Niente di nuovo a Itaca,
per le strade notturne.
Agli angoli degli incroci,
sbadigliano semafori
intermittenti e gialli.
Nelle vetrine dei negozi
spente dopo la chiusura,
manichini incantati
replicano la trita
pantomima del sacro.
Domani partire,
su lunghe autostrade
asfaltate di luce
nuova del giorno.
Lontana la città
nella sua cupola di vetro,
gli occhi delle telecamere
puntati sulle piazze,
nelle viscere l'urlo
lancinante delle sirene.
In una sala silenziosa
della reggia dei sogni
senza finestre né specchi
per l'ennesima notte
la tessitrice di miti,
Penelope, disfa la tela.
E la ordisce daccapo,
senza rughe sul bel viso,
digitando alla tastiera
col suo tocco leggero.
Fuochi di prostitute
e carcasse di auto,
accatastate lungo le vie
che si diramano
dal cuore di Itaca.
Attraverso lo stereo
di motel deserti,
il canto delle Sirene
affascina i sensi
stanchi di camionisti.
Dentro lo schermo acceso
che illumina la stanza
col suo verde chiarore,
quasi un raggio di luna,
lei simula il labirinto.
Dove echeggi il muggito
mostruoso del Minotauro
e spicchi il volo Icaro,
accecato dal riverbero
del sole nel blu marino.
Ulisse si arresta in trance
proprio davanti all'oblò
di una lavatrice in funzione,
rimembrando l'occhio
vorticoso del Ciclope.
Poi si inietta nelle vene
l'essenza dei Lotofagi
e attende con pazienza
che l'incendio di Ilio
gli si proietti nel cranio.
Ma dalla mano di Teseo,
che si torce come olivo
nello spazio senza tempo,
pende reciso il filo
della matassa di Arianna.
Su un labile supporto
a fatica si dipana,
va crescendo a dismisura
e si lacera fra le dita
la trama della scrittura.