Pino Blasone

 

La «domanda metafisica radicale»,

vista nella prospettiva dell’alterità

 

 

Perché vi è qualcosa?       

 

Puta, exempli gratia, […] quaestionem metaphysicam radicalem: «Cur est aliquid?» («Si pensi, ad esempio, alla domanda metafisica radicale: “Perché vi è qualcosa?”»): nella lettera enciclica Fides et ratio, capitolo 76, così nel 1998 il pontefice della cristianità cattolica Giovanni Paolo II -- al secolo, Karol Wojtyla -- stigmatizzava un interrogativo posto nel 1714 da Gottfried W. Leibniz. Nell’originale francese del filosofo tedesco, lo scritto intitolato Principes de la nature et de la grâce fondés en raison, la domanda in questione suonava in effetti: pourquoi il y a plus tôt quelque chose que rien? («Perché vi è qualcosa piuttosto che niente?»).

Quanto alla definizione «domanda metafisica radicale», intuibilmente essa risente di quella adottata da Martin Heidegger con esplicito riferimento a Leibniz nella sua Introduzione a: «Che cos’è metafisica?» del 1949, e in altri saggi quali Che cos’è metafisica? e Introduzione alla metafisica: «domanda fondamentale della metafisica» o, anche, «domanda originaria». Il rifarsi all’origine, al fondamento, alla radice, conferisce al domandare la portata di una richiesta di senso dell’esistenza.[1] Se in questo caso interrogante e interrogato coincidono, è pur vero che in qualche misura essi si confondono con l’oggetto dell’interrogazione. È ciò che qui proveremo a chiarire.

Da un lato, è da rilevare che la formulazione rinvenibile in Fides et ratio collima con una latina pure di Leibniz, la quale accenna e implica una possibile risposta all’interrogativo posto in francese dal filosofo tedesco: [Ratio] est in Natura cur aliquid potius existat quam nihil («C’è una Ragione in Natura, perché esista qualcosa piuttosto che niente»).[2] Quale sia tale ragione, è lo stesso autore a dichiararlo nei Principi della Natura e della Grazia, paragrafo ottavo: cette raison suffisante de l’existence de l’univers («questa ragion sufficiente di esistenza dell’universo»).[3]

Non è questo il luogo per dilungarsi sul principio di ragion sufficiente, concetto caratteristico del pensiero di Leibniz, da lui argomentato pure nella Monadologie e altrove. Basti rimarcare che esso è un principium reddendae rationis sufficientis, il quale consiste nel rendere ragione del perché di qualcosa, senza però entrare nel merito di modalità e di motivazioni al di là del giusto necessario allo scopo. Ovviamente, tutto sta nel condividere un postulato alquanto tautologico, per cui nihil est sine ratione: «niente esiste, senza che ve ne sia una ragione». Di più, aggiunge Leibniz, niente è possibile qualora entri in palese contraddizione con sé medesimo o con qualcos’altro.

Rien ne se fait sans raison suffisante, c’est-à-dire que rien n’arrive sans qu’il soit possible à celui qui connaîtrait assez les choses de rendre une raison qui suffise pour déterminer pourquoi il en est ainsi, et non pas autrement («niente avviene senza ragion sufficiente, vale a dire che niente si verifica senza che sia possibile a chi conosce bene le cose di rendere una ragione, la quale sia sufficiente a determinare perché ciò stia così e non altrimenti»): nello stile conciso di Leibniz, l’assunto così specificato è abbastanza ardito e rifondante a un tempo, da spiazzare i seguaci contemporanei degli antichi e da lasciare interdetti i moderni di là da venire.

D’altro canto, sembra di interesse non solo filologico restituire la domanda qui in questione al contesto di Leibniz, nel paragrafo settimo dei Principi della Natura e della Grazia, fondati nella ragione. Ivi leggiamo di seguito un quesito, strettamente collegato col precedente: Car le rien est plus simple et plus facile que quelque chose. De plus, supposé que des choses doivent exister, il faut qu’on puisse rendre raison pourquoi elles doivent exister ainsi, et non autrement («Infatti, il niente è più semplice e più facile di qualcosa. Per giunta, supposto che debbano esistere delle cose, occorre che si possa rendere ragione del perché esse debbano esistere così, e non altrimenti»).

Non a torto, nei commenti critici si è molto discusso sull’interpretazione della sentenza le rien est plus simple et plus facile que quelque chose. Un po’ meno ci si è soffermati sul quesito immediatamente susseguente, espresso in forma indiretta, dandolo magari per scontato. Eppure, è qui che Leibniz si distingue da quanti gli faranno eco. Egli non si accontenta di considerare l’esistenza di qualcosa in generale. Bensì scende nel particolare, dall’indeterminato al determinato, dall’essente all’ente. All’incirca il contrario di quel che farà Heidegger, nel corso del suo pensiero.

Se si conviene che i due interrogativi siano membri di una sola «domanda fondamentale» -- Grund-frage, la chiama in tedesco Heidegger --, ne consegue che l’asserto «il niente è più semplice e più facile di qualcosa» funge da cerniera fra la prima e la seconda istanza della sequenza concettuale. Allo stupore che connota la proposizione «Perché vi è qualcosa» e allo sgomento della successiva «piuttosto che niente?», subentra un’osservazione che diluisce lo sgomento quasi in una banalizzazione esorcizzante del nulla, in quanto «semplice e facile» assenza di qualcosa.

Per quanto insignificante o precario possa apparire questo «qualcosa piuttosto che niente», il suo sussistere è di enorme complessità rispetto all’inverificabile ipotesi di un’assenza totale, la quale può delinearsi solo in relazione all’esistenza presupposta di qualcosa. Da ultimo, la quaestio metaphysica radicalis si schiude su un nuovo sentimento di meraviglia. Coerente con l’ottimismo leibniziano, esso si condensa intorno a quella che emerge come vera essenza del problema: «supposto che debbano esistere delle cose, […] perché esse devono esistere così e non altrimenti»?

La percezione del sussistere di qualcosa è connessa se non simultanea, da un lato, col suo essere non-nulla; dall’altro, col definirsi di quel qualcosa in quanto tale. E questo definirsi non può aversi se non in rapporto a qualcosa che è «altrimenti». In pratica, a qualcos’altro. Ci sono almeno un paio di modalità, da cui non si può prescindere nel rendere ragion sufficiente proprio del sussistere di qualcosa. Esse sono il suo esserci piuttosto che niente e il suo non essere qualcos’altro, ovvero il suo essere non-altro. Esistenza, identità e alterità, sono dunque interdipendenti.

Si può del resto insinuare che l’esistenza di qualcosa è un fenomeno, il quale si configura a metà fra il non-nulla e il non-altro. E questa illazione comporta che ogni ente, nel momento in cui si emancipa dalla nullità essenziale del ni-ente, acquisti segni di riconoscimento in base alla differenza che si instaura fra ente ed ente. A un certo livello, ciò che si distingue in quanto altro può divenire non solo percepibile, bensì in vario modo concepibile o appetibile. Attendibilmente, sta qui la complessità dell’esserci di qualcosa, a fronte di un’ipotizzata «semplicità e facilità» del niente.

 

Perché vi è qualcuno?

 

Fin dall’età della formazione, Leibniz si era interessato a un problema. Disputatio Metaphysica de Principio Individui («Disputa sul principio di individualità») è il titolo della tesi di dottorato del 1663, in cui egli discuteva l’argomento del «principio di individuazione», nel Medioevo esercizio di speculazione presso Avicenna, Tommaso d’Aquino e Duns Scoto. In tale riflessione, si innesta a un certo punto l’influsso recente di Cartesio. En pensant à nous, nous pensons à l’Etre («pensando a noi stessi, noi pensiamo all’Essere»), afferma Leibniz nella Monadologie, paragrafo 30. Vediamo di interpretare quest’impostazione paradigmatica di pensiero.

Da parte nostra le cose sono identificabili e discernibili, nella misura in cui si contrapponga loro un’alterità e non subiscano un’alterazione, che le faccia apparire altre da quelle che erano. Come il loro esserci dipende dalla loro opponibilità a un relativo e ipotetico nulla, così la loro identificabilità, dal confronto con l’alterità e dalla preservazione da una profonda alterazione o da un eventuale annullamento. In tal modo, le loro rispettive sostanze si presentano a un qualsiasi soggetto. Esse insistono a riflettersi nella memoria, anche quando sottratte all’esperienza.

Ma che cosa accade, quando sostanza e soggetto coincidono, quando un soggetto diventa oggetto della «domanda metafisica radicale» riferita a se stesso? Parafrasando Leibniz, perché vi è qualcuno piuttosto che nessuno? Supposto che debba esistere qualcuno, perché egli deve esistere così e non altrimenti? Ad esempio, perché sono io anziché un altro? Se una qualsiasi cosa ci si presenta quale non-nulla, a maggior ragione è il caso di supporre che sia quel qualcuno a proporsi come non-altro, proiettando tale sua condizione sul mondo circostante delle cose.

L’isolamento monadico delle «sostanze spirituali» paventato da Leibniz trae in parte ispirazione da una serie di considerazioni consimili; in parte e a monte, da un rischio implicito nel cogito ergo sum cartesiano, di costringere la coscienza soggettiva appena modernamente rifondata nel vicolo cieco dell’individualità. Mettendo qui fra parentesi l’intervento leibniziano di un’«armonia prestabilita» trascendente, al fine di superare l’impasse, limitiamoci a constatare come anche nell’Introduzione alla metafisica di Heidegger si darà spazio al soggetto umano in un discorso nuovamente dedicato alla  «domanda fondamentale della metafisica».

Da parte di Heidegger, essa era stata ontologicamente riformulata in tedesco, già nella prolusione Che cos’è metafisica? del 1929: Warum ist überhaupt Seiendes und nicht vielmehr Nichts? («Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla?»). In proposito, nell’Introduzione alla metafisica -- pensata nel 1935 ma pubblicata nel 1953, dopo la recente catastrofe bellica -- l’autore così argomenta:

 

Infine, in quanto domanda più ampia e profonda, si presenta anche come la più originaria. Che cosa si deve intendere con ciò? Se ci si rende conto di tutta l’ampiezza di questa domanda, che problematizza l’essente come tale nella sua totalità, apparirà chiaro che essa non concerne in alcun modo questo o quell’ente in particolare. Ciò che noi intendiamo considerare è proprio l’essente nella sua totalità, senza alcuna preferenza particolare. Tuttavia, c’è un essente che si fa avanti sempre di nuovo con insistenza in questo domandare: quello degli uomini che pongono la domanda.[4]

 

Nel seguito dell’opera di Heidegger, certe aspettative andarono deluse. Sempre più «l’essente nella sua totalità» metterà in ombra «quello degli uomini che pongono la domanda», fin quasi a eclissarlo. L’esigenza di considerare la Metaphysische Grundfrage alla luce dell’incidenza del fattore personale era stata recepita da Max Scheler, in un saggio risalente al 1927: La Posizione dell’Uomo nel Cosmo. L’intenzionalità della coscienza vi viene rivalutata, grazie alla comune lezione fenomenologica di Edmund Husserl. La «domanda metafisica fondamentale» vi si riconosce a stento: Warum ist überhaupt Welt, warum und wieso bin «ich» überhaupt? («Perché c’è in generale un mondo; perché e come mai sono “io”, in generale?»). [5]

Eppure, è da qui che conviene ripartire: cur est aliquis?: «perché vi è qualcuno?». Anzi, perché vi è qualcuno piuttosto che nessuno? In secondo luogo, perché sono io anziché un altro? Preso a sé stante, il primo problema può risultare certo insolubile, salvo che per l’intervento di un parziale chiarimento: all’uomo cartesiano dubitante e pensante si sovrappone la figura di uno interrogante, ulteriore garanzia e modalità del suo essere essente (o, meglio ancora, co-essente).

Secondo Heidegger, l’interrogazione verte appunto sull’ontologia, veritiera quintessenza di ogni metafisica. Quanto al secondo quesito, esso può venir letto in due direzioni: in quella di un’alienazione dell’ente uomo, che costituisce la propria identità a esclusione o a discapito dell’alterità; oppure, nel senso che è quest’ultima a definirne e ad alimentarne l’identità, in un processo impercettibile di aggiustamento.

Per ciò che riguarda la «domanda metafisica radicale», applicata all’esserci di qualcosa piuttosto che niente o qualcos’altro, abbiamo tuttavia visto qui sopra che esistenza, identità e alterità, sono categorie mentali tendenzialmente interdipendenti. Stando specialmente al principio di ragion sufficiente caro a Leibniz, non c’è motivo di dubitare che tanto non valga per la medesima domanda, riferita all’esserci di qualcuno anziché nessuno o qualcun altro.

Negli esseri umani, a volte è dato riscontrare la nostalgica tentazione di essere nessuno. Più frequente è il fascino di essere qualcun altro, benché di rado ciò comporti una rinuncia totale alla propria identità. Quest’atteggiamento psicologico è tanto più compatibile quanto più, anche in quei casi, l’esserci di qualcuno in quanto tale si colloca a metà fra il non essere nessuno e il non essere altri. Nullità e alterità restano i poli dell’esistenza fra cui l’identità personale elegge il suo habitat, dove trova le coordinate per calcolare la sua posizione nel mondo; peraltro con qualche logica priorità rispetto all’identificabilità delle cose, che discende da quella sorprendente inconfondibilità.

 

Perché non c’è il niente?

 

In realtà, nell’ottica cartesiana di Leibniz la domanda «perché vi è qualcosa?» non contrasta con la variante «perché vi è qualcuno?». Quest’ultima è lecita, dal momento che la sub-stantia cui allude il «qualcosa» di Leibniz già si era avviata a differenziarsi dal suo quasi sinonimo latino sub-iectum. In particolare in  quanto spirituale e attiva, la sub-stantia di Leibniz perde ogni connotazione di inerzia o di passività. Essa perviene a quel tipo speciale di percezione che è la presa di coscienza della sua monadica singolarità, e finisce col concepire un proprio punto di vista sul resto del mondo. Coscienza e auto-coscienza si stringono in intimo connubio.

È in cantiere l’accezione moderna del «soggetto».[6] Se non altro per evitare confusioni, in particolare da Immanuel Kant in poi riuscirà più comodo designare tale concetto dinamico con un termine uguale o corrispondente a sub-iectum, anziché a sub-stantia. Il primo passo è una scissione metodica della personalità, consistente nel contrapporre un soggetto a un oggetto, anche quando essi coincidono nella sostanza empirica. In latino, è il cogito me cogitare. In ogni caso, la soggettività viene ad assumere in sé la denotazione di consapevolezza della propria identità, sia che si tratti di un ambito individuale, sia che ci si riferisca -- un po’ più tardi -- a uno collettivo.

L’identità personale vista da Leibniz si determina anzitutto, per così dire, su un piano orizzontale. Essa ha a che fare con l’esserci di qualcosa in un certo modo piuttosto che in un altro; a maggior ragione, con l’avvertirsi da parte di qualcuno in quanto non altro da sé; comunque, in un confronto costitutivo con l’alterità. Ciò non esclude affatto la ricezione di uno sviluppo verticale dell’identità, tramite la relazione menemonica stabilita fra un io presente e un io passato (quale elaborata, empiristicamente, da John Locke nel Trattato sull’intelletto umano).

Quel rapporto può presentarsi altresì in maniera positiva, come «provvidenziale» opportunità di comunicare con gli altri. Può invece recepirsi in modo negativo, come alterazione e minaccia di dissoluzione. Ma è da osservare che il secondo caso qui contemplato ha a che vedere più con l’ipotesi del nulla, che con l’apertura verso l’alterità. In tal senso va letta la romantica traduzione di F. W. J. Schelling, della «domanda metafisica radicale»: Warum ist nicht nichts, warum ist etwas überhaupt? («Perché non c’è niente, perché c’è qualcosa in generale?»).[7]

Rispetto all’enunciazione completa di Leibniz, si noterà che quella fornita una prima volta nel 1804 da Schelling non è solo restrittiva, escludendo l’orizzonte dell’alterità. Essa divide e inverte i termini dell’interrogazione, spostando in primo piano l’elemento del nulla, che qui assume il drammatico risalto di un possibile annullamento più che di una «semplice e facile» negazione.

Per giunta, nella riduzione viene introdotta un’estensione non accessoria: quello überhaupt in seguito ripreso da Scheler e da Heidegger, che significa «in generale». Esso modifica il senso sia di «qualcosa» sia di «niente», in maniera tale che questi termini richiamano la contrapposizione assoluta di «tutto» e di «nulla». Più che il pensiero originale di Leibniz, l’operazione rammenta quello di Blaise Pascal. Quale sia la nobiltà e serietà degli intenti, nella deformazione che Schelling inaugura e che Heidegger compie, ben si intuisce come resti poco spazio per l’alterità e perché quest’ultima venga sacrificata a dispetto di ogni pur discutibile «ragion sufficiente».

Heidegger riconosce di essersi rifatto in parte a Leibniz nell’Introduzione a: «Che cos’è metafisica?», ma è nella quinta edizione dello scritto che vi affianca il nome di Schelling. Motivo probabile di riluttanza è che il debito nei confronti di Schelling è maggiore, più imbarazzante da dichiarare apertamente, di quello contratto con Leibniz. Già Schelling aveva focalizzato l’ente, in quanto differenza che si instaura rispetto all’essere. Pur sostenendo che l’essere è l’«altro rispetto all’ente», Heidegger privilegia l’angolatura per cui un ente si distingue in base alla differenza che lo costituisce in rapporto al ni-ente. Entrambi paiono però meno interessati alla differenza fra ente ed ente, da noi la meglio verificabile.

Nella prefazione alla traduzione giapponese di Che cos’è metafisica?, Heidegger puntualizza: «all’essenza dell’essere in quanto tale appartiene il Niente». Commentando altrove la stessa prolusione, con riferimento alla Grundfrage il filosofo evidenzia il tema del nulla in maniera analoga a quanto aveva fatto Schelling, e in contrasto con l’importanza subordinata che esso aveva rivestito nel pensiero leibniziano. Quel niente, che per Leibniz era stato solo un «semplice e facile» sfondo, è ormai diventato un sottofondo o il fondamento intorno a cui ruota l’intero discorso heideggeriano:

 

Alla sua fine non si pone essa, con Leibniz [e Schelling], la questione metafisica della causa suprema di tutte le cose che sono? Perché allora non si è fatto il nome di Leibniz come sarebbe stato opportuno? Oppure la domanda è posta in tutt’altro senso? Se essa non parte dall’ente e non ne cerca la causa prima, allora deve prendere l’avvio da ciò che non è l’ente. È questo che la domanda nomina e che scrive con la Maiuscola: il Niente, che è l’unico tema pensato dalla Prolusione.[8]

 

Perché vi è l’essente?

 

In momenti di profonda disperazione, quando ogni consistenza delle cose sembra venir meno e ogni significato oscurarsi, la domanda risorge. […] Oppure la domanda si presenta in un’esplosione giubilante del cuore, allorché repentinamente tutte le cose si trasformano e ci attorniano come per la prima volta, tanto che riuscirebbe più facile concepire che esse non siano piuttosto che siano proprio così come sono. La domanda si ripresenta in certi momenti di noia, quando ci sentiamo ugualmente distanti dalla disperazione e dalla gioia; ma in modo tale che l’incombente normalità di ciò che è induce una desolazione in cui appare indifferente che ciò che è sia o non sia. Ancor più pertinente, essa risuona allora: «Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla?».[9]

 

Non sempre una domanda viene posta, per ottenere puntuale e immediata risposta. Può invece essere un pre-testo retorico, per suscitare o ridestare un’emozione, al limite per esprimere o consolare di uno stato d’animo. Tuttavia, già Aristotele nella scia di Platone proclamava la filosofia figlia della meraviglia. Sia l’angoscia di Schelling di fronte al niente, sia il cosmico stupore personalizzato da Scheler, sia esso la disperazione, la gioia o perfino la noia poeticamente evocate da Heidegger, un sentimento del genere può contribuire a mobilitare o a sbloccare il pensiero.

In più punti del passo dell’Introduzione alla metafisica qui appena citato, Heidegger sembra quasi fare il verso a Leibniz. Fra i sentimenti passati in rassegna dall’autore di Essere e tempo, in relazione con la Metaphysische Grundfrage, ci sono comunque pochi dubbi che in Leibniz prevalesse la meraviglia.

Di quale meraviglia si tratta? La parafrasi di Heidegger non rende piena giustizia all’originale, là dove egli dice: «riuscirebbe più facile concepire che [le cose] non siano piuttosto che siano proprio così come sono». Rapportandoci a una traduzione fedele, Leibniz aveva scritto: «il niente è più semplice e più facile di qualcosa. Per giunta, supposto che debbano esistere delle cose, occorre che si possa rendere ragione del perché esse debbano esistere così, e non altrimenti».

Deliberata o meno che sia, una sottovalutazione interpretativa traspare soprattutto e ancora una volta nell’omissione dell’espressione «e non altrimenti». Lungi dall’essere opzionale, essa non solo ricorre nel discorso di Leibniz, ma sembra sottendere al massimo grado il sentimento della meraviglia. Lo stupore di fronte alla sussistenza delle cose nonostante l’ipotesi del niente e lo sgomento del loro esistere sull’orlo dell’abisso dell’annullamento cedono il posto all’unico sentimento plausibile, in grado di bilanciare se non di neutralizzare un tale sgomento.

Quel sentimento è sì di meraviglia di fronte alla resistenza delle cose all’alterazione, ma anche alla nostra capacità di recepire il mistero dell’alterità. In quanto sostanza privilegiata dalla coscienza, anzi l’oggetto geloso dell’auto-coscienza, è quasi un miracolo se noi stessi non siamo condannati a essere ciascuno una monade in sé e per sé, soli al cospetto dell’alternativa del nulla. Nonostante che riflettiamo tutto l’esserci delle cose, noi non avremmo facoltà di discernerle in quanto oggetti, salvo il nostro proprio essere «così e non altrimenti», se non fossimo già un po’ altri in partenza, se il nostro esistere non fosse dall’inizio un essere altro «piuttosto che niente».

Fra gli stati d’animo elencati da Heidegger in relazione con la «domanda metafisica fondamentale», nell’Introduzione alla metafisica, probabilmente il più insidioso è l’in-differenza. A ben vedere essa non riguarda tanto il fatto che «ciò che è sia o non sia», come sostiene l’autore, quanto che «ciò che è sia così, e non altrimenti». Neppure concerne che le cose «debbano esistere così, e non altrimenti», come teorizzava Leibniz.

Ammesso che «debbano esistere delle cose», e sottolineiamo quel doivent exister, l’indifferenza è sfiducia che esse possano «esistere così e non altrimenti». Non è qui in gioco tanto la differenza tra l’essere e l’ente o fra il ni-ente e l’ente, quanto la differenza tra ente ed ente e quella intima all’ente, che lo affranchi dalla necessità per aprirlo alla possibilità. Per così dire, questa indifferenza può assumere la forma radicale di una perdita di inter-esse per il mondo relazionale: per un nostro genuino essere in mezzo alle cose, altri fra gli altri.

 

Perché c’è dell’altro?

 

In ultima analisi, pare proprio che già per Leibniz principio di individuazione e mistero dell’alterità fossero le facce di una stessa medaglia. Se è vero che «il qualcosa di qualcuno» si staglia sullo sfondo del ni-ente, nondimeno esso prende coscienza di sé a confronto con l’alterità. Ciò, sia all’affacciarsi dell’identità sul mondo, sia quando l’alterità si ripresenti quale incognita per l’identità costituita. Tanto, che la risposta alla domanda radicale della metafisica «perché vi è qualcosa piuttosto che niente?» potrebbe essere esplicitata come segue: per il fatto che sussiste qualcos’altro, o qualcun altro.

Per inciso, una tale «verità di fatto» indurrebbe a integrare o a variare il noto presupposto cartesiano: cogito me aliud cogitare, al posto di cogito me cogitare. Con ogni probabilità, il «pensare se stessi nell’atto di pensare» implica che si stia pensando a qualcosa. E questo qualcosa sarà appunto qualcos’altro, o qualcun altro da sé (o addirittura qualcos’altro dentro di sé, stando a un appunto che Karl Jaspers muoveva a Kant[10]). In tale operazione, che compiamo di continuo e meccanicamente, c’è un effetto retroattivo il quale non sfugge alla riflessione. Ogni operazione di questo tipo funge da conferma per l’io pensante; in quanto tale, è anche generalizzabile.

Per dirla con Emmanuel Lévinas, a un certo livello quest’altro da sé può essere a sua volta inteso come riflesso o proiezione di un «assolutamente altro», la cui suggestione esistenzializzante -- la locuzione latina Ens existentificans è una invenzione di Leibniz -- permea a oltranza la tradizione metafisica occidentale. Più laicamente e kantianamente, una dimensione equivalente può essere quella etica, autonoma dall’inserimento in una data tradizione di pensiero o di credo religioso. Paradossalmente la perdita di riferimento all’altro, s’intende un altro che si collochi abbastanza al di là dei nostri limiti e dintorni, provoca a lungo andare una perdita di identità.

In linea col cosmopolitismo di Leibniz, un corollario attuale è che una ricerca di identità, senza adeguata comprensione dell’alterità, facilita il radicarsi dell’estraneità e l’insorgere dell’alienità. Essa espone a un rischio di annientamento più che soddisfare un istinto di conservazione, quanto più tecno-scienza uguale a civiltà si è rivelata un’opinabile equazione. La disastrosa storia di identitarismi più o meno recenti, tanto quanto i forzosi tentativi di ricondurli a un’identità globale, forniscono «ragioni sufficienti» per ritenere che qui non si tratti di una semplice impressione psicologica. È come se un’alterità, a lungo repressa o rimossa, ci investa da ogni lato.

Allora, l’interrogativo fondamentale dovrebbe potersi ulteriormente modificare: «perché io sono così, e non altrimenti?». Più in generale, è necessario che noi siamo fatti così? Davvero, non siamo liberi di essere altrimenti? Poi, è proprio vero che siamo fatti in questo modo, anziché in un altro? Al di qua della metafisica, è un invito indiretto a rinnovare il vecchio esame di coscienza, vincendo la più radicata delle paure: quella della perdita di identità. Magari, per prendere atto che non siamo mai stati integralmente noi stessi, bensì -- in un certo senso e in misura decisiva -- gli altri.

La gamma di possibilità di realizzazione, che una schiusura verso l’alterità suggerisce alla critica del soggetto, non mette in salvo la coscienza dal determinismo. Nemmeno riduce a inconscio l’ignoto, consolazione offerta dalla psicoanalisi, che dei determinismi è la versione più aggiornata.[11] Ciononostante, quell’apertura si propone quale occasione di rammemorante verifica, oltre a offrire un antidoto contro il senso del nulla. L’assenza di qualcosa o di qualcuno anticipa la nostra assenza, in quanto ce la rappresenta. Non per ni-ente, spesso ci si accorge dell’alterità -- al limite, di un’alienità -- costitutiva della nostra essenza, quando la relativa presenza viene a mancare.

 

Qual è la forma dell’altro?

 

L’«essere-per-se-stessi» e l’«essere-in-relazione-all’altro», come li definisce Scheler in La Posizione dell’Uomo nel Cosmo, sono aspetti complementari fra cui si compie quell’oscillazione che chiamiamo esistenza. Tuttavia, a un certo punto della storia di una persona o di una cultura si impone un posizionamento, l’assumere una posizione piuttosto che subirla. Alla necessità e alla possibilità subentra l’esigenza di una scelta. Certo, essa si determina in base a una concomitanza di circostanze. Queste non risultano però sempre sufficienti a spiegare da dove provenga la spinta a «essere altrimenti», e perché l’«esistere così» ci sia venuto a noia.

Una congettura per absurdum sarebbe che proprio allora l’«assolutamente altro» eserciti la sua problematizzante attrazione. La sua enorme complessità sottopone a pressione il nostro non-nulla, trincerato dietro un non-altro di comodo. In proposito, viene da ricordare un sarcasmo dell'apologista cristiano latino Tertulliano, al declino dell’antichità. Accomunando i renitenti epicurei e immeritatamente gli stoici sotto l'insegna del disimpegno sociale, politico e civile, nello scritto Il pallio il precursore dell’engagement così si divertiva a moralizzare e a ironizzare:

 

C'era una volta questa massima: nessuno nasce per gli altri, dal momento che deve morire per sé. E quando il discorso perviene agli Epicuri e agli Zenoni, tu certifichi come saggi tutti quei maestri del quieto vivere: eppure non altro essi hanno esaltato, sotto il nome di sommo e unico piacere.[12]

 

È da annotare in margine, il concetto-limite di absolument autre può ben aver risentito della concezione del sacro nell’opera di Rudolf Otto: ganz anderes, «totalmente altro». Esso però acquista logica consistenza, se considerato alla luce di un’asserzione di Heidegger nell’Introduzione alla metafisica. Ivi il pensatore, già ispiratore di Lévinas, aveva affermato: «L’essere […] non può essere paragonato con nessun’altra cosa. Solo il nulla è per lui l’altro».[13] Ebbene, l’assunto risulta reversibile nei termini seguenti: «Il nulla non può essere paragonato con nessun’altra cosa. Per esso, solo l’essere è l’altro». A maggior ragione, una altérité absolue, che per Lévinas si proietta oltre la definitoria contrapposizione fra essere e nulla.[14]

Se si accetta poi l’idea di un’alterità costitutiva del nostro esserci e della nostra essenza, viene allora da chiedersi quale futuro abbia una società contrassegnata dall’oblìo dell’altro. Nostalgia e reminiscenza possono essere vie di uscita dalla crisi, purché questo qualcosa o qualcuno da ricordare si rispecchi nell’effettivamente altro. Perfino l’«assolutamente altro» non farebbe che trascendere un vuoto esistenziale, se non ci fosse un altro effettivo che lo rappresenti e lo realizzi, libero da ogni nostro riduttivo pregiudizio o vanificante astrazione. Quest’altro da sé è ciò che fa di ciascuno di noi un «altro dell’altro», frutto dinamico di un’eccedenza che tale differenza genera.

Su un versante laico, nel 1947 in Pirro e Cinea, Simone de Beauvoir aveva del resto preceduto Lévinas. La pensatrice francese era partita da una critica dell’equivoco pessimismo di Heidegger, cioè del suo condizionare l’esserci dell’uomo in quanto «essere-per-la-morte» (zum Tode sein, la traduzione è inevitabilmente ambigua). Durante il secondo conflitto mondiale, per la prima volta la vita e la coscienza erano state messe a rischio in generale. In tal senso, l’ipotesi del ni-ente era ora una possibilità. La «cosa-io» dell’uomo, lo Ich-ding heideggeriano, tentava di risollevarsi dall’abiezione dove si era cacciata o era stata lasciata cadere.

Mentre Heidegger mette sotto accusa l’essenza astratta della tecnica, per De Beauvoir è la domanda essenziale che va ripensata integralmente come problema esistenziale. Simile alla «servetta» affacciata sul pozzo in cui era scivolato il proto-filosofo Talete, nell’apologo del Teeteto platonico, l’autrice lo fa con un mezzo sorriso sulle labbra. In La morale dell’ambiguità, ella premette un’osservazione dal vago sapore nietzscheano, per cui «lo svelamento dell’essere» si attua «nella gioia dell’esistenza». É una suggestione in più per ritenere che, con una tale conversione, la metafisica abbia raggiunto un moderno compimento.

Proprio nella libertà dell’essere altro, va ricercata tanto la conferma dell’esserci dell’ente, quanto una chance per evadere dalla sua finitudine. Dal nostro punto di vista e a differenza della nostra, la finitezza dell’altro trova a sua volta un limite nel potersi sempre riverberare in un’altra alterità. Una prospettiva del genere ha dell’infinito, e in qualche modo ci riguarda sempre, anche se non assicura di tornare a coinvolgerci direttamente:

 

Solo la libertà dell’altro è capace di necessitare il mio essere. […] Io non so se Dio esiste e nessuna esperienza può rendermelo presente; l’umanità non si realizza mai. Ma l’altro è là, di fronte a me, chiuso in sé, aperto sull’infinito. Se io gli destinassi i miei atti, questi non rivestirebbero anch’essi una dimensione infinita?[15]

 

Alla presente trattazione, si può imputare di aver troppo ceduto alla seduzione personale del «volto» levinassiano. Oltre che in motivi psicologici, una simile disposizione dell’animo affonda radici nell’atteggiamento di un certo pensiero mistico, quale rivalutato specialmente da Martin Buber nel 1923, in Io e Tu.[16] L’uso del pronome di seconda persona sembra qui segnalare una forma dell’altro, approssimante ma approssimativa. In effetti, si tratta di un mezzo per tentare di accorciare le distanze con l’assoluto, personalizzandolo. Nondimeno, l’altro empirico funge da specchio e da ponte privilegiato, in tale operazione estatica di avvicinamento.

Tanto non esclude affatto, talora, un senso di stupore di fronte al gratuito esserci di qualcosa privo di volto, nella sua spoglia fisicità. Un vizio idealistico insinua che quanto ci risulta sono solo oggetti fenomenici, inquadrati dalle nostre categorie mentali, e non i «noumeni» delle cose in sé, sempre che esse sussistano. Il fatto poi che quelli che ci circondano siano sempre più prodotti o simulacri della tecnica, anziché cose create dalla natura, complica la questione. E poco importa che gli oggetti della tecnica -- come, in parte, quelli dotati di vita -- tornino a essere in fondo delle cose, quando dismessi o disertati dalla soggettività.

Nella nostra tradizione di pensiero non mancano voci, ad esempio di Arthur Schopenhauer, favorevoli a un rapporto più immediato col mondo delle cose. In ambito artistico, la cosiddetta pittura metafisica del Novecento partecipa di un’ispirazione analoga. Ma quella dimensione dell’esistenza viene meglio valorizzata, presso altre civiltà e religiosità. In particolare, nelle culture che hanno assimilato la lezione dalla meditazione buddista (si pensi all’indiano medioevale Nagarjuna, interpretato da Jaspers in I grandi filosofi). In qualche misura e a modo suo, anch’essa evidenzia lo sfondo del nulla rispetto al rilievo dell’essere.

Questo nulla apofatico è un altro impersonale «senza forma né voce», vuoto attivo in cui le cose prendono le forme della loro esistenza e la cosa-uomo acquista la sua peculiare: lo sguardo e la voce della coscienza. Chiedersi «perché vi è qualcosa?» implica il rispondere che ciò accade, perché c’è un luogo deputato originario, il quale si è convenuto di chiamare nulla. Per Kitarô Nishida, in termini kantiani fenomeno e noumeno sono aspetti complementari e inscindibili. Il separarli è un artificio, conseguente alla dissociazione fra soggetto e oggetto.

In effetti, la nuda cosa aurorale di Nishida rammenta più la quelque chose di Leibniz, che l’ente di Heidegger. In Hataraku mono kara miru mono e («Dalla cosa agente alla cosa vedente», 1927), il pensatore giapponese della Scuola di Kyoto contestava alla filosofia occidentale un diverso metodo di concettualizzare le cose, suscettibile di influenzare il concetto che si ha di sé. Se questo è uno sguardo e una voce tra le cose, è pur vero che la «cosa senza forma» corrisponde al niente essenziale e che «la cosa senza voce» è il suo vitale silenzio. Una realtà così condizionata non autorizza ad anteporre nettamente il valore di una cosa a quello di un’altra:

 

Alle radici della cultura orientale che ha nutrito i nostri antenati per millenni non si nasconde forse proprio la cosa che vede la forma della cosa senza forma e ode la voce della cosa senza voce? La nostra mente non smette di cercare questa cosa e da parte mia penso di dare un fondamento filosofico a tale domanda.[17]

 

Tenuto conto della difficile comunicazione filosofica tra le rispettive culture di estrazione, nei rigardi sia di Heidegger sia di Nishida e della sua scuola resta valida un’obiezione di Lévinas, che è di un’evidenza parmenidea. Affermare che il niente è comporta il riconoscergli uno statuto equivalente all’essere. Cambia non la denotazione bensì la connotazione emotiva, negativa o positiva secondo i punti di vista. Altro è considerare una questione connessa, quella oggetto di una storica polemica fra umanismo e anti-umanismo: in realtà, posizioni a suo tempo diversificate in seno all’esistenzialismo, da Jean-Paul Sartre a Heidegger, da Jaspers a Maurice Merleau-Ponty.[18]

La ricerca di qualcosa oltre la contrapposizione fra essere e nulla è un’istanza tanto di Lévinas quanto della speculazione buddhista fin dai tempi di Nagarjuna, sebbene diversamente risolta. Essa può apparire perfino più realistica, che l’affidarsi alla sola suggestione pur insostituibile delle parole. Sia la prospettiva personale sia quella impersonale presentano vantaggi indiretti. La prima tende a difendere la soggettività umana, nella sua libertà e unicità. La seconda può impedire che essa diventi una deleteria presunzione. Le premesse delle due tendenze si rinvengono in più tradizioni. Ci si propone di approfondire l’analisi della tematica in questione presso quelle orientali, in una successiva sezione di questo stesso lavoro.

 

Davvero, non c’è il niente?

 

«C’è un essente che si fa avanti sempre di nuovo con insistenza in questo domandare: quello degli uomini che pongono la domanda»: giunti a questo punto, torniamo al primo capitolo citato dell’Introduzione alla metafisica di Heidegger, filosofo già simpatizzante del nazismo in Germania. Che fine hanno fatto quegli interroganti, si presume destinati a rimanere senza risolutiva risposta? Ne incontriamo di una categoria speciale, in un resoconto di Luce d’Eramo, dal titolo allusivo Germania cinquant’anni dopo. Con un tocco letterario, essi sono colti in procinto di danzare in maschera:

 

«Stasera abbiamo il ballo di Carnevale», spiega l’uomo. «Chi abita in questa zona?», domando io. «Qui noi tedeschi siamo pochi», risponde lui, «siamo soprattutto stranieri di ventisette nazionalità, verstehen Sie?», mi ammicca, «figli degli ex internati sopravvissuti nei lager della zona, tutta gente rimasta qui dopo la liberazione, verstehen Sie?», ripete, «non sapevano più dove tornare, deplaced persons, und so leben wir zusammen (viviamo assieme), i nostri nipotini ormai parlano solo tedesco».[19]

 

Trasversale e provvisoria, troviamo qui accennata almeno una risposta alla possibile variante del quesito fondamentale della metafisica: perché vi è qualcuno piuttosto che nessuno? E perché noi siamo così, e non altrimenti? La risposta in questione risuona quasi per caso, insieme dolente e beffarda: Und so leben wir zusammen, verstehen Sie? («[Non sapevamo più dove tornare.] E così viviamo assieme, tu comprendi?»). A sua volta, essa si ribalta in una richiesta di comprensione: Verstehen Sie? Si aggiunga, nel caso specifico, un sottofondo di «ammiccante» complicità.

Pochi, come l’ex internata, erano in grado di decifrare, contestualizzare e trasmettere il messaggio. Affidiamoci perciò a quel tanto di comprensione riposto nel linguaggio, filtrato attraverso le competenze esperenziali, linguistiche e filosofiche, della nostra narratrice. Nel tedesco colto, i composti So-sein, Anders-sein e Mit-sein, significano nell’ordine «essere così», «essere altrimenti» e «essere assieme». Essi sono altrettante dimensioni del Da-sein, vale a dire dell’«esserci» su questa terra, quali definite da una precisa tradizione di pensiero.[20]

Ritroviamo i concetti pertinenti, concentrati nel breve dialogo qui sopra. Essi segnalano le tappe di un percorso, che apre la strada verso la co-esistenza. Ma questa non si realizzerebbe in pieno, se non vi fosse a monte la contingenza «spaesante» (in tedesco, un-heimlich) di un «non saper più dove tornare». Traslata su un piano metafisico, affine è la condizione -- überhaupt, in generale -- dell’uomo contemporaneo. Con una frase a effetto di Heidegger, il suo «essere-gettato-nel-mondo», privato di punti fermi di riferimento. Eppure, questo stesso sempre più non può che essere un Mit-welt, vale a dire un «mondo condiviso».

Sulle contraddizioni di Heidegger, si sono fatti fin troppi discorsi. Cercando conferma che un referente dell’autrice italiana sia proprio lui, vale la pena di esaminare la domanda iniziale da lei posta: «Chi abita in questa zona?». Cioè, «Chi è che abita qui?». La risposta dell’interrogato racchiude la protesta di chi dimori ancora con un piede nello spaesamento. Forse solo i nipoti avranno ritrovato un paese da abitare, con una lingua comune. Chi abbia familiarità col ricercato lessico e immaginario del pensatore tedesco, non esiterà a riconoscere nei termini «abitare» e «deplaced/spaesato» concetti suoi tipici, rivissuti con sottile e amara ironia.

Il paradosso evidenziato dalla D’Eramo è che un episodio di convivenza, a suo modo esemplare, sia potuto scaturire non da un progetto di integrazione. Al contrario, esso era sorto da un mosaico di genti, di lingue e culture, condannate allo spaesamento -- in inglese, deplaced persons --, all’asservimento o allo sterminio, dal delirio concentrazionario di un regime totalitario e razzista (con cui Heidegger era stato connivente).

È un po’ l’inverso dell’apologo della torre di Babele, anche se qui per discrezione il Dio biblico non compare. Vi è invece sottinteso il sacrificio di quanti erano periti. A tutti loro, era pur dovuto un fattivo riscontro. Il silenzio del sacro -- sia esso più o meno invano nominato come l’essere, il nulla o l’altro -- risuona della voce insistente del loro silenzio. Non ci sono trappole del linguaggio, né sordine delle ideologie o debolezze di udito per pura convenienza, che possano trattenerla a lungo.

La fuga dall’alienità, lo stesso superamento dell’alterità, avevano resistito e reagito all’annientamento. Un tale attentato aveva riguardato non tanto l’esserci di qualcosa o di qualcuno in particolare, quanto l’essente in generale, nel dispiegarsi delle sue alternanze e alterazioni. A voler essere meta-fisici alla lettera, si potrebbe tirare in ballo perfino l’essere in sé, nel suo aprirsi una «radura» (di nuovo in tedesco, Lichtung) da illuminare oltre che da abitare. Una zona liberata, dove infine danzino delle maschere: ovvero, latinamente, dramatis personae.

Quale sia l’interrogativo metafisico per eccellenza, difficilmente esso può prescindere dall’entità degli «uomini che pongono la domanda». Pericolosamente, può venir disgiunto da quello etico, che già Aurelio Agostino si rivolgeva: come mai c’è il male, piuttosto che il bene? L’aggiornata tesi di Hannah Arendt, che il male sia carenza di essere, ci rimanda per analogia alla natura del ni-ente. Questo non-altro riflesso comporta una diminuzione di sé, nel senso non solo di un’eventuale mancanza di altro, bensì di considerazione o di rispetto per gli altri.

Se il niente oppone più di qualche ragionevole resistenza a farsi pensare quale assoluto, ciò non toglie che esso si lasci concepire come negazione o ordire come annullamento. Quest’ultimo può assumere le modalità di conversione dell’alterità in alienità, e di riduzione di qualcun altro a qualcos’altro. In quanto diverso e minaccioso per la propria integrità, attendibilmente questo qualcun altro o qualcos’altro, questo quasi niente, sarà «più semplice e più facile» -- per citare un’ultima volta Leibniz -- da emarginare, da isolare o da eliminare.

Tuttavia, il cedere a una tentazione del genere implica un venir meno della riflessione critica o, peggio, un suo assecondare simili manipolazioni. Altrimenti, si deve ipotizzare un difetto essenziale, un suo scontrarsi col niente mentre -- indagando le ragioni del male -- essa «non trova nulla». Si deve altresì convenire che questo sia qualcosa di più che un gioco di parole, o un barocchismo da «poesia concettuale». È una conclusione della Arendt (già intima di Heidegger, ed esule dalla Germania sotto il nazismo). Più che in La banalità del male o in altre opere, la troviamo compendiata in una lettera del 1963 a Gershom G. Scholem:

 

Quel che ora penso veramente è che il male non è mai «radicale», ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso «sfida» […] il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e, nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua «banalità». Solo il bene è profondo e può essere radicale.[21]



[1] In merito, si legga l’articolo di Maria Cristina Di Nino, Verità, interpretazione, inesauribilità e approfondimento. La domanda originaria in Luigi Pareyson, in Dialegesthai, anno 2001, all’indirizzo Web http://mondodomani.org/dialegesthai/cdn01.htm. Cfr. L. Pareyson, L'abisso della libertà e la domanda fondamentale. Heidegger e Schelling in Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995.

[2] Gottfried Wilhelm Leibniz, Die Hauptlehrsätze der Leibnizischen Philosophie (ovvero De rerum originatione radicali, manoscritto in latino del 1697), in Die philosophischen Schriften von G. W. Leibniz, a cura di C. J. Gerhardt, vol. VII, Berlin 1875-90, rist. an. Olm, Hildesheim 1965, p. 289 (trad. it. Dio e i possibili, in G. W. Leibniz, Scritti filosofici, UTET, Torino 1988, vol. I a cura di D. O. Bianca). Cfr. Résumé de metaphysique, in Opuscules et fragments inédites de Leibniz. Extraits des manuscrits de la Bibliothèque royale de Hanovre, a cura di L. Couturat, Presses Universitaires de France, Paris 1903, rist. an. Olm, Hildesheim 1966, p. 533.

[3] Si veda G. W. Leibniz, Principi della filosofia o Monadologia e Principi razionali della Natura e della Grazia, trad. it. a cura di S. Cariati, Bompiani, Milano 2001. Il principio di ragion sufficiente è stato oggetto di un’analisi di Heidegger, in un testo omonimo del 1957.

[4] M. Heidegger, Introduzione alla metafisica [Einfüührung in die Metaphysik], trad. it. di G. Masi e prefazione di G. Vattimo, Mursia, Milano 1968, p. 15.

[5] Si veda una traduzione un po’ meno letterale in M. Scheler, La Posizione dell’Uomo nel Cosmo [Die Stellung des Menschen im Kosmos], trad it. a cura di G. Cucinato, Franco Angeli, Milano 2004, p. 177.

[6] In proposito e con speciale riguardo alla Grundfrage in Leibniz e in Heidegger, si legga Giacomo Marramao, Minima temporalia. Tempo spazio esperienza, Luca Sossella Editore, Roma 2005, in particolare pp. 57-58 e 26-40.

[7] Friedrich Wilhelm Joseph von Schelling, appunto manoscritto senza titolo in Werke, Leipzig 1907, vol. III, p. 781. Pressoché identica, la formulazione che l’autore dà nell’Esposizione del vero rapporto della filosofia della natura con la dottrina migliorata di Fichte, nel 1806. Su quella che Heidegger chiamerà Grundfrage, Schelling tornerà infine nei corsi di lezioni all’Università di Berlino nel 1841-43.

[8] M. Heidegger, Introduzione a: «Che cos’è metafisica?» [Einleitung zu «Was ist Metaphysik?»], in Che cos’è metafisica?, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2001, p. 115; cfr. pp. 81 e 122. Su Schelling il filosofo tornerà nel 1971, in Il trattato di Schelling sull’essenza della libertà umana. Alla tematica Identità e differenza, egli inoltre dedicherà un volumetto specifico: Identität und Differenz, Pfullingen, Tubingen 1957 (trad. it. di U. Ugazio in Aut-aut n. 187-188, Milano 1982).

[9] M. Heidegger, Introduzione alla metafisica [Einfüührung in die Metaphysik], trad. cit., pp. 13-14. Qualche lieve modifica alla traduzione è dovuta a esigenze di brevità.

[10] K. Jaspers, I grandi filosofi [Die Grossen Philosophen], trad. it. di F. Costa, Longanesi & C., Milano 1973, pp. 517-523.

[11] Con speciale riferimento all’allora «ultimo Freud», segnatamente quello di Al di là del principio del piacere, suonano significativi gli accenti polemici di M. Scheler in La Posizione dell’Uomo nel Cosmo (trad. cit., in particolare pp. 141, 146-147 e 171-172).

[12] Quintus Septimius Florens Tertullianus, De pallio, V 4: Erat olim ista sententia: nemo alii nascitur moriturus sibi. Certe cum ad Epicuros et Zenonas ventum est, sapientes vocas totum quietis magisterium, qui eam summae atque unicae voluptatis nomine consecravere.

[13] M. Heidegger, Introduzione alla metafisica [Einfüührung in die Metaphysik], trad. cit., p. 89.

[14] Si veda E. Lévinas, Autrement qu'être ou au-delà de l'essence, Kluwer Academic - Martinus Nijhoff, La Haye 1974 (trad. it. di S. Petrosino e M. T. Aiello, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983). Dello stesso autore, cfr. Humanisme de l’autre homme, Fata Morgana, Montpellier 1976 (trad it. Umanesimo dell’altro uomo, il melangolo, Genova 1985).

[15] S. de Beauvoir, Per una morale dell’ambiguità. Pirro e Cinea [Pour une morale de l’ambiguité], trad. it. di A. Bonomi, Garzanti, Milano 1975, pp. 100, 175 e 158-159.

[16] M. Buber, Ich und Du, in Die Schriften über das dialogische Prinzip, Schneider, Heidelberg 1954 (trad. it. di F. Facchi e U. Schnabel, Io e Tu, in Il principio dialogico, Edizioni di Comunità, Milano 1958; cfr. la trad. di A. M. Pastore, Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993).

[17] Cit. in Matteo Cestari, Introduzione al pensiero di Nishida Kitarô, in AA. VV., La Scuola di Kyôto. Kyôto-ha, a cura di G. Marchianò, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996, pp. 95-96. Su Nagarjuna, cfr. K. Jaspers, I grandi filosofi [Die Grossen Philosophen], trad. cit., pp. 1218-1240. Sui contatti fra Heidegger e la Scuola di Kyoto, si vedano gli interventi pertinenti in AA. VV., Heidegger and Asian Thought, a cura di G. Parkes, University of Hawaii Press, Honolulu 1987.

[18] Cfr. E. Lévinas, Il y a (1946), testo confluito in De l’existence à l’existant, Revue Fontaine, Paris 1947 (trad. it. Dall’esistenza all’esistente, Marietti, Casale Monferrato 1986). Contemporanea, l’uscita di L’existentialisme est un humanisme di J.-P. Sartre e di Brief über den Humanismus di M. Heidegger. Humanisme et terreur, di M. Merleau-Ponty, è del 1947. Nel 1949, seguirà Über Bedingungen und Möglichkeiten eines neuen Humanismus di K. Jaspers.

[19] L. d’Eramo, Germania cinquant’anni dopo, in Io sono un’aliena, Edizioni Lavoro, Roma 1999, p. 101. La parabola di un esserci che non si lasci più «abitare», se non a patto della riconquista di una mutua comprensione e coesistenza, assume la forma della condivisione di una dimora in un romanzo di un’altra superstite dei Läger nazisti: l’ebrea Edith Bruck, in Nuda proprietà, Marsilio, Padova 1993.

[20] In merito, si legga la ricerca comparata di Stefano Bancalari, L'altro e l'esserci: Heidegger e il problema del Mitsein, CEDAM, Padova 1999. Il concetto di Mit-sein («co-essere») ivi in esame può essere messo a confronto con quello di Anders-sein («essere altrimenti») di M. Scheler in La Posizione dell’Uomo nel Cosmo (trad. cit., p. 100), di chiara ascendenza leibniziana benché recepito in un’accezione alquanto limitativa.

[21] H. Arendt, lettera a G. G. Scholem del 24/6/1963, in Ebraismo e modernità, trad. it. antologica a cura di G. Bettini, Feltrinelli, Milano 2001, p. 227. Riferita in particolare all’opera di Heidegger, l’espressione ironica «poesia concettuale» è di Rudolf Carnap in Überwindung der Metaphysik durch logiche Analyse der Sprache («Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio», in Erkenntnis n. 2, Wien 1931-32; trad. it. in Il neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, UTET, Torino 1969).

 

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