Il vello d’oro

 

 

Avrei dovuto capirlo quando

lo scafo solcava queste acque

ai confini del mondo ignoto,

destando la nostra meraviglia.

L’avrei appreso a mie spese:

Argo era il nome della nave,

e la polena di legno parlante

era un trucco ben congegnato

che ci importava solo rovina.

“Barbari”, così ci appellavano

quei suoi cinquanta naviganti,

venuti da qualche terra “civile”

al di là del mare ormai violato.

 

Ma fui sedotta dal loro duce

e dal suo disarmante sorriso,

in piedi su quell’ardita prua.

Mi sembrò che i suoi occhi

vedessero solo me sulla riva,

la ragazza di buona famiglia

inviata a dargli il benvenuto

in testa ad anziani diffidenti.

Per me fece suonare a Orfeo

la musica che doma le fiere.

A lui giovò avere un’alleata,

per giunta figlia del sovrano

del regno del vello d’oro: tale,

il pretesto per la sua impresa.

 

Così io tradii i miei familiari

per amore dell’eroe Giasone

e per favorire la sua rapina.

Depredato il vello famoso

dalla sua foresta incantata,

devastato il paese dei fiumi

le cui onde luccicano d’oro,

egli volle condurmi con sé

quasi come un doppio trofeo.

E io fui contenta di seguirlo,

sebbene già i suoi compagni

mi chiamavano “la straniera”.

Che cosa m’importava di loro?

Bastava che il biondo straniero

lui non mi sentisse un’estranea.

 

Eppure ci fu un tempo sereno,

in quel greco porto di Corinto

dov’eravamo venuti a vivere

(tranne uno straccio di gloria

nessun altro frutto aveva reso

al mio sposo il sacro cimelio,

vecchia pelle d’ariete dorata).

Crescevamo due nostri figli

belli quanto la luce del sole

e fingevo di ignorare la gente

se diceva di me “Ecco la maga

Medea, nipote di quella Circe

che tramuta i maschi in porci!”

 

Guardavo vele andare e venire

sul mare dalla terrazza di casa,

io tanto pavida delle tempeste

da detestare le barche e i remi.

Indovina inesperta del destino,

confidavo che quel buon vento

soffiasse per il resto della vita.

Poi vinto da nuova ambizione

Giasone si invaghì di Creusa,

nubile figlia del re della città,

per godere dei favori del padre

e annunciò le prossime nozze.

 

Feci buon viso a cattivo gioco

(che cos’altro potevo sperare?),

ma quando pretese i nostri figli

allora gli opposi il mio rifiuto.

La sventura volle che Creusa,

o Glauce dall’azzurro sguardo,

morisse per un morbo occulto.

E qualcuno sparse la calunnia,

possa egli soffrire eterna pena,

che ciò fu per un dono stregato.

Accusata la straniera del lutto,

un tumulto armato di fiaccole

corse su alla mia casa isolata.

 

Tu intanto dov’eri, mio prode?

Laggiù in fondo spiavi la scena

e tardavi il soccorso ai tuoi figli

in attesa che io mi fossi arresa.

Non so più quale barbara follia

a un tratto si impossessò di me.

Svelta salii sul terrazzo del tetto

tenendo per mano i miei bimbi

bendati tra il fumo e le fiamme.

Per paura che mi fossero tolti

li uccisi reprimendo ogni pietà,

tanto può una madre stravolta.

Là in basso in preda all’orrore

scorsi la folla arretrare e tacere,

vedendosi riflessa nel mio gesto.

 

Tornata in me, ero su una barca

e una ferita mi bruciava il petto

(sì, avevo fallito l’ultimo colpo),

mentre la devota nutrice remava

attraverso una notte senza luna

verso una nave fenicia nel porto.

Il vello d’oro servì quale prezzo

del viaggio furtivo, per chi era

incurante della sua dannazione.

A bordo io invocavo i miei figli,

che mi fissavano dal firmamento

con gli occhi stupiti e stellanti.

Scongiuravo che l’astro divino

mai tornasse a schiarire le notti,

respingendo per sempre i giorni

oltre i bordi remoti dell’oceano.

 

 

Pino Blasone

 

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