anche del loro pathos “esiziale”. Infatti, a differenza di Ulisse, Basilio perirà nel naufragio della sua barca.

Ma poi, alla fin fine, Ulisse si era salvato davvero? In un altro racconto della stessa raccolta, Cronaca di antiche seduzioni, la Corti ci disillude in merito, con un volo pindarico ricollegando il tardo Ulisse di Dante a quello originario di Omero. Più la complicità di un pizzico della “noia” di Pascal e di Leopardi, motore nascosto di non poche grandi imprese. Ed è la rivincita delle Sirene, estrema e inesorabile: “è legge di natura che fra le inesauribili esperienze che hanno riempito la vita di ciascuno ve ne sia una che s’impone su tutte le altre. Per lui fu il lontano meriggio in cui, legato all’albero maestro, udì la voce della sirena. Gli accadeva nella sua Itaca come se la udisse ancora con la stessa misteriosa forza direttiva. Fu dunque cosa naturale che egli riprendesse il mare; e il naufragio al di là delle Colonne d’Ercole fu il capolavoro delle sirene, creato a lunga distanza”.[13]

 

Umanità e animalità delle Sirene

 

Presumibilmente, il trattato migliore di Michel Foucault resta Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane. La prefazione prende le mosse da una citazione da L’idioma analitico di John Wilkins, in Altre Inquisizioni di Jorge Luis Borges. Si tratta di una singolare – a dir poco – classificazione, che il narratore argentino asserisce di aver desunto da “una certa enciclopedia cinese”: “gli animali si dividono in: a) appartenenti all'imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini da latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et caetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche”.[14]

Per inciso, sarebbe da capire perché Foucault abbia sostituito “che fanno l’amore” all’originale “che hanno rotto il vaso”. Può darsi, ma ne dubitiamo, che in cinese le due espressioni siano legate da un doppio senso. Ancor meno credibile, che il filosofo francese si sia lasciato scoraggiare da un risibile nonsenso nel nonsenso. Rimane in piedi la congettura di un lapsus ammiccante. A ogni modo il problema, evidenziato per assurdo dalla parodia, è che il senso di una generalizzazione dipende dal contesto e dalle motivazioni. All’addetto ai censimenti in un paese remoto nello spazio e nel tempo, al limite la catalogazione di cui sopra sarebbe apparsa meno scriteriata e arbitraria. Omologazioni ben più raffinate, aggiornate, tendenziose, possono diffondere deduzioni errate. Tanto ci autorizza a calarci, per un attimo, nel punto di vista delle Sirene.

Sorvoliamo sul dettaglio della lettera iniziale minuscola. Nell’ordine della sequenza in questione, l’accostamento delle “sirene” con degli esseri “favolosi” può anche funzionare. Meno lusinghiera e convincente suona la generalizzazione “animali”. Ciò significherebbe esorcizzare, imbalsamare o ridurre a mera apparenza la componente umana pure presente, anzi costitutiva di esseri favolosi quali le Sirene. Ma un non esistente, che si finga animale e perfino umano, sarebbe il massimo inganno. Toccherebbe ammettere un nulla che giochi a mascherarsi, per meglio adescarci, magari speculando sulla nostra sete di assoluto come per il povero pittore Basilio di Maria Corti.

Viceversa sussiste l’ipotesi che le Sirene, tanto più in quanto non esistenti, non intendano ingannare nessuno, a partire da Ulisse e da Orfeo. Esse sarebbero immagini speculari tanto dell’umanità quanto dell’animalità che sono in noi, in proporzioni da definirsi. E concediamo che sia in Ulisse sia in Orfeo l’umanità abbia prevalso, nonostante sovrapposizioni mitiche successive che – proprio o anche per questo – li danno come perdenti. Quello che essi hanno proiettato e intravisto nello specchio sono rispettivamente la Storia e l’arte: costruzioni tipicamente umane ma tali da non resistere a lungo all’inconsistenza e all’annullamento, qualora illuse di potersi sganciare dall’animalità che le ha generate, che continua a costituirne un alimento eppure il rischio di fondo.

 

Io narrante e sé narrativo

 

Se si considera attendibile l’interpretazione del canto delle Sirene come “voci di dentro” del protagonista dell’Odissea, l’episodio omerico di Ulisse e delle Sirene viene a essere il primo tentativo di rappresentare un sé inconscio, nella storia delle letterature occidentali. Come altrimenti nei sogni, quest’inconscio viene proiettato all’esterno, oggettivato e in qualche misura sublimato, nelle figure delle vergini alate e nel suono delle loro magiche voci. Ma va notato che solo in parte l’io narrante interpretato da Ulisse coincide col sé narrato, per giunta in maniera così obliqua. Circa metà dell’accaduto è raccontato in prima persona dal naufrago ad Alcinoo re dei Feaci, e alla sua corte. Per l’altra metà, il narratore riferisce parole a suo tempo a lui dirette da Circe, che prefigurano il pericolo costituito dai mostri canori e impartiscono consigli su come affrontarlo ed evitarlo.

A sua volta, Ulisse racconta di aver riferito le parole di Circe ai meno fortunati compagni, i quali si sono attenuti alle direttive conseguenti. Quanto veniamo a sapere del canto delle Sirene è filtrato attraverso una pluralità frammentaria di testimonianze, in modo tale che per ricomporlo siamo rimandati da un soggetto all’altro. Ci riesce difficile giungere a una fonte unitaria, identificabile con la coscienza dell’eroe. Una verità probabile è che il gioco dissimulante non sia un puro virtuosismo letterario. Esso è piuttosto motivato dal fatto che in nessun punto del poema, come in questo caso, la percezione da parte di un personaggio collima con la coscienza del poeta. Ulisse e Omero si sovrappongono, quasi si identificano. D’altronde, è un passo in cui l’epica riflette su se stessa e si mostra in trasparenza. Così facendo, essa si trascende. In effetti, il canto delle Sirene sembra anticipare il coro della tragedia, nelle sue espressioni migliori e formalmente impersonali.

Parafrasando il pensatore a noi contemporaneo Paul Ricoeur, in Temps et récit, assistiamo alla nascita di un “sé narrativo”, che si lasci alle spalle ogni dichiarato io narrante o, meglio, che lo riassorba nella dimensione di una soggettività diffusa e indeterminata. L’Ulisse del canto delle Sirene potrebbe essere uno di noi, se non ciascuno di noi. Le Sirene stesse cantano una canzone, che può risultare familiare e insieme sconcertante. Una seduzione sta nella loro promessa di rinsaldare la coerenza dei nostri io, fondandoli nella memoria e integrandoli nella Storia, al riparo da forze centrifughe e dissolutrici. Inquietante sarebbe il loro dare i rispettivi sé come narrati una volta per tutte, incapaci di alterazioni e ulteriori sviluppi, irrigiditi in una sorta di ripetitiva oggettività.

Questa severa visione delle Sirene ne smentisce la fama erotica. Essa concorda con un’antica tradizione, che le favoleggia mutate in mostri dalla dea dell’amore Afrodite, per punirle di un ostinato attaccamento alla propria castità. Pur volendo rispettare tale impostazione, permangono argomenti validi per sostenere la tesi opposta. Proprio per il carattere inquietante, la vocazione rammemorante delle Sirene funge da stimolo a un ripensamento dinamico della propria identità, se non altro per antitesi rispetto a errori o orrori del passato. Se Ulisse avesse prestato un po’ più ascolto alle sue voci di dentro, indulgendo all’esame di coscienza da esse suggerito, forse si sarebbe liberato da residui arcaismi eroici. Reduce infine a Itaca, si sarebbe astenuto da nuove vendette e stragi, questa volta fra le pareti domestiche. Ciò, almeno nei limiti del superfluo o del gratuito. Ma non si può pretendere troppo da un archetipo, né attribuire un’eccessiva saggezza all’inconscio.

 

Il piccolo Ulisse di Delvaux

 

A partire dal Medioevo, l’iconografia relativa alle Sirene ha subito una nota trasformazione influenzata dalle leggende del Nord-Europa: da  donne-uccelli a donne-pesci. In via eccezionale, esse sono raffigurate come semplici donne; ad esempio da parte di Paul Delvaux, pittore belga surrealista specialmente attratto dal tema, da lui attualizzato in una dimensione onirica. Ciò non toglie che il pittore abbia dipinto Sirene nella forma tradizionale tarda, con busto di donna e lunga coda di pesce, come La sirène au clair de lune del 1940 e La sirène del 1949, ambientate in paesaggi notturni urbani o portuali. Il mare accennato o suggerito sullo sfondo è facile metafora di un grande inconscio, da cui tutto proceda e in cui tutto rifluisca. In qualche misura le Sirene più umanizzate di Delvaux, mediatrici silenziose ed enigmatiche, richiamano quelle letterarie di Kafka.

In particolare, conviene concentrarsi su Le village des sirènes del 1942 e Les grandes sirènes del 1947.[15] La prima è una scena diurna, ben poco solare. In primo piano e oltre, le Sirene stanno sedute davanti a porte e facciate di case basse, schierate ai due lati e rivolte verso la via di un villaggio. I loro occhi sono spalancati e lo sguardo è perso nel vuoto. Le mani sono congiunte sul grembo di vestiti scuri, lunghi e accollati. Esse somigliano vagamente a vedove di guerra. In effetti, l’opera fu composta dall’autore durante il secondo conflitto mondiale. Il mare visibile in fondo alla strada tortuosa è grigio, sovrastato da una brulla scogliera e dal cielo livido. Anziché di vitalità o erotismo, un senso di sterilità e angoscia fa pensare alla versione più arcaica del mito originario.

Con riferimento al quadro del 1947, la catastrofe bellica è ormai trascorsa. La sensualità congeniale a Delvaux riaffiora e si impone nella seminudità delle nuove Sirene, quasi risvegliate da una cupa realtà eppure ancora attonite. L’artista può tornare al sogno, e alle atmosfere lunari, fuori dal lungo incubo a occhi aperti. Gli occhi delle amabili signorine ingioiellate sono sbarrati. Ma le loro mani poggiate sui grembi si sollevano e in qualche caso accennano gesti automatici, come in cerca di significati superstiti da proporre. Alcune di esse sono sedute in sequenza. Altre si sono levate in piedi e provano perfino un passo di danza. Una di loro, eretta, ha una mano alzata sotto il mento, in atteggiamento pensoso e perplesso. Una incertezza della composizione è attestata dal fatto che l’ultima figura, in uno studio preparatorio ora al Museo Reale di Belle Arti di Bruxelles, era interamente vestita. Il paesaggio è diventato neoclassico, fra pose statuarie e templi in stile dorico.

Se si confrontano i due quadri fra loro e con la tradizione del mito, colpisce l’ambiguità simbolica delle Sirene in essi modernamente riproposta. Severe o gaie, inquietanti o seducenti secondo aspetti e momenti, contemporaneamente fuori del tempo e testimoni del proprio tempo, esse occupano un crocevia tra Natura e Storia. Altro fattore sconcertante è la loro ripetitiva pluralità, cioè una serialità non priva di possibili significati traslati. Convinta di essersi sganciata dalla servitù alla ciclica ricorrenza dei ritmi naturali, l’umanità è scivolata in una coazione a ripetere più insidiosa: quella di eventi storici, che anzi si sviluppano in un crescendo negativo degli effetti da essi prodotti. Quasi si direbbe che le Sirene riflettano una tendenza critica non dispiegata a un livello cosciente, eppure insita nell’inconscio collettivo, a fronte di gravi allarmi o emergenze.

In tutto ciò, che fine ha fatto Ulisse, o chi per lui? Se l’Ulysses del romanzo famoso di James Joyce è un piccolo borghese, quello anonimo di Delvaux è più piccolo, letteralmente parlando. Sullo sfondo di entrambi i quadri, un ometto si allontana verso il mare, di spalle alla scena in primo piano che si presume abbia attraversato indenne. Ripreso in La sirène del 1949, il dettaglio è più fedele all’originale omerico di quanto può sembrare (destinato infine alla cecità, Delvaux era un cultore di Omero). Quello ascoltato da Ulisse nell’Odissea non è il canto delle Sirene. È solo una promessa o dichiarazione di canto. L’omissione equivale a un silenzio. Non è dato sapere se si sarebbe trattato di quanto dichiarato o anche di altro, e che cos’altro. L’occasione persa dal cauto eroe lo è pure per noi, perché si possa seguitare a immaginare qualcosa dentro tale incognita e ad agire di conseguenza. L’opera di mediazione delle Sirene, tra inconscio e coscienza, si arresta qui. Tuttavia, nel dipinto del 1949, l’Ulisse minimo di Delvaux avanza verso la luce remota di un faro…



TORNA ALLA HOMEPAGE



[1] Omero, Odissea, canto XII, vv. 39-54 e 153-200.

[2] Lucio Anneo Seneca, Phoenissae, vv. 118-124.

[3] Platone, Kratýlos, 403e: oudéna deûro ethelêsai apeltheîn tôn ekeîthen, oudè autàs tàs Seirênas, allà katakekēlêsthai ekeínas te kaì toùs állous pántas (con riferimento all’aldilà, “nessuno poi desidera davvero tornare qui, neppure le Sirene, ma loro stesse lì sono attratte come tutti gli altri”).

[4] Plutarco, Symposiakà, libro IX, questione 14.

[5] Marco Tullio Cicerone, De finibus bonorum et malorum, libro primo, XVIII 49.

[6] Anicio Manlio Severino Boezio, Consolatio Philosophiae, I 1: Sed abite potius, Sirenes usque in exitium dulces, meisque eum Musis curandum sanandumque relinquite. Circa una competizione nel canto fra Sirene e Muse, da cui le seconde sarebbero uscite vincitrici, cfr. Guida della Grecia di Pausania (IX 34, 3) e la scena raffigurata su un sarcofago romano di età severiana, oggi al Metropolitan Museum of Art di New York.

[7] Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad. it. di Renato Solmi da Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente (1944, 1947 e 1969), Einaudi, Torino 1997; pp. 39-86.

[8] Maurice Blanchot, Le chant des Sirènes, in Le livre à venir, Parigi, Gallimard, 1959.

[9] Tranquillo Svetonio, Vita Tiberi, 70, in De vita Caesarum: quid Sirenes cantare sint solitae.

[10] Michel Foucault, Il pensiero del di fuori, in Scritti letterari, trad. it. di Cesare Milanese da La pensée du dehors (apparso nella rivista francese Critique nel 1966), Feltrinelli, Milano 1996; p. 128.

[11] Franz Kafka, Il silenzio delle Sirene, in Il silenzio delle sirene. Scritti e frammenti postumi (1917-1924), trad. it. di Andreina Lavagetto da Das Schweigen der Sirenen, Feltrinelli, Milano 1994.

[12] Maria Corti, Il silenzio della sirena, in Il canto delle sirene, Bompiani, Milano 1989; p. 76.

[13] Maria Corti, Cronaca di antiche seduzioni, in Il canto delle sirene, op. cit.; pp. 31-32. Cfr. Dante, Inferno, canto XXVI, vv. 90-142.

[14] Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, trad it. di Emilio Panaitescu da Le mots et les choses (1966), Rizzoli, Milano 1996; p. 5. Cfr. Jorge Luis Borges, L’idioma analitico di John Wilkins, in Altre Inquisizioni, in Tutte le opere, vol. I, Einaudi, Torino 1994; pp. 1004-5.

[15] I due dipinti si trovano rispettivamente presso The Art Institute of Chicago e il Metropolitan Museum of Art di New York.

Hosted by www.Geocities.ws

1