La statua e la farfalla

 

 

Sì, ero io quell’idolo

simulacro di Afrodite,

scolpito da Pigmalione

nell’isola beata di Cipro.

L’artista arse di desiderio

per la sua vergine opera

e pregò la dea dell’amore

di infondere in essa la vita,

finché avvenne il prodigio.

Lenta si mosse la statua,

scendendo dal piedistallo

sostenuta da mano amica.

Incerta se essere al mondo,

si guardò intorno stupita.

 

Morbida è questa carne

così bianca come il latte

e il mio corpo è ben fatto,

ideato per dare il piacere

ma senza poterlo provare.

C’è un qualcosa di rigido

giù in fondo al mio animo,

di cui non so darmi pace.

Essendo nata già adulta,

non ho ricordi d’infanzia

né memoria di un passato

che non sia troppo recente.

Quel poco che ho imparato

l’ho appreso dal mio sposo

e lo devo alla sua pazienza.

 

Pure, nel cuore della notte

spesso mi assale il timore

di tornare ad essere statua

da un momento all’altro.

Allora tocco il mio corpo

per avvertire il suo calore

e mi alzo svelta dal letto

per accertare che il moto

percorra le mie membra.

O pungo un dito con l’ago

per vedere il sangue rosso

stillare sul bianco lenzuolo

al chiarore di una lampada.

 

Aspettare la luce dell’alba

davanti alla finestra aperta

per respirare l’aria fresca,

nell’ansia di non svegliarmi.

Anche gli umani, mi dicono,

vanno soggetti a certe paure.

Loro almeno sanno distrarsi,

illudersi di pensare ad altro

persuasi di farlo sul serio.

Che cosa mai può attrarre

una statua priva di fantasia?

Appena è giorno, una farfalla

entra nella camera in ombra

e traccia un palpito di colori.

 

Si racconta che l’anima

possieda ali di farfalla

e conosca aerei sentieri

che conducono al cielo.

O signora di quest’isola,

se a te piacque liberarmi

da una crisalide d’avorio

tu hai agito con prudenza:

accordasti una vita sterile.

Così incapace di generare

qualche stirpe di automi,

mi sento come impietrita

dallo sguardo di Medusa

con la chioma di serpenti

e il suo ghigno disumano.

 

“No, tu non sei una statua”,

prova a consolare il mio re

destato da un raggio di sole,

“Anzi, non lo sei mai stata.

Di nuovo invocherò la dea

perché ci conceda un figlio”.

So che mente a fin di bene

e mi attribuisce ambizioni

che non mi sono consentite.

Però cerco di fingere anch’io

per ricambiare la gentilezza.

“Sì, non lo sono mai stata”,

gli ripeto, “È solo una mania

passeggera. Vedrai che tutto

si aggiusterà, con il tempo”.

 

Poi lui mi chiama per nome

ma esso non mi appartiene

e faccio fatica a ricordarlo;

io stento a voltarmi quando

odo pronunciarlo: Galatea.

Vorrei averne uno solo mio

che fosse inventato da me,

e temo ciò sia impossibile.

Forse siamo un po’ statue

tutti, in attesa del risveglio.

Ciascuno di noi è a rischio

di tornare al freddo marmo,

quasi nelle sale di un museo

dove sola vita è una farfalla

che vi voli per un puro caso.

 

 

Pino Blasone

 

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