Una volta varcato il cancello,
attraversare il piazzale
(il piazzale è immenso,
dilatato a macchia d'olio
sopra il globo terraqueo),
sentire i suoi passi alle spalle,
avvertire il suo fiato caldo
sforzandosi di giungere al centro.
Ma il centro è solo il frutto
di una fantasia morbosa
e delle distanze tracciate
pazientemente da cosa a cosa,
le quali si intersecano
nello spazio architettonico.
Allorché affiora dal reticolo
ancora una volta il mito
del Minotauro che muggisce
straziando le viscere materne
dell'imbestialita Pasifae
pur di uscirne alla luce
(vergogna che occorse celare
con l'astuzia del Labirinto)
o di procaci Europe involate
e concupite dal toro divino,
o di giovani Mitra spietati
che il toro pugnalano a morte
versando sangue marmoreo
giù fra lo sterco e la polvere
di arcaiche mattanze e corride.
Sennonché oltre il recinto
emerge la collina di Testaccio
o la struttura metallica
e severa del gassometro,
o il Tevere s'indovina
con la sua limacciosa lentezza
e la tenerezza dei campi
insinuati fra i caseggiati
della periferia urbana,
nell'attesa fatta cenere
come l'ultima sigaretta
del pacchetto ormai vuoto,
come le luci e la musica
e il vento estivo sul palco
che immagini e suoni trascina
ad una deriva notturna.
Così riverbera il tuo volto
attraverso cento monitor,
estrema immagine fissa
in apparente movimento
sulla superficie del video,
o Signora del Labirinto.
Ma fuori dalle tue labbra
non escono suoni plausibili:
solo un balbettio confuso,
soltanto litania monotona
intercalata dalla mossa
sforzata di un sorriso;
al punto da essere colto
da un sùbito colpo di sonno
e ritrovarsi al risveglio
in un muto deserto spento,
percorso da ombre in fuga
sotto un'improbabile luna.
Pino Blasone