La stanza della musica

 

 

Una volta dei mercanti

arrivati da oltre il mare

fecero un dono a Cinira,

il re dell’isola di Cipro

nativa della dea Venere:

un raro cammello bianco

dagli occhi color del cielo.

Da allora, spesso in sogno

sfilavano lunghe carovane

di vaghi cammelli bianchi,

in mezzo a dune di sabbia

o fra le palme di un’oasi

dal profumo di essenze.

 

Mai io avrei immaginato

che un sogno così fatuo

sarebbe diventato realtà,

malgrado essa sia diversa

da come me la figuravo.

In questo remoto rifugio

celato al resto del mondo

sono venuta a partorire,

seguendo una carovana

dopo un viaggio in nave,

esiliata dalla città di Pafo

per prevenire lo scandalo.

 

Tale era il mio sconforto,

che certo mi sarei uccisa.

Ma mi è mancato l’animo

per amore di questo figlio

caro quanto nessun altro

e così bello come un dio,

tanto che temo che le dee

perfino qui me lo invidino

o se lo possano contendere.

Adone è il suo dolce nome

e lui non ha ombra di colpa

dell’origine contro natura.

 

Non sogno più cammelli,

ma mi visitano i ricordi

talora sollevati dal vento.

Rivedo le sale della reggia,

la stanza presso il giardino

dove mio padre indulgeva

a suonare uno strumento

costruito con le sue mani.

Ritorno ad udire la musica

che si insinuava nell’anima

mentre spiavo da una finestra,

quando lo scorsi con un’ancella

ed a un tratto la musica tacque.

 

A tal punto poté quella vista,

che io tramai un folle ricatto:

chiesi alla compagna di giochi

che mi coricassi al suo posto

con la complicità della notte,

né lei seppe opporre un rifiuto.

Troppo presto e troppo tardi,

dissipati gli effetti del vino,

l’amante accese una lucerna

sulla nudità del mio corpo.

Invano coprii il mio volto,

per evitare la sua sorpresa

e fuggire l’ira dello sguardo.

 

La gelosia di qualche nume

per sempre spense la musica.

Senza pace il re si aggirava

per i corridoi del palazzo,

finché non apparve chiaro

che non si sarebbe trattato

di un evento senza seguito.

Il suo volto si fece severo,

come non l’avevo mai visto

nemmeno seduto sul trono.

“Devi andartene,” mi disse

con un tremito nella voce,

“e il più lontano possibile.

Questo è un ordine, Mirra”.

 

Poi si ritirò nella sua stanza;

maledisse e infranse la cetra

che aveva turbato gli animi,

e bandì l’arte che ad Orfeo

non portò miglior fortuna.

Non ne ho saputo più nulla

e forse neppure mi importa

se non fosse per la musica,

un suono selvatico di flauto,

che a volte riprende a fluire

qui in mezzo alle alte palme.

E una lenta fila di cammelli

attraversa questa verde oasi,

diretta verso il mare azzurro.

 

 

Pino Blasone

 

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